Giugno 2004

L’icaro innocente

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Ernesto Barba
figlio del sole
Maurizio Nocera  
 
 

 

 

 

 

Volava leggero come gabbiano d’inverno,
novello Icaro
innocente,
stupefacente.
Volava e rideva,
di tanto in tanto ritornava
nel ventre
della terra...

 

«Sì, pronto. Sono Maurizio. Tu chi sei?».
«Sono Ernesto. Ernesto Barba. Vedi che tra qualche giorno passerò dalle tue parti. Se ti fa piacere, potremmo anche incontrarci. Sicuramente verrò a Gallipoli. Ti telefonerò».
Era l’inverno di un anno che ora non ricordo più. Un anno comunque lontano nel tempo. Quella sera faceva freddo, la tramontana spazzava la perla del Salento, rendendola città-sogno felliniana. Ora comprendo i motivi profondi del comportamento di Ernesto, del perché, a tutti i costi, ci tenesse a vederci nei luoghi più impensabili e alle ore più strane. Più di ogni altra cosa ricordo il suo rito. Percepivo che i suoi movimenti e le sue decisioni erano frutto di un suo antico rituale, cioè di un suo modo di essere che, una volta espletato, gli metteva poi l’anima in pace. Ad accompagnare Ernesto a Gallipoli, volta dopo volta, c’era sempre un uomo diverso dall’altro. Non gliel’ho mai chiesto, credo però che si trattasse di una sorta di tassista pagato a ore o a mezze giornate. Molte altre volte, veniva invece col suo amico del cuore: Franco Pisanello, dello Sheraton-Nicolaus di Bari.
Ernesto Barba era veloce come il vento. In poche ore di permanenza nel Salento, in particolare a Gallipoli ma anche a Copertino e a Lecce, compiva molti degli obiettivi che si prefiggeva. A Gallipoli, faceva visita ad alcuni personaggi che io pure conoscevo, il dr. Alberto Laviano ad esempio, oppure a Fernando De Rossi ma, francamente, non ho mai capito molto quali fossero i motivi dei suoi incontri con questi comuni amici; forse, ma tiro ad indovinare, per quanto riguarda il De Rossi, il suo incontro con lui poteva riguardare questioni riguardanti il mare, perché Fernando possedeva una buona conoscenza sui traffici e su tutto ciò che ruotasse attorno al porto e alle marine gallipolitane.
Ernesto sbrigava poi qualche altra faccenda come, ad esempio, quella di andare – spesso senza farsi riconoscere – nell’edicola dei fratelli Bono al Borgo, oppure in quella dei Casavecchia all’interno di Gallipoli vecchia, e lì comprare le pubblicazioni sulla città che gli interessavano. Faceva ancora dell’altro. Andare, ad esempio, a visitare un Pineto, che per Ernesto non era – parole sue – «una pineta, come quella che sta in fondo, dietro lo stabilimento del vino, ma un bosco grande grande che comincia dalla spiaggia, dal mare e ci sono pure i canali del rimboschimento contro la malaria». Poi, al crepuscolo, prima che la chiesa della “Purità” chiudesse le sue porte, entrava da solo in questa piccola Cappella “Sistina” nostrana, mentre io aspettavo sull’uscio, da dove ugualmente potevo vederlo sedersi su uno dei posti del coro e assumere lì una posizione tale che gli consentiva di guardare fissamente un punto della parete. Lo vedevo profondamente assorto nei suoi pensieri, rapito da qualche suo recondito segreto dell’anima, difficile da interpretare.

Il suo atteggiamento non era quello tipico di un orante. Piuttosto i suoi raccoglimenti nella piccola chiesa gallipolina avevano sì un qualcosa di profondamente mistico, ma un misticismo affatto finalizzato a questo o a quel credo, perché la sua cultura religiosa era planetaria e non era facile restringerla nell’ambito di una sola fede. E’ certo che Ernesto Barba è passato attraverso il Cristianesimo, l’Islam, il Confucianesimo, il Tantrismo, l’Animismo, il Buddismo, l’Ebraismo. Forse anche altre religioni, delle quali io ignoro l’esistenza.
Comunque, questa sorta di rito speciale, Ernesto lo compiva come ultimo atto della sua brevissima permanenza a Gallipoli. Nell’auto con la quale giungeva in città c’era sempre pronto un mazzo di fiori di stagione. Più di una volta, l’ho accompagnato silenziosamente al cimitero, in un’ora del crepuscolo, quand’ancora il custode non lo aveva definitivamente chiuso.

