Giugno 2004

Per non naufragare nella modernità

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In dialogo con l’altro
Lidia Caputo  
 
 

 

 

 

Per salvare l’uomo
contemporaneo dalla trappola
del pensiero unico e totalizzante, che genera violenza, dobbiamo
riconoscere nella vita quotidiana
la dignità e la
diversità dell’altro.

 

L’altro, come interlocutore di un dialogo che trascende i limiti dell’Io per attingere all’essenza dei valori universali e dell’Assoluto, costituisce il soggetto privilegiato nella ricerca di senso dell’uomo contemporaneo.
Alla concezione della società occidentale, fondata sull’affermazione dell’individualismo e dell’imperialismo anche in campo culturale, si affianca, all’alba del XX secolo, un nuovo Umanesimo, che, estendendosi in molteplici direzioni (filosofica, teologica, letteraria, sociologica e artistica), promuove l’importanza e la ricchezza spirituale dell’incontro dialogico con l’altro.
Superando la tradizione introspettivo-spiritualistica europea che ha i suoi capostipiti in Pascal e Descartes, Maurice Blondel, con la sua “filosofia dell’azione”, ed Henry Bergson con la teoria dell’ “evoluzione creatrice”, preconizzano l’avvento di una società aperta e dinamica, creatrice di valori universali che infrangano gli schemi di un’etica autoreferenziale per dialogare fraternamente con altre civiltà e fedi religiose.

La Rivelazione è inesauribile, sostiene il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar. Il Cristianesimo, difatti, non è più solo: nel nostro mondo fioriscono nuove santità. Nell’opera Abbattere i bastioni (1952), Balthasar auspica la distruzione delle mura che la Chiesa Cattolica da secoli ha eretto tra sé e gli altri: pagani, cristiani di altre confessioni, ebrei, musulmani.
Secondo l’espressione della “Lettera agli Ebrei”, il velo del tempio si è squarciato e il Vangelo è penetrato, con il suo messaggio di libertà, pace e riconciliazione nel cuore di ogni civiltà.

Un ecumenismo “ante litteram” si può rinvenire nel pensiero del filosofo ebreo Franz Rosenzweig che, polemizzando con l’ortodossia ebraica, già dal 1921 afferma che anche se il Cristianesimo non appare necessario per gli Ebrei, esso è indispensabile per la salvezza del mondo (F. Rosenzwzeig, La stella della Redenzione, ed. italiana Casale Monferrato, 1985).
Franz Rosenzweig si può a buon diritto annoverare tra gli esponenti della “Filosofia del dialogo” che unisce pensatori di ogni fede e nazionalità: il cattolico Gabriel Marcel e l’ebreo lituano Emmanuel Lévinas in Francia, l’ebreo Martin Buber in Germania, il cattolico Romano Guardini in Italia. Quest’ultimo, in un’appassionata ricerca sulla natura ontologica del dialogo interpersonale, contrappone l’esistenza di un “logos originario”, come fondamento del dialogo, al nichilismo del pensiero moderno e post-moderno (Romano Guardini, L’incontro. Saggio di analisi sulla struttura dell’esistenza umana, in “Persona e Libertà”, Brescia, 1990).
Nel pensiero di Gabriel Marcel l’incontro Io-Tu non si colloca in un orizzonte linguistico, bensì nel cuore dell’Essere, in cui l’amore originario trabocca verso l’altro. Il nocciolo dell’esistenza è pertanto la comunanza tra Tu ed Io, che dalla storia si estende all’eternità (cfr. “Gabriel Marcel e la filosofia”, pp. 26 sgg, in E. Lévinas, Fuori dal soggetto, Marietti, 1992).
Ritengo molto convincente anche la teoria del pensatore ebreo Martin Buber, il quale asserisce che il dialogo Io-Tu sia anteriore alla storicità del dialogo politico, fondandosi il primo sulla “Fürsorge”, sul sentimento di sollecitudine fraterna per l’altro. La riscoperta di questa fraternità renderebbe possibile anche l’incontro con il Tu divino, con il totalmente Altro che si rivela come scintilla che illumina la coscienza (M. Buber, Incontro: frammenti autobiografici, Roma, 1998). Il primato di una soggettività “imperialistica” e totalizzante che nel pensiero hegeliano e posthegeliano non lasciava posto all’individualità dell’altro non solo viene sconfessato, ma addirittura ribaltato dal grande filosofo contemporaneo Emmanuel Lévinas. Fin dal lontano 1953, con la raccolta di saggi Dall’altro all’io, il pensatore di origine ebraico-lituana sottolinea già nel titolo il rovesciamento del rapporto di priorità tra l’Io e l’altro (ed. italiana, Meltemi, Roma, 2002).

