Giugno 2004

Metamorfosi africane

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Le giravolte

AA.VV.

 
 
 

 

Volava leggero come gabbiano d’inverno,
novello Icaro
innocente,
stupefacente.
Volava e rideva,
di tanto in tanto ritornava
nel ventre
della terra...

 

Dietro la maschera
il ritmo dell’universo

Quando ci accingiamo a pubblicare qualcosa di africano, a mio avviso, è necessario far precedere il testo in composizione da un clima tutto specifico e mirato, un clima fatto di parole adatte al pathos che necessariamente ci avvolgerà: in altre parole, non possiamo iniziare di colpo a descrivere quel mondo straordinario, in genere a noi poco noto.
L’argomento sarà la “maschera africana”, ma dovete concedermi un preambolo diversivo, che fin dal principio colori e sensibilizzi le vostre più attente capacità di vedere e di sentire il mai visto e il mai sentito.

Perché – io vi sono stato qualche anno – l’Africa vive di questi miracoli. Dedico pertanto al lettore alcuni versi propedeutici. Me ne scuso, ma devo:

“Baobab mi sento / quando cala il vento / e tutto intorno muore / in uno stagno di tropical languore. Simile al baobab contorto / nella mia polvere sono quasi morto. / Eppure, speranza, quando mi sorridi / allora sono il baobab dei nidi / che sembra il simbolo della resurrezione / di nostra povera natural condizione. / Sia corroso e cinereo o verde e forte / vedo nel baobab il nemico della morte. / Fatto di soli tronchi privo dei suoi rami / sembra che invochi nuvoli lontani / e la sua voce si diffonde nel deserto / come campana di naufraghi in mare aperto. / Pien di forza vitale non cresce ma si erge / e nell’avara sabbia le sue radici immerge / uguali a braccia e mani che cercano un tesoro / per dimostrarci la vittoria del lavoro. / Muta rinasce e muore / là dove tutto brucia di dolore. / Non è che sia una pianta, è un uomo / creato in principio per essere buono, / poi condannato invece ad aver sete / sempre cercando l’acqua e la sua quiete. / Per questo, come un baobab mi sento / quando la luce acceca e cala il vento. / Così, nel baobab mi riconosco / e nelle rughe sue intravedo un bosco / di mutazioni vicende bramosie / come nella savana delle cose mie”.
Detto questo, potete capire perché mi ammalai di mal d’Africa e decisi di conoscerla a fondo, nei suoi particolari poco noti, secondo il mio metodo di cultura accumulata in itinere, che è parte del mio viaggiar conoscendo.