Quando c’era Ernesto Barba, il custode del camposanto di Gallipoli sapeva come attardarsi, soprattutto grazie al rispetto e alla stima che egli aveva nei confronti di Aldino (Ndino) Barba, lo zio silenzioso e irraggiungibile per Ernesto per via di antiche storie di famiglia. Per la verità c’erano anche altri personaggi di questa straordinaria città-sogno felliniana per i quali il custode aveva rispetto: ad esempio, per il dottore Salvatore Coluccia e per Ennio Stefanelli, il tipografico che stava all’angolo del palazzo di città “Balsamo”.

Nel camposanto, Ernesto faceva un percorso silenzioso, interrotto solo da qualche domanda su come va la vita di questo o di quello, delle morti importanti che c’erano state nel frattempo, della vita amministrativa della città, se fossero cioè i comunisti foscariniani a governare oppure la destra economica. Poi giungevamo al gruppo di tombe che interessava Ernesto, e fra queste, oltre a quella del padre, ce n’era una alla quale egli teneva molto. Era quella del suo avo Emanuele, la cui lapide tiene inciso questo epitaffio: “1818-1887 / Alla imperitura memoria / del cittadino esemplare / Emanuele Barba / medico letterato patriota / quanti educando emancipò / riconoscenti posero”. Passavo il mazzo di fiori ad Ernesto, che lo appoggiava alla base di questo marmo, lambendo così anche parte di un’altra lapide, quella di Maria Barba, l’ottocentesca zia monaca di Ernesto.

Dunque, quella sera faceva veramente freddo ed Ernesto aveva una gran voglia di ripartire subito. Scendendo la scalinata del cimitero scherzò un po’ sulle cose che aveva ancora da fare: pernottare in una stanza d’albergo a Lecce e poi, all’indomani, farsi accompagnare alla Grottella di San Giuseppe da Copertino e lì parlare con qualcuno del posto sulle e delle vicissitudini del santo dei voli. Solo dopo si faceva accompagnare all’aeroporto di Brindisi per ritornare a Roma oppure in qualche altro posto lontano migliaia di chilometri dal Salento.
- «Ciao, Maurì, ci risentiremo per lettera. Ah, dimenticavo, mia madre, mammà Vera Gaeta, dice che hai dimenticato qualcosa dei miei avi Emanuele Barba (medico cerusico e fondatore del Museo, nonché grande personaggio della storia gallipolitana) ed Ernesto Barba (primogenito di Emanuele, direttamente nonno del Nostro, e anch’egli grande personaggio della storia di Gallipoli a cavallo tra Ottocento e Novecento), allora che passasti da lei a Roma. Mi ha dato questa busta per te. Ciao e ricordati sempre che... “mannaggia ‘e ffemmene!”». [Ernesto usava spesso questa espressione, e ciò, in chi lo ascoltava, poteva dargli l’idea di disprezzare le donne. Come tutti sanno invece era tutto il contrario. Ernesto non solo amava visceralmente le donne, ma la sua passione sconfinava fino a coivolgere tutto ciò che sapesse di “femmina”].
Quella volta lì, rimasi con la busta in mano. Sapevo cosa contenesse. In fondo si trattava di carte che anche Ernesto si era trovato spesso fra le mani, che spesso aveva osservato in modo quasi maniacale, proprio come facevo io a quel tempo. Erano i ricordi garibaldini del suo antenato più famoso: l’incisione di Emanuele Barba e il ritrattino di Garibaldi su stoffa; l’autografo di Luigi Castellazzo; la bolletta di un deposito postale; la busta e la lettera di Garibaldi inviata da Caprera il 12 novembre 1863; un foglio a stampa dell’Associazione culturale italiana, sezione di Gallipoli; un altro foglio volante con stampata la poesia Un sospiro a Garibaldi; un’altra busta e relativa lettera di Garibaldi inviata da Frascati il 10 luglio 1871; un dagherrotipo con le immagini del Dr. Tiberio Riboli con Giuseppe Garibaldi ferito; una ferrotipia con busta del Dr. Riboli; ancora un biglietto da visita del Dr. Riboli e due dagherrotipi di Garibaldi autografati; una busta con una ciocca di capelli e un fiocco di barba di Garibaldi; un’altra busta con lettera della stessa Ceva Altemps Stampacchia inviata da Gallipoli l’8 novembre 1883; una busta con lettera ancora di Ceva Altemps Stampacchia inviata da Torino il 10 ottobre 1883; una riproduzione originale della mano di Garibaldi autografata dal Dr. Riboli; un opuscolo rarissimo di Emanuele Barba; altro opuscolo rarissimo di Giuseppe Garibaldi; altre lettere, altre buste, altre foto, ma di minore importanza rispetto a quelle citate. Erano carte antiche, frutto di antichi ricordi, legami strettissimi di storie, situazioni, speranze, giochi, lotte, alle quali prima Ernesto, ma dopo anch’io, ci siamo legati con infantile fascino, sospiranti i grandi tempi che toccarono questi grandi personaggi del passato e la stessa città ionica.