“Dall’altro all’io”: questa è la sequenza nel processo di costituzione della soggettività, che, nel suo “conatus essendi”, oltrepassa il proprio egocentrismo, causa di conflitti e violenza. In questa nuova prospettiva nel volto nudo dell’altro che ti interpella ritrovi te stesso, anzi senti di avere l’altro nella “tua pelle” in un legame nuovo, inaudito, più intimo della parentela familiare. Da ciò scaturisce l’impossibilità dell’indifferenza, della coscienza pacificata per non aver commesso “alcuna colpa”, mentre ti assale la paura per l’altro, la responsabilità per la sua esistenza minacciata dal cinismo e dalla violenza della società contemporanea.

Osserva Lévinas che i comandamenti “Non ammazzare” e “Amerai il prossimo tuo come te stesso” non condannano solo la sopraffazione dell’omicidio, contrapponendole la legge dell’amore, ma anche tutti quegli assassinii lenti e invisibili che si commettono grazie alla nostra indifferenza nei confronti del prossimo e del lontano.
Di fronte al volto dell’altro, l’Io è messo in discussione, viene posto all’accusativo, convocato, richiamato ad una responsabilità di dover rispondere per l’altro, fino al sacrificio della propria identità in funzione dell’Alterità.
L’idea di un essere che per amore dell’altro valica i confini del finito, per entrare nell’infinitamente altro, costituisce uno “scandalo” salutare in questa civiltà tecnologica e materialistica chiusa nei confronti della diversità, del mistero, della trascendenza. Assai attuale è anche il messaggio di Monoteismo e linguaggio (pp. 81-84 di Dall’altro all’io): Lévinas sottolinea che è proprio la diversità delle tradizioni storiche a rendere più urgente il dialogo e la collaborazione tra giudei, cristiani, musulmani, accomunati, malgrado i dissensi e i conflitti, dal monoteismo.
E il monoteismo non è semplicemente un’aritmetica del divino, ma è la Parola del Dio-Uno che non può rimanere inascoltata, che ci obbliga ad entrare nel discorso interpersonale e interconfessionale, manifestandoci la trascendenza dell’essere.