Per esempio, la parola “arte” la cercheremo invano nelle opere di etnologia, pubblicate durante la seconda metà del secolo scorso. Quando si trattò dell’Africa, ogni espressione, plastica e basta, servì ad illustrare momenti di semplice vita fisica, pseudo-sapienziale o anche nebulosamente religiosa.
Quella “africana” era in sostanza un’arte applicata, nella quale si concretizzava un’immagine astratta, spesso ridotta a motivo di decorazione. L’esploratore si interessò soprattutto allo stile di alcune figure, rudimentali quanto povere.
I difensori del gusto accademico europeo parlavano con disprezzo degli idoli grotteschi, provenienti da popoli che nel loro linguaggio ignoravano il termine “bellezza”. Dopo la prima guerra mondiale, si produsse il cambiamento decisivo e, nel aggio 1919, la Galleria Devambez di Parigi organizzò la prima mostra di sculture africane.
Nel 1920 esce Antologie négre di Blaise Cendras; nello stesso anno, Action fa conoscere sul prodotto africano l'opinione di artisti e di scrittori come Picasso, Jacques Lipschitz e Cocteau, mentre ne scrive oramai con rispetto il cubista Juan Gris, per non citare Braque, Derain, Vlamik, Matisse e Fernand Léger. Sono tutti d’accordo: la scultura negro-africana è la prova della possibilità di un’arte addirittura contraria allo spirito della Grecia classica, basata sull’individuo trasformato in suggerimento universale. L’arte negro-africana, animata da un afflato religioso, procede per intuizione: è idea incarnata, è partecipazione sensibile alla “surréalité” dell’universo e alle forze vitali che lo animano.
Intanto, nel 1921 la scultura africana viene “scoperta” a Venezia, in seno alla XIII Esposizione Internazionale. A Berlino, Carl Einstein e a Parigi Lucien Lévy-Bruhl pubblicano studi onestamente perplessi circa la schematica opposizione tradizionale tra mentalità primitive e mentalità civilizzate. L’anno seguente è la volta della Brumer Gallery di New York, poi del Brooklyn Museum of Art, a prendere finalmente atto di una nuova realtà estetica, che fu detta “indigena”.
A questo punto, se volevo capire questa nuova realtà artistica, dovevo prima comprendere il concetto africano di maschera, dimenticando ogni precedente definizione “bianca”.
Per esempio, posseggo la raffigurazione di un ibis, in legno originale, monolitico: è l’uccello cacciatore che distrugge i serpenti, già sacro presso le tribù del Nilo. Visto di lato, emerge solo il becco lungo e appuntito; visto di fronte, il mio prezioso ibis si trasforma in maschera quasi umana, da agitare in alto durante le cerimonie che scongiurano la presenza di spiriti sconosciuti, nemici dei raccolti. Il che è come dire: ogni opera d’arte africana nasce in principio da esigenze agricole, popolari, in ogni caso magico-religiose. La maschera, in particolare, ma anche tutta l’inconsapevole creatività dell’artista africano sono da intendersi come elementi catalizzatori di forze ancestrali in quel misterioso vortice che insegue e accultura l’animista, uomo esteticamente attivo per eccellenza. Egli vive e produce, oggi, nella vasta area che va dal Sénégal all’antica Angola, interessantissimo spazio etnico, limitato a Nord dal Sahara, ad Oriente dai Grandi Laghi, a sud dal deserto del Kalahari.
La maschera africana non è riferibile ad un morto particolare, come i nostri monumenti funebri, bensì all’idea della morte. Con l’uomo moderno essa ha in comune soltanto l’antico desiderio della trasfigurazione, ma l’africano anela alla metamorfosi molto più intensamente di noi. Per lui, maschera è liberazione, è fuga dalla condizione quotidiana, ovvero unica possibilità di partecipare alla vita dell’universo.