Quella sera d’inverno di quell’anno che ancora non ricordo, un anno comunque lontano nel tempo, vidi Ernesto allontanarsi, lo vidi volare, un po’ come un angelo, e un po’ come uno dei suoi santi più venerati, quel San Giuseppe da Copertino, lo vidi volare al di là della Serra, al di là dell’abbazia basiliana di San Salvatore nella pianura, e pure di quella di San Mauro sulla Serra.
Ernesto volava al di là della terra, oltre il mare, attraverso spazi siderali, verso luoghi incantati, fatati. Volava leggero come gabbiano d’inverno, novello Icaro innocente, stupefacente. Volava e rideva, rideva muovendo ritmicamente la sua mano infantil-militaresca di angelo vendicatore (penso a Carmelo Bene vestito col costume dell’angelo con in mano la grande spada ondulata), che di tanto in tanto ritornava nel ventre della terra che gli aveva dato i natali e lì trasfigurarsi, gonfiarsi e allungarsi come gigante celeste, per poi divenire gabbianella leggera e sicura e attraversare i cieli tersi e rossi di una Gallipoli ribelle e austera, di una città tanto amata eppure negata, per tuffarsi infine in un oceano di profumo di donna e lì perdersi o confondersi tra le pieghe di Sabellina, sua amica tarantata d’infanzia.
Ernesto partì da Gallipoli dicendo che sarebbe tornato dopo qualche tempo. Per questo rimasi in attesa degli eventi.

Dopo qualche tempo, Ernesto Barba si fece nuovamente “sentire” direttamente da Taipei, attraverso uno stranissimo libro (verde dorato) di poesie, Sistole & diastole, stampate su carta di riso e rilegato con un solido filo di seta rossa, il tutto confezionato dalle mani di Miss Scarlett Chang (Edizioni Siddharta). Era il 1973 ed Ernesto aveva già cominciato a caratterizzarsi come Mashallah, cioè – grazie ad uno pseudonimo tipicamente salentino – come «Francesco Marra / sempre senza una lira / sempre innamorato / colla capo piena di vento / sempre stonato. / Quando morirà seppellitelo / con “il libro dei sogni” / e la coppola in capo».