Creare la “Civiltà del dialogo e dell’amore” che unisce tutti i popoli del mondo, credenti e non credenti, è stato il grande sogno del Concilio Vaticano Secondo, alimentato da dieci lustri di encicliche papali, di sinodi mondiali, di incontri ecumenici, come quelli di Assisi, dai ripetuti appelli dei Pontefici e dei Vescovi ad intraprendere le vie del dialogo contro l’odio e le guerre.
Oggi questo sogno di pace e fraternità, rilanciato da Papa Giovanni Paolo II, è condiviso da milioni di donne e di uomini, in primis dai giovani di tutti i continenti.
Dinanzi agli scenari apocalittici di un “medioevo prossimo venturo”, delineati dal terrorismo dopo l’11 settembre, non deve essere il timore egoistico, bensì la presa di coscienza delle nostre responsabilità etiche, a favorire il dialogo con i nostri fratelli dell’Islam. Questo rapporto di solidarietà e collaborazione politica, sociale, culturale tra musulmani, ebrei e cristiani ha dato splendidi frutti nei secoli passati, come ricordava anche Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano presso l’Università di Trieste, in un recente contributo su questa Rivista.
Anche l’iraniana Schirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, una donna magistrato e docente universitaria di religione musulmana, si è sempre battuta per i diritti dei più deboli e delle minoranze. In un’epoca di violenza ella ha fortemente sostenuto la non-violenza, favorendo soprattutto il dialogo tra differenti culture e religioni, come punto di partenza di una comunità mondiale fondata su valori condivisi.
Le reazioni emotive negative e le tendenze regressive che costituiscono il versante oscuro della post-modernità, come sottolineano i sociologi contemporanei, da Jean François Lyotard (La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1983) a Zigmund Bauman (Il disagio della postmodernità, Feltrinelli, Milano, 2002), possono però essere sconfitte solo mediante una capillare azione di rinnovamento etico-culturale della società. Si tratta, a mio avviso, di una nuova “paideia”, o civiltà educante, che abbraccia più fronti: storico-politico, antropologico, economico, letterario, filosofico, artistico, religioso.
Per salvare l’uomo contemporaneo dalla trappola del pensiero unico e totalizzante, che genera intolleranza e violenza, dobbiamo riconoscere nella vita quotidiana, nel nostro hic et nunc, la dignità e la diversità dell’altro.
Anche nel campo teologico il discorso non è più focalizzato sulla conoscenza di Dio e delle verità ultraterrene, ma è teso alla ricerca dell’assoluto, del totalmente altro nell’uomo. Si tratta di una teologia militante che individua nella liberazione del “fratello” oppresso dalla fame e dall’ingiustizia il primo atto teologico. La riflessione sulla “historia passionis”, che tragicamente si rinnova ogni giorno in tutti gli angoli del pianeta, diviene così compito imprescindibile dal cristianesimo che rappresenta la coscienza critica della società.
Riallacciandosi a questa posizione, alcuni autorevoli esponenti del cosiddetto “pensiero debole”, come Gianni Vattimo e Jacques Derrida, sostituiscono alla ricerca, per loro impossibile, di valori assoluti, la valorizzazione di sentimenti umani, quali la “pietas” di virgiliana memoria, per la finitezza e fragilità dell’essere umano (Gianni Vattimo, Dopo la Cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano, 2002). L’apertura al dialogo si fa attenzione e ascolto della pluralità di voci che gridano la loro sofferenza, la loro sete di amore e di libertà. Cogliere il loro appello significa andare incontro all’altro, al diverso per nazionalità, lingua, tradizioni culturali e religiose con uno spirito di fraternità e di accoglienza.
Per Derrida la differenza incolmabile e inesplicabile tra me e l’altro, che rimane per me un mistero, non mi esime dal dovere morale di accoglierlo e di ascoltarlo con un sentimento di partecipazione fraterna (Politique de l’amitié, Paris, 1994; De l’hospitalité, Paris, 1997; Il gusto del segreto, Roma-Bari, Laterza, 1997).
Pur condividendo lo slancio altruistico dei pensatori post-moderni e la “pietas”, che però si dovrebbe sempre integrare con l’“humanitas”, ritengo che la loro posizione non corrisponda pienamente alle esigenze spirituali dell’uomo di oggi. Arrendersi di fronte al “mistero” dell’altro senza cercare nemmeno di scalfirlo significa, a mio avviso, arrendersi dinanzi al mistero della vita ed essere condannati a vivere nella notte oscura del non senso.
Nella natura umana è invece insita quella tensione agonica, lo “Streben”, al superamento dei limiti della conoscenza, per attingere anche un solo frammento di verità. Condivido perciò la concezione heideggeriana, secondo cui l’essere si rivela parzialmente “per speculum et aenigma”, mediante il linguaggio, definito “casa dell’essere”.
In particolare, il linguaggio poetico costituisce il “logos” originario, destinato a trasformare la storia, preservandola dal naufragio.
La scrittura letteraria portatrice di un senso in grado di oltrepassare l’hic et nunc diventa essenziale per la creazione di un neo-umanesimo allargato a tutte le culture: essa è segno del molteplice che valica chiusi orizzonti.
Nei momenti di crisi, quando la storia con i suoi eventi tragici rende “spaesante” il rapporto io-mondo, la letteratura, in sinergia con le altre forme di mediazione simbolica, offre alla cultura gli strumenti epistemologici per orientarsi nella realtà o per oltrepassarla con il ricorso all’immaginario e al fantastico.