L’uomo primitivo che indossa una maschera si appropria di energie vitali extraumane, potenti quanto occorre per purificarsi e affrontare le paure d’ogni giorno. Questa autosuggestione istintiva lo convince che la maschera possiede virtù segrete, grazie alle quali egli si sente partecipe delle forze cosmiche. E’ allora che avviene un prodigio, il gruppo lo avverte, l’ipnosi è collettiva. Quando l’africano comunica ai compagni del villaggio, anch’essi in attesa, l’avvenuto contatto col soprannaturale, la maschera si trasforma in una specie di “medium sociale”. Sì, perché gli africani, specialmente quelli dell’interno, credono i viventi in contatto con gli spiriti degli antenati, detentori di forze magiche, e vogliono propiziarseli: una volta rappresentati sotto forma di simulacro, costoro abiteranno l’oggetto-contenitore, per trasformarsi in divinità da usare nelle vicende terrestri.
Ecco perché a lungo si attribuì all’arte africana un carattere semplicemente funzionale, identificandola con una specie di misticismo in cui gli stregoni erano sacerdoti, capaci soltanto di opere propiziatorie o di abbellimento della realtà, mentre l’arte gratuita, libera, fine a se stessa, rimaneva privilegio particolare di civiltà evolute e lontane. Insomma, per noi la maschera è mezzo di camuffamento o di rappresentazione; in Africa è lo stesso soprannaturale che presiede alle cerimonie del villaggio e veglia sulla vita del clan.
Il discorso sempre più mi interessava: dunque la maschera è elemento primordiale, capace di dominare ogni istinto; non è volontà di evasione psicologica come fra noi, è volontà di potenza, è gioco che trasmette il ciclo nascita-morte nei misteriosi poteri extra-umani, dei quali è pervaso il mondo irrazionale.
In tal senso ho definito l’arte negra “medium” che mette in contatto l’umano con il soprannaturale. E’ una liturgia non “dettata”, bensì connessa con il ritmo creatore dell’universo. Mi viene in mente la danza...
Comunque, che si tratti di un’arte-devozione (sia pure a me profano) lo testimoniano,o oltre la sacralità del legno, valore primario in Africa, i materiali nobili definiti “di corte”, che l’artista usa con cura speciale: il bronzo e l’avorio. Egli, fra l’altro, non è naturalista all’europea; egli vuole esprimere idee generali, ignora il ritratto, abolisce i segni del volto individuale; il suo realismo è ottenuto da una spaiente disposizione di volumi, ridotti all’essenziale. Egli è principalmente scultore, per nascita.
Le sue effigi, specie se di pietra vulcanica, inventano espressioni che vengono da dentro e che sembrano concepite nell’immobilità di un mondo trascendente, colte nell’attimo di uno scatto, più che di un gesto simbolico.
Nell’arte autenticamente “negra” la figura è eretta, rigida, senza rotazioni né panneggi, simmetrica lungo un asse longitudinale. E’ la forma sproporzionata che deve impressionare, non i colori vegetali, che sono sempre e soltanto tre: bianco, nero, rosso.

Mi accorsi presto che niente fu mai toccato e ritoccato, di conseguenza patinato, come le statuette dell’Africa Nera, e pensai che una scultura, un pezzo qualunque di qualche materia, lisciato nel tempo, di padre in figlio, è come un’idea che si può carezzare, come un sogno da tenere in pugno, anche se dotato di poteri sovrumani. In Africa, un semplice amuleto, fatto di etalli taumaturgici fusi insieme, tuttavia distinti, quasi a formare il disegno di una moneta cieca, spessa, circolare come un pezzo di sole caduto nella foresta, è da considerarsi scultura. E’ questo uno dei miracoli ai quali mi riferivo.
Ricordo che un vecchio senegalese mi diceva di toccare e ritoccare quella strana cosa continuamente: la mano calda trasmette e riceve forze magnetiche. L'amuleto diventerà lucido, solido, multisostanziale, per il calore che riceverà. Tornerà meteorite, un oggetto caduto agli uomini dal cielo, testimone dell’infinito: e sarà il portafortuna dei fanciulli, dei poveri, dei poeti… «Che altro è l’arte – mi sorpresi a riflettere – se non emblea, simbolo, allusione?».
Vorrei potervi mostrare la mia bamboletta Baulé: una donnina nuda, con strane referenze orientali nei tratti non camusi del viso triangolare. E’ un piccolo totem, un feticcio propiziatorio della maternità.
Mi limito ad aggiungere che la cosiddetta “arte di colore” è creazione essenziale, non leziosa, sempre efficace e nobile, qualunque ne sia il volume. Toccai croste di sangue animale e terra, intorno a carcasse spennacchiate; palpai levigati specchi di metallo; collane di terracotta e pasta di vetro; piume e denti di bestie senza nome; conchiglie cangianti: tutte cose indefinibili, nelle quali si nasconde la potenza del mondo invisibile, che ‘africano stilizza in mille forme, persino nei pesi-proverbio dei tempi della polvere d’oro.
Il buio dell’aldilà suscita paure; per questo, chi oppone una presunta luce al male è sacerdote, prima ancora che artista. Però non si mostra facilmente ai profani, scultore, tessitore, vasaio o fabbro che sia, è membro di una società chiusa, è maestro che non espone, che lavora lentamente, in segreto: il suo è un mistero da custodire. [Per notizia, chi scrive ha donato la sua collezione di bronzi africani – 120 pezzi – al Museo di Paleontologia di Maglie, che sta allestendo un’apposita stanza espositiva].