Confesso che quella volta Ernesto mi stordì, mi ammaliò. E fu soprattutto la sua poesia che mi trascinò sulle mura medievali di Gallipoli. Anche quella fu un’altra straordinaria notte di un inverno di un anno le cui cifre non ricordo più. Comunque un anno lontano nel tempo.
Ricordo che quella notte faceva freddo e il vento di tramontana spazzava la città-sogno felliniana. Con me, sugli spalti prospicienti il castello angioino, avevo il libro di Ernesto, aperto proprio alla pagina della “sua” Questione meridionale: «Sulla strada di Metaponto / li polizziotti m’anno sparato addosso. / Acciso e sanguinato / per 5 metri ho camminato a sforzo. / In una mano tenevo cicoria / e nell’altra una bandiera rosso. / Poi ho caduto morto sotto un fosso».
Tutti sanno che Ernesto Barba era un giramondo. Non stava mai fermo, e io – che ero finanche troppo legato a Gallipoli – mi vedevo costretto a seguirlo solo col vento oppure attraverso un epistolario di carte sempre aperto. Si trattava di carte antiche, nuove, profumate, orientali, guatemalteche, gallipolitane.
Leggendo la sua scrittura, andavo scoprendo un suo mondo del tutto inedito, fatto spesso di grandi contraddizioni, incredibili paradossi, spesso in contrasto durissimo con il mio mondo sostanzialmente di volgare materialista concreto. A volte, leggendo una sua poesia, mi veniva di inorridire davanti a quelle sue incomprensibili posizioni, ma poi i versi erano così belli che era impossibile rimanere insensibili. Nella poesia Storia patria scrive: «Ahi Malasorte! / Avrei dovuto pugnare sul Volturno / contro quei malarnesi dei Piemontesi / (Li pifferi delli granatieri / suonavano la marcia dellu Paisiello / con le cornette delli lancieri). / E avrei dovuto difendere a Gaeta / la bianco gigliata bandiera del Reame. / Sarei morto di fame, sì / ma / ma avrei preso a columbrine in faccia / bersaglieri, tamburini sardi e garibaldini / agli ordini di quel buzurru / del signor generale Firmato Cialdini / Ahi Malasorte! / Così in tenuta bianca sempre fuori ordinanza / sarei dovuto sbarcare / e, gran belle gesta d’Oltremare, / occupare Tripoli, bel suol d’amore / la Marmarica, le Sirti e la Cirenaica. / Poi, / che un bel mori tutta la vita onora, / sarei dovuto saltare in aria / mentre ero dal barbiere / nel quartiere ufficiali della Regia Nave / “Benedetto Brin”. / E il mio pennello insaponato / sarebbe ancora sotto teca / nel museo civico con annessa biblioteca / della città di Brindisi. / Ahi Malasorte! / Avrei dovuto cavalcare / in camicia nera (di seta naturale) / su un cavallo bianco a sella / con un frustino in mano / ed una Macedonia Esportazione, / come se fosse un fiore, in bocca. / Poi avrei marciato su Roma / in una Bugatti Targa Florio / con su scritto “Il Duce non si tocca”. / Ed il ritorno l’avrei dovuto fare / da barone pugliese e fascista perfetto / in vagone ristorante e vettura letto. / Ahi che sorte malasorte / una sorte delle più nere. / Fortuna che feci in tempo / ad essere Balilla Moschettiere».
Una lirica questa del tutto diversa – oserei dire contrapposta – a quella di Las Mananitas che fa così: «Un giorno / un bel giorno d’autunno / i generali / Emiliano Zapata / Pancho Villa / (che era vegetariano) / Che Guevara / scenderanno a New York / e sfileranno / su dei cavalli bianchissimi / alla testa / dell’armata peona / tutti / fatti a marijuana / scamiciati / in sandali guaracha. / Rum e mescal nella borraccia. / I generali / Emiliano Zapata / Pancho Villa / (vegetariano) / Che Guevara / per tutta la Quinta Avenue / dalla Quarantottesima alla Cinquanttotesima strada / cavalcheranno al passo / (quale banda / suonerà las Mananitas?) / tra due ali / di biondissime yanqui / liberate da ogni machismo / conquistate da tanto carisma. / In sandali guaracha / scamiciato / mescal e rum nella borraccia / sorriso marijuanero / sarò anch’io / con voi / Generali / Che Guevara / Pancho Villa / Emiliano Zapata. / Poi scompariremo / all’angolo del Plaza».
O ancora quest’altra lirica, dal titolo Traduzione d’una canzone: «Con i compagneros della taverna / padroni di galli / boxeur pesi welter / fedeli a Castro / e seguaci di Che / una sera alla Calle Moca / ci ubriacammo senza pietà. / Una chitarra scandiva in flamenco / “Che sebbene / sia un uomo sposato / ogni volta ch’io ti vedo / il sangue / mi diventa una pietra”. / Tutti piangevamo - / Caramba! / Ma non era il rum!».
Che strano mondo quello di Ernesto. Eppure mi affascinava. Egli volava sul mondo e sognava, e io di lui sognavo i suoi Sogni: «Vorrei / pieno di streppa / pieno di snuffia / per ore / fare all’amore».
E ancora quest’altra, dal titolo Todo por la patria: «Polizia / con le scarpe pulite / con le unghie alluttate / con i baffi fascisti / con gli occhiali da sole / e uno sputo nel cuore. / Messico / Caraibi / America del Sud / America del Centro. / Se una persona mi gusta / se voglio bene a un amico / me lo mettono dentro».