Secondo le teorie del semiologo Michail Bachtin, la forma letteraria non è “mimesis”, cioè rispecchiamento come nell’estetica greca, bensì orizzonte ideologico, spazio semantico extopico in cui domina la dimensione discorsiva. Essa è costituita da coscienze parlanti, da intrecci di voci che fanno oltrepassare al contenuto i confini di significato, conferendo al testo non solo un valore estetico, ma anche etico e paradigmatico (M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 1980, p. 21).
In tal modo la letteratura, che con l’avvento della civiltà scientifico-tecnologica era stata relegata in soffitta tra le cose inutili e obsolete, non solo diviene coscienza critica del naufragio della “modernità”, ma anche strumento di salvezza dal male oscuro che attanaglia l’uomo.

Gran parte della scrittura contemporanea da Svevo a Kafka, da Pirandello a Pavese, da Eco a Volponi sembra rispondere con maggiore pregnanza all’esigenza dell’uomo di immergersi nelle zone d’ombra della coscienza, esplorandone le nevrosi, l’inettitudine e il malessere interiore, dovuto all’incapacità di relazionarsi con l’altro, aprendosi al dialogo e all’amore.
Altri autori, invece, come Tahar Ben Jelloun, Amos Oz, Dacia Maraini, Jasminka Domas, Antonio Tabucchi, fanno intravedere una via d’uscita dal labirinto dell’alienazione e dell’angoscia esistenziale. Tuttavia, da solo, l’uomo non può salvarsi: ha bisogno di quel filo che l’altro gli offre con generosità, mettendo a repentaglio la sua stessa vita.
Dalle mani della greca Arianna il bandolo di quel filo ha attraversato i secoli fino a giungere nelle mani di Rebecca, protagonista dell’omonimo romanzo di Jasminka Domas, scrittrice croata di origine ebraica, regista televisiva, docente di Giudaismo presso l’Università di Zagabria.
Andare oltre se stessi, aprirsi all’altro, riconoscere se stesso nell’altro, fino ad esistere per l’altro, è questo il messaggio contenuto nel romanzo Rebecca, nel profondo dell’anima, tradotto dal croato a cura di Suzana Glavas per i tipi dell’Editrice La Mongolfiera, Cosenza, 2003.
Nel destino della protagonista, una giovane violoncellista ebreo-croata, che, al tempo delle deportazioni naziste, viene privata della sua casa a Zagabria, dei suoi affetti più cari, della sua stessa dignità di persona, si condensano secoli di pregiudizi e di odio antisemita che hanno prodotto l’immane tragedia della Shoah.
La struttura dialogica del testo evidenziata dal prologo «Mi hai chiesto, ti dirò» rivela la capacità dell’io narrante di mediare il proprio universo interiore, di relazionarsi con il lettore non tanto per coinvolgerlo emotivamente, quanto per suscitare in lui una presa di coscienza della realtà storica. Alla banalità del male che domina il mondo, la giovane Rebecca lancia una sfida audace: quella della santità che si attua nella vita quotidiana quando vediamo ogni cosa immersa nella luce di Dio e orientiamo tutte le azioni alla ricerca della verità, del dialogo e della pace.
Nel romanzo la protagonista è, come l’omonima eroina biblica Rebecca, colei che apre il cuore al suo prossimo, al sadico compagno di scuola, all’aguzzino della porta accanto, al massacratore dei suoi cari, offrendogli l’acqua pura delle lacrime che ha versato per lui per il suo peccato, per il marchio d’infamia che è stato impresso sulla pelle dell’Umanità.
In Rebecca l’etica del perdono e del sacrificio di sé assume una valenza profetica nella preghiera con cui ella chiede perdono a Dio per le colpe dei persecutori che ricadono sui perseguitati:

«Chiedo perdono per i giorni con il cielo di cenere, senza Eden e senza speranza.
Chiedo perdono per i vostri amori rimasti irrealizzati. E per la parola datavi sul ritorno che non ci sarà.
Chiedo perdono per coloro che non si sono salutati con i più cari. E per voi che avete amato senza però aver vissuto l’amore.
Chiedo perdono per i bambini che vi hanno strappato dal petto con la forza. E per le foto che lungo la strada del lager avete perduto.
...
Chiedo perdono, per la vita che dopo le vostre vite vivrò e perché dalle ceneri, nonostante tutto, mi risolleverò» (p. 167).