Cercherò di chiarire meglio. Abbiamo detto che la maschera africana è un’espressione plastica, che nasce da esigenze magico-religiose. Aggiungo che la maschera africana è l’elemento catalizzatore di forze misteriose, collegate al grado di primitività ancestrale, non è il travestimento psicologico dell’uomo moderno.
Il suo linguaggio è complesso e simbolico; è presenza continua. Ogni momento di vita ha la sua cerimonia, da dove la grande casistica dei tipi di maschere, tuttavia sempre collegati alla danza, considerato che per l’africano il ritmo è m’essenza originaria dell’universo.
Oltre alla danza, il legno è l’altra costante; dico legno per non dire albero, che è l’unico materiale da scolpire: non per caso le sculture hanno spesso forma cilindrica, con soluzioni tridimensionali obbligate.
Ripeto: l’artista africano non fa ritratti, semplifica invece un’idea generalizzata, ogni dettaglio è abolito. Il nostro naturalismo cerca la somiglianza; qui si procede dal particolare all’universale: i volti sembrano appartenere al regno silenzioso dei sogni. Lo scultore cerca sì invenzioni, ma è il capo religioso del villaggio a custodire e regolare il cerimoniale delle maschere, alle quali la tribù chiede solo protezione e virtù, capaci di allontanare gli spiriti malvagi. Una notizia interessante: il portatore che nel gruppo si sia distinto per meriti sociali (sic!) trasmette altri pregi, altri valori alla sua maschera.
Il souvenir che noi compriamo nei mercati ad uso turistico sarebbe destinato a marcire, poiché perse ogni potere, causa indegnità sopraggiunta del portatore stesso; ben più importante di costui, nel gruppo tribale, rimane lo scultore, artista inconsapevole per vocazione ereditaria, che tutta via continua il lavoro di agricoltore. La produzione non supera alcune decine di esemplari, in tutta una vita.
Massima preoccupazione il rispetto delle tradizioni della sua gente; a lui basta inventare un oggetto straordinario, atto a comunicare con il soprannaturale. Non si creda, però, che l’arte africana sia dedicata a pochi. Nient’affatto settaria, come i più credono, essa ha una funzione attiva nel clan.
All’interpretazione dei misteri della vita metafisica, al continuo dialogo con gli antenati, essa aggiunge un compito pedagogico: spiega ai giovani in via d’iniziazione il significato dell’esistenza quotidiana. Vi sono maschere che plasmano il carattere e che presiedono ai divertimenti del villaggio. Esistono anche quelli, l’Africa non è una terra triste, come crediamo. Per esempio, c’è la “maschera che corre”, quella portata in giro dal più veloce abitante del villaggio, consumato messaggero il quale pianterà in asso ogni attività ludica, in caso di incendio o di pericolo, per avvertire nei campi la gente che lavora; così come all’alba aveva controllato lo spegnimento di ogni fuoco, tra le capanne rimaste incustodite…