Tornò a Gallipoli ancora una volta una sera d’inverno di un anno che non ricordo più. Faceva freddo e la tramontana spazzava la città-sogno felliniana. Allora mi mostrò i suoi tatuaggi (una rosa rossa con al centro una svastica) e io ne rimasi sconvolto. La mia anima, fondamentalmente concreta, non li accettava (almeno la svastica), eppure la sua poesia mi ammaliava: «Braccio coi tatuaggi / Braccio ferito a rissa / Braccio d’amante guappo / Braccio di nuotatore / Braccio paracadutista. / Povero braccio mio. / Braccio sinistro / andato a artrite».
Mi disse: «Maurì, tu sai cos’è l’Erba voglio?».
«No», risposi.
E lui: «Datemi / un sole / un mare / una città / una donna / un libro / un amico / che m’indroghi / come una droga / per indrogarmi / ancora / di più».
Ernesto amava il Salento. Molto. Tanto. In Futuro remoto ha scritto: «A Yokohama prenderò il postale per tornare / a casa. / O a Colombo. / Parlerò solo col barman, durante il viaggio / ed i miei capelli bianchi mi salveranno / dai ruffiani nei porti di scalo. / Cosa dirà il finanziere aprendo la mia valigia: / una cicala di giada / un ventaglio dell’epoca Meji / (Quando le donne erano docili e dolci) / e un amuleto taoista / incartati nella pagina sportiva del / “Manila Times”? / E che effetto mi farà / salire sulla littorina delle “Ferrovie del Sud Est”? / Sicuramente alla stazione di Bari / dove tutti i treni si fermano / il rosso del neon che dice “La Gazzetta del Mezzogiorno” / sarà più forte di tutte le luci della Ghinza. / (La Ghinza: diecimila ragazze in kimono / ma non una sola / principessa manchù). / Meloni e faraglioni / castelli saraceni / fortini e rivellini / conventi e trappeti / vigneti e uliveti / montagne spaccate / fontane crociate / fichi d’India. / E lontano / passato il Capo di Leuca / come persi al lotto / da morire di nostalgia / los cocoteros delle isole / le trentasei viste del Monte Fuji / l’impero Khmer profumato d’oppio / il mondo di Susie Wong / e i kimono di Michiko. / Che moriremo dove siamo nati. / In Magna Grecia».
Nella poesia Bar Impero, scrisse: «Chona / cioccolatino al liquore. / Il liquore / della Zia di Lecce / che veniva sotto Natale / col mandorlato / e il liquore. / Chona / cioccolatino al liquore / ri-incontrato a Manila».