Queste frasi brevi, dense, affilate, immergono il lettore in una storia capace di toccare tutte le corde dell’anima e della mente, ci insegnano ad aprire gli occhi per contemplare l’invisibile e a scoprire nell’altro, nel diverso, il sigillo divino. La disponibilità al dialogo e alla generosità nei confronti del diverso e dello straniero costituisce il leitmotiv anche di Sostiene Pereira, uno dei romanzi più famosi di Antonio Tabucchi, pubblicato da Feltrinelli nel 1994.

Lo scrittore, nato a Pisa e attualmente docente universitario di Letteratura Portoghese a Siena, rappresenta nella sua composita produzione letteraria soprattutto la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo, che, come si accenna anche in un passo del romanzo citato, si sente in balia di una molteplicità di Io, ognuno dei quali aspira a predominare sull’altro.
Tuttavia Pereira, un mediocre giornalista di un mediocre quotidiano del pomeriggio di Lisbona, riesce a far prevalere, sia pur inconsapevolmente, il suo io migliore, rivelando dietro la maschera dell’indifferenza e della rassegnazione al male, i lineamenti di una persona sensibile e generosa. Egli, difatti, non esita a mettere in gioco se stesso per amore della libertà e della giustizia calpestata dalla dittatura salazarista.

Il modo anticonformista che Pereira adotta per relazionarsi con il prossimo viene esemplificato dal suo dialogo quotidiano con il ritratto dell’amata moglie defunta.
La sua strenua ricerca di un interlocutore fittizio o concreto si conclude con la conoscenza casuale di un giovane disoccupato e aspirante giornalista, Monteiro Rossi. Quest’ultimo, con il suo volto sincero e l’entusiasmo giovanile, sconvolge la vita monotona di Pereìra che lo sostiene moralmente e finanziariamente senza una ragione plausibile.
La disponibilità di Pereira, che si sente responsabile per il giovane e la sua fidanzata Marta, nonostante essi siano per lui degli estranei e addirittura dei sovversivi, costituisce un enigma per lo stesso protagonista.
Nell’epilogo a sorpresa, dopo l’efferato assassinio di Monteiro da parte di fanatici salazaristi, Pereira non solo prova pietà per il giovane, ma si sente chiamato da quel volto insanguinato a fare una precisa scelta etica e politica. Così l’inetto giornalista che si dichiarava indifferente ad ogni aspetto della vita politica, dopo aver pubblicato sul suo giornale un articolo per denunciare l’assassinio di Monteiro, opponendosi al regime salazarista, è costretto a fuggire, abbandonando la sua casa, il suo lavoro, la sua patria.
Alla metamorfosi spirituale di Pereira hanno contribuito in modo determinante i dialoghi che egli intesse con i vari personaggi, in particolare con il dottor Cardoso, medico e psicologo, a cui pone una domanda che cambierà il suo destino: «E se quei due ragazzi avessero ragione?» (p. 122).

La tendenza a porsi continui dilemmi si può riscontrare anche nell’ultimo romanzo di Tabucchi, Tristano muore, Feltrinelli 2004. Accanto all’impossibilità di indagare sul mistero della morte che incombe sul protagonista, si riconosce nell’epilogo che esiste un enigma di gran lunga più oscuro e insondabile:

«Dicono che la morte è un mistero, ma il fatto di essere esistito è un mistero maggiore, apparentemente è banale, e invece è così misterioso...» (p. 161).

Nel percorso all’inverso del romanzo, che si configura come una peregrinazione ctonia o viaggio negli inferi alla ricerca della verità, l’autore rinuncia a svelare l’enigma della morte, poiché si imbatte in un mistero ancora più grande: quello della vita. Con stupore egli si accorge che nel nostro “conatus essendi” viviamo nella totale inconsapevolezza dell’alterità che è in noi e che spesso ci interpella, ci chiama in causa per poterci rivelare almeno una scintilla del suo mistero.

   
   
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