L’Africa, per me, fu meravigliosa fonte di scoperte inattese. Le collane sono fatte di “conterie”, chicchi e perline di vetro, apprezzatissime; ma quanti sanno che detto nome deriva da un verbo veneziano, “conto”, che significa “adornare”. E non dimenticherò mai, passando ad altro, gli occhi resi con le sole palpebre lunate, nei caschi di danza presso i Mende della Sierra Leone, sbalzate in forte rilievo, attraverso le cui fessure la danzatrice ti guarda.
Perché tanti crani e tante piume? Rappresentano le forze del cielo e della terra. Perché tanto fango? E’ il principio della vita. Perché da una testa sporgono le gambe? Perché tutto deve essere controllato dalla mente. Ho amato l’Africa, in quanto regno dell’allegoria.
Potrei continuare. preferisco piuttosto, a dimostrazione di quanto sia poco nota certa antropo-geografia, riprodurre, a titolo finale, un’antica preghiera dei Borana, raccolta quand’ero diplomatico in Kenya e profittavo della cultura empirica di mons. Pietro Caggiano, antropologo e missionario, che insegnava teologia in un collegio cattolico non lontano da Nairobi. Il testo è lungo, ma merita di essere letto, se pretendiamo di avere imparato veramente qualcosa intorno a un popolo:
“Oh Signore, dammi un giorno di pace / fammi passare un giorno di ace. / Dovunque io vada : guida i miei passi / preparami un sentiero di pace. / Quando io parlo / tieni lontana da me la superbia. / Quando sono affamato / tiene lontana da me l’invidia. / Quando sono sazio / tieni lontano da me il disprezzo. / Col tuo aiuto / trascorrerò questo giorno, / oh Signore che non hai signori. / Oh Signore guida i miei passi.
O buon Dio di questa terra mio Signore / Tu stai sopra di me e io sotto di TE. / Se la sfortuna mi visita / e una pianta mi nasconde il sole / tienimi lontano dalla sfortuna. / Oh Signore sii la mia ombra. / Rifugiandomi in Te io passerò il giorno io passerò la notte. / Quando la luna apparirà non abbandonarmi. / Quando mi leverò non ti abbandonerò/ / tieni lontano da me ogni pericolo. Dio mio Signore / Tu sole dai trenta raggi / quando il nemico viene / fa’ che non un tuo verme sia ucciso sulla terra / ma solo se calpestiamo e uccidiamo un verme sulla terra. / Ma Tu se ciò ti piace schiacciaci sulla terra. / Oh Dio che tieni nelle mani il buono e il cattivo / mio Signore non permettere che siamo uccisi / noi tuoi vermi che ora ti preghiamo. / L’uomo che non sa il bene e il male non ti fa arrabbiare / ma se avesse potuto saperlo e si rifiutò di saperlo / costui è cattivo: trattalo come ti fa piacere. / Se invece egli mai imparò / per favore oh Signore insegnagli. / Se egli non impara il linguaggio umano / imparerà la tua lingua.
Oh Dio tu che hai creato tutti gli animali e gli uomini / e il grano da cui a nostra vita dipende. / Tu l’hai fatto non l’abbiamo fatto noi. / Però ci hai dato la forza / ci hai dato le vacche. / Noi abbiamo lavorato con esse / e il seme crebbe con noi / con il grano che Tu facesti crescere. / Ora il grano è bruciato nel granaio. / Chi lo ha bruciato? / Tu solo lo sai. / Se io conosco una o due persone / è quando le ho viste coi miei occhi. / Tu invece anche senza averle viste coi tuoi occhi / le conosci nel tuo spirito. / Un malvagio ha allontanato la nostra gente dalle case. / Egli ha sparpagliato le madri e i figli / come un gruppo di tacchini qua e là. / Il sanguinario portò via il ricciuto bambino.
Tu hai permesso che tutto ciò accadesse: / perché lo hai fatto? / Tu solo lo sai. / Quando il grano sta per crescere / Tu mandi le locuste. / Perché lo hai fatto? / Tu solo lo sai. / Io so che Tu mi ami. / Allora rendimi libero. / Se non ti prego con tutto il cuore / non ascoltarmi. / Ma se ti prego con tutto il cuore e Tu lo sai / sii benevolo con me”.