Tutte le volte che Ernesto Barba giungeva a Gallipoli, il mondo diventava per me un altro, una sorta di strano Mondo a gogò (una sorta di autobiografia di Ernesto), che egli canticchiava sotto voce: «Il mondo era una bolla di sapone. / A Salisburgo / su un tavolino del caffè Tomaselli / graffiai “Una rosa rossa per Do”. / In Norvegia / vidi un vespasiano / in un bosco. / A Reigate / feci il testimonio a un matrimonio. / A Cracovia / dovetti rompere il ghiaccio nell’acquasantiera. / Ad Angkor Vat / vidi una scimmia masturbarsi. / A Vienna feci una sauna. / Alla stazione di Firenze / mi svegliai ogni volta / che il treno si fermava. / Da Bangkok mandai un telegramma. / Da Los Angeles ne ricevetti parecchi. / A Dusseldorf / in un bar d’invertiti / bevvi un cocktail chiamato “Perverso” / e rifiutai di ballare un tango. / A Londra / partecipai a un congresso fascista. / Sempre a Londra / commisi atti contro natura / dietro i leoni del British Museum. / A Kabul mi feci circoncidere. / A Nova Huta / telefonai dal bar principale / che si chiama “Arkadia”. / A Pago-Pago / (American Samoa) / sognavo di prendere / il Settebello. / A Lilla sono stato in prigione. / A Gaeta anche. / A Interlaken / la prima volta che giocai al tennis / c’era il sole. / A Monaco / non finii l’università. / A Okinawa / mi licenziarono. / Ad Amsterdam / rimasi sei giorni / (o sette?). / A Lecce / in Via dell’Arte della Cartapesta / feci all’amore / con una professoressa di nuoto / triestina. / (Era di domenica). / A Bonao / (Repubblica Domenicana) / ballai il pata-pata bugaloo / con una mulatta zoppa. / Alle Bahamas / una negra / mi fece il pedicure. / In Finlandia / scrissi facendo pipì / sulla neve / “Vanitas Vanitatum”. / Ad Antiochia / incrociai la prima carovana di cammelli. / Alla “Casa dello Studente” / vidi un bruttissimo film pornografico / in bianco e nero. / A Saigon invece / ne fui protagonista ma a colori. / A Istanbul / ho servito messa in greco. / A Berlino-Est / baciai una ragazza ungherese / all’Humboldt-Platz / (là dove bruciarono i libri). / A San Francisco / in un bagno turco / tirai di streppa. / A Colonia / restai giornate intere / a vedere le maone / sfilare sul Reno. / A Napoli comprai / una bellissima gatta siamese. / E a Macao / un carillon che suonava “Il Mefistofele”. / A New York / non sbarcai / perché avevo la pleurite. / A Stoccolma / sentii per la prima volta / “Che bella panzè che tieni / che bella panzè che hai”. / Alle Hawai / nel fare il surf / mi sacramentai / contro gli scogli a fior d’acqua. / (Persi i due incisivi). / A Cordoba / entrai in un museo bellissimo. / A Taipei / lo stesso. / Ad Avellino / vinsi la gara di marcia & tiro. / A Lucerna lavorai una settimana. / Poi piantai. / A Oslo m’imbarcai / sbarcai ad Abadan / (veramente disertai). / A Manila / avevo a disposizione / una Cadillac con aria condizionata / e l’autista con guanti e cappello. / (Lei era molto ricca). / A Lisbona / bevvi il vino verde / così si chiama lo champagne. / A Kiel / in piena regata / Paf! / scuffiai. / A Specchia / (in Terra d’Otranto) / in una camera piena di specchi / peccai con spocchia. / A New Delhi / mi curai / una blenorragia. / A Roma / feci la Prima Comunione. / A Quito (Ecuador) / tre presidenti / m’invitarono / a prendere il tè / che poi era caffè. / A Erzerum / mi presentarono la sorella / del brigante Kocero. / A Parigi / portai fiori / sulla tomba di Drieu. / Ad Alicante / visitai il carcere / di José Antonio. / Ad Agnano / presi a cazzotti un carabiniere. / A Città del Messico / in Plaza Garibaldi / bevvi una spremuta / d’erba alfa-alfa. / A Seoul / mi lasciai crescere / i capelli. / Ad Atene / persi l’aereo una seconda volta. / Ad Anzio, a Villa Borghese / smagliai le calze della mia ragazza / che era un’istitutrice danese. / A Beirut / in una casa d’appuntamenti armena / mi rubarono il baisenville. / Ad Ankara / mangiai un ottimo pollo alla Kiev / nel Ristorante Sureya / (il maître d’hotel era stato alla corte di Re Zog). / Ad Hong Kong conobbi Michiko / Principessa Manchù di passaporto giapponese / l’anno dopo volai a rivederla a Venezia / e fra tre mesi me la sposo a Puerto Rico. / Il mondo mi è diventato una stella. / Una stella filante».
Ernesto, quand’era in Salento, aveva sempre fretta di fuggire, lasciarsi alle spalle la terra amata ma altrettanto negata. Aveva voglia di dimenticare le offese, i nemici. Sentiva il bisogno di sparire nel nulla, fuggire lontano portandosi dietro solo impressioni salentine, o i rumori del ventre dell’oceano profumato di donne ancora fresche e gonfie di selvatico candore.
Vedevo Ernesto allontanarsi, in direzione della Serra alta, sulla strada per Lecce, quando era già sera, a volte d’estate, altre d’inverno. Una volta lo vidi levitare, quasi un san Giuseppe da Copertino, al di là di Gallipoli, verso gli orizzonti di Copertino e anche verso quelli di Carpignano Salentino. Ernesto levitava pure al di là di Lecce, oltre la Torre Belloluogo di Maria d’Enghien, attraversava cieli hidruntini, pensava (e viveva) luoghi magici, stregati. Levitava e rideva, e cantava The best has yet to come: «Cosa diventerò? / Un albero ad Haiti / un’onda del Pacifico / un gabbiano / sullo Jonio / una nuvola in Giappone / una brezza alla regata / un verso in sanscrito / io / che non cambio mai?».
Quella volta Ernesto Barba scomparve all’orizzonte lasciandosi dietro luoghi un po’ fuori mano per tutti. Non si trattava solo di Lecce e neanche di Cavallino, ma un loro rione – Castromediano – che perfettamente si rifà a quel Sigismondo della sua/mia “Storia patria”, un nugolo di case di periferia sulla vecchia via Malemnia Lecce-Cavallino o, se a voi più piace, Cavallino-Lecce. Ernesto partiva per luoghi lontani da Gallipoli, però una volta – per via dell’organizzazione di un grossa catena di alberghi – gli capitò pure di abitare sotto i cieli siciliani, da dove mi giunse il suo libro di aforismi – A Sud di Palermo – edizione Karma System, 1984.
Sul frontespizio scrisse: «Maurì, sperando che venga a trovarmi: a Sud di Palermo. Ciao vastaso!».
Invece, in un altro foglio a parte, scrisse: «Se come dice Jung: “Circostanze esterne non possono essere sostituite ad esperienze interiori”, allora questi due anni passati in Sicilia sono assolutamente insostituibili. Non c’è scampo dal proprio personaggio, così, dopo vent’anni in Oriente, ho vissuto in Sicilia: marca di frontiera, isola, territorio tribale. Durante questi due anni ininterrottamente ogni giorno ho commesso mentalmente adulterio, sospeso tra le due mitologie, tra l’isola greca e la città mongola. E se queste note potessero scegliersi una forma archetipale (molto all’ottativo) dovrebbero essere un cestino pieno di kaki, frutti originari della montagna taoista di Yang-ming-shan, ma che diventano più dolci e gustosi maturati al sole di Sicilia (Sciacca, ottobre 1982 - Parigi novembre 1984)».