Di questa lunga preghiera non chiedetemi il senso e nemmeno la punteggiatura. Fate conto che in lontananza un tam-tam ne scandisca il ritmo. Forse allora i concetti troveranno una logica e i Borana canteranno in armonia storie per noi sconnesse e sconosciute.
                                                                                                            

                                                                                                            florio santini

 

Altri naufragi

..... “Le infauste
notti... illuni ( ? ) ...
... allora crollano
– ... esauste... –
le Illusioni ed esce – ... esangue,
lasche le membra... – , tra gl’infidi – IMMUNI! –
‘compagni in S. Giovanni’
(da un’Ampolla
– metallica...? ... Che langue! ... –
agogna
TREGUA
al suo ululare
lugubre), il LICANTROPO...

...................

Annaspa: in fondo al Vino; dentro l’Antro
– ... atro il latrare... – ,
sogna

{l’orba Strega
– torbo alabastro
il viso... quasi l’ASTRO! ... – ,
cui si prostrò incantato
[INCATENATO
(la morsa – od il rimorso?... –
della CARNE,
che un lemure ermo,
errante – ... di quattr’orme... –
può farne...
... spettro
scevro da ogni SCETTRO! ...),
di morsi
– un muro azzanna? – a Cielo e Terra
– BESTIALE! –
egli bestemmia la sua guerra;
di Sole e Mare
– ... indarno... – brama sorsi,
ma, nell’ – a mo’ di rete –
sulle cose,
di Sale
– che le abrade... come SETE
le rose...
AMARO
manto,
svela,
raspandovi, di un’aspra LUCE – INGRATA! ],
sbranata }

che demorda la TARANTOLA
e l’ancora
e la vela
indi si liberino
all’esule Naviglio e sì si librino
dall’arenile al – ... magico... –
Infinito
di altri naufragi...
... con il gusto... ARCANO...

...................
...................

E {ormai svanito
[ o: ( quando s’inortica
il GECO...
... la CICALA impera... un’... eco...
è la CIVETTA – la Sibilla? – ... antica...)
da un aureo «spillo»
«punto»,
che una «croce»,
nell’«arco», ha espunto
– l’ombra?... di Una VOCE... ]
il demoniaco fregio
dal Sigillo },
sortendo al Sortilegio
in un’ebbrezza,
le cui – ... MERE... –
chimere
e la dolcezza...
...venefica
– ed EFFIMERA! ... non requie
né oblio alle vene furono – ma ... RABBIA! –,
l’antidoto, si finge alle sue esequie...
...di sabbia
– solo! ... Almeno? – , delle Prefiche.....”

...................
...................
...................
giuseppe milone

 

Dolce agrume di Sicilia

Si alza il sipario. Luci soffuse. Al centro del palcoscenico uno sgabello. L’attore entra in scena, si siede e legge a voce bassa.


                                                                          20 agosto Sicilia-Puglia (in autobus)

Si può attraversare i muri cogli occhi...
Se non ci fosse la musica direi di essere in un sogno. Non bello, incompleto. Avverto ostinatamente un senso di mancanza, che non è mancanza di qualcuno o qualcosa al di fuori di me. E’ mancanza di me.
Attraverso un deserto. La strada è quella che porta a casa. Casa, concetto borghese di 4 mura che danno tranquillità.
Io sono borghese, anzi aristocratico, di cervello blu, ma una casa è per me concetto diverso. E’ la felicità su cui costruisco 4 mura.
Non ho cambiato molte case. Per inclinazione preferisco dormire sotto i ponti. Lo spirito che fluisce, fa da fiume. Occhi come stelle, occhi di donne. Potrei popolare il cielo di occhi di donne (gli occhi di donna chiedono solo di essere ingannati. a oscurare le stelle).
Sentimento di estraneità.
Non posso fingere. Qualcosa mi tormenta. Forse è la bruttezza del paesaggio che scorre. Arido. Squallido. Neanche la mia malinconia, amica di tanti momenti di solitudine non condivisi, riesce a nutrirsi...

                                                                                                       Lecce, 31 agosto

Fa freddo. Fa un freddo cane oggi su di me. Valeria è un fiocco di neve sulla mia testa.

                                                                                                      «Lecce, 31 agosto

Sento la neve cadere. Non importa che è agosto. Io la sento venir giù. Candidamente, soavemente.
S’ammanta la strada. Perdo le tracce. Brividi di gelo io respiro. Ma immobile giaccio...
Distese di bianco. Coltre silenziosa. Occhi che cercano la punta di piedi. Ma immobile giaccio...
Un fiocco mi si posa. E’ alba dell’anima.
                                                                                                                  Armand»

 

                                                                                                   Lecce, 15 settembre

Perché distiamo 600 km. da me a me e da lei a lei? Perché il tempo è così maledettamente lento?


                                                                                                  «Lecce, 15 settembre

Il tempo. Distanza che separa? Felicità nel cammino? Non esiste unidirezionalità. Non esiste armonia. Esiste un bordo instabile su cui impariamo a muovere i primi passi.
Dopo l’alba. Alba della coscienza.
C’è un diritto alla felicità. O c’è un dovere di felicità?
Esistono più dimensioni del tempo.
Quella ipocrita: il tempo? Un’assurdità. Il tempo non esiste.
Quella materiale: il tempo è necessario. Trasforma i pensieri in azione.
Quella onirica: il tempo è l’estensione percettiva della sensibilità. Il tempo si dilata.
Quella spirituale: il tempo è l’ignoto che ci osserva.
Quella statica: il tempo è ogni attimo che fugge via.
Quella dinamica: il tempo fluisce.
Quella geometrica: il tempo è lo spazio tra infinito e infinito.
Quella romantica: il tempo è il dono che Dio concede all’amore.
Amore. E sofferenza. Ci può essere amore se c’è sofferenza? Ci può essere amore dopo la sofferenza? C’è amore tra sofferenza e sofferenza? O c’è amore a causa della sofferenza? O c’è amore per mezzo della sofferenza? O amore e sofferenza sono la stessa cosa?
Lessi un giorno un proverbio arabo: il destino è il disegno bellissimo che sta dall’altra parte del telaio. Di qui ci sono i nodi.
                                                                                                           Tuo Armand»


                                                                                                   Lecce, 30 settembre

40 giorni. Son passati 40 giorni. E tutto tace. Strana la vita. Strane le donne. Bah, in fondo la vita non è strana, né normale. Registra gli accadimenti. E gli uomini vi danno un significato. A volte basta accettarlo.
– Mi ricordo i suoi occhi. Mi ricordo la sua voce, dolce, esile, mentre mi chiama dall’acqua. Mi ricordo il suo viso. Poi, gli occhi chiusi e i capelli bagnati. Mi ricordo un sorriso –.
40 giorni. Niente. Silenzio. Vuoto. Non una risposta, non una misera parola. Sono di nuovo solo.


                                                                                                        Lecce, 5 ottobre

Finalmente una sua lettera...
Perché le donne sono così crudeli?

                                                                                          «Desolate land, 15 ottobre
                                                                                                               mezzanotte 

Mia cara Valeria,
è una sera qualunque, una delle tante che si susseguono in attesa di eventi. Non avevo mai pensato alla crudeltà di una notte senza raggi di luna. Sarà questo che mi spinge a scrivere. La penna come pennello per dipingere sul nero fondo raggi d’argento. Pennello intinto nell’argento vivo del mio cuore.
Oggi sono triste... perché ho capito di aver commesso un imperdonabile – ahimè – errore.
Quello di non averti baciata. Adieu.
                                                                                                      Tuo per sempre»


Un colpo secco, metallico, rimbomba sul palcoscenico vuoto e semibuio. Una goccia color porpora si posa sul foglio. Cala il sipario. Applausi. L’attore esce di scena. Lo spettacolo è finito.

                                                                                                    armando mancuso

   
   
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