Non era facile vedere Ernesto scomporsi per dei problemi, neanche per quelli seri italiani, perché per lui, c’era sempre «... una spiaggia a Sud di Palermo dove ogni libro che leggi diventa Magiko». Come magico gli sembrò l’Alto Belice, del quale scrisse: «Ti sveglia il gallo / spacca la legna / accendi il fuoco / spazza la cenere / va all’acqua al pozzo / guadagna il pane. / Pane e fatica. / Pane durissimo. / Dura è la vita / se non hai un dio. / (Che Dio t’aiuta)».
Non ancora vinto dalla stanchezza di vivere, scrisse: «Le muraglie della città (Siracusa): prima d’essere delle opere militari sono soprattutto una difesa magica». E scrisse pure che «La Sicilia, la costa jonica della Calabria e la Terra d’Otranto passarono dal greco al volgare italiano saltando il tramite del latino. Non è solo questione di semantica».
Quanto segue lo ha scritto Ernesto Barba, però io l’ho fatto quasi mio, perché sempre ho creduto che «Tutti abbiamo una Madre / la Grande Madre / che ci aspetta / lassù sulla vetta / o in fondo all’abisso. / Come che sia, / quale sarà la mia? / la nera prediletta / dai Varvara / Shavara / Pulinda / o vestita d’azzurro dell’etere / l’adorata / dagli Elmi / Apuli / Sicani».
                                                                                                           (1 - continua)

   
   
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