Giugno 2004

Crocevia di traffici e di culture

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Otranto mediterranea
Silvana Arcuti  
 
 

 

 

Otranto si trovava in una posizione strategica, ideale per i traffici
e gli scambi
commerciali,
ma anche un
privilegiato luogo di incontro di due culture, quella
latina e quella greca.

 

Nella raccolta di saggi di Cesare Brandi, pubblicata sotto il titolo Terre d’Italia (Milano 1991), non c’è alcun cenno alla capitale di Terra d’Otranto, una città schiva che però aveva attirato fortemente l’attenzione di uno dei più grandi viaggiatori del ‘700, Giovan Battista Pacichelli, che nel II volume de Il regno di Napoli in prospettiva, stampato in Napoli nel 1703 aveva tracciato un interessante profilo su Otranto. Leggiamo alcuni passaggi di questa descrizione sintetica, ma efficace: «Conferisce alla provincia quel nome, che in parte riceve dal picciolo fiume Hidre, il quale appunto qui, al mare di Adria rende tributo. [...] Strabone chiamolla Hidronto; Mela (Pomponio) Hidro; Procopio Idroo; Idra Tolomeo; e meglio di ciascuno Idronto Plinio. [...] Gode porto assai capace, ma non sicuro per il soffio degli aquiloni, guardato dal castello in rocca, fattovi ergere dal re Alfonso, che tien disposti trenta cannoni. Angusto è il suo giro, di vecchie e forti mura, che alquanto si solleva dal piano, mostrando buone fabbriche di pietra, e vago disegno, con frequenti giardini colmi di fichi e di agrumi, e la piazza provveduta di pesce fresco e squisito. Magnifica è la sua Metropolitana dedicata all’Assunzione della Vergine dal re Guglielmo nell’anno 1163».
Il Pacichelli proseguiva con la descrizione della cattedrale, delle chiese e dei conventi che arricchiscono la terra, con il ricordo dell’incursione turca del 1480; quindi concludeva con un accenno al porto: «Si considera questa città hoggi, scala per l’Oriente, a’ signori Veneziani e Ragusei, i primi de’ quali vi trattengono il Console, che nelle passate occorrenze di guerra, col mezzo del Ministro di Napoli, facea haver più celeri gli avvisi alla Republica. Offende alquanto questo clima il lago di Limini, che si aggira per dieci miglia, e produce capitoni e altro buon pesce».
Questo profilo di Otranto è corredato da una pregevolissima incisione che “fotografa” la città alla fine del XVII secolo.

Il prestigioso Manuel du Voyageur di Karl Baedeker (Leipzig-Paris 1907) attesta l’importanza di Otranto come punto di approdo nel mare Adriatico fin dai tempi più antichi. «Otranto – si legge fra l’altro –, l’Hydrus dei Greci, l’Hydruntum dei Romani, è spesso menzionata nell’antichità come il luogo da cui si lascia l’Italia per raggiungere l’Epiro. Distrutta dai Turchi nel 1480, Otranto non si è più risollevata; oggi è una città di pescatori di 2295 abitanti».
Un’altra guida, anteriore di pochi decenni al Manuel du Voyageur, l’Itinerario d’Italia o Descrizione dei viaggi per le strade più frequentate alle principali città d’Italia, curata da Giuseppe Vallardi (Milano 1833), descrive Otranto alla fine del 61° percorso di viaggio, quello che porta da Brindisi a Otranto. «Otranto (Hydruntum), una delle più antiche città della Japigia, – si legge – possiede un comodo porto, molto frequentato per il commercio del Levante, e difeso da una buona fortezza. Questa città è più forte che bella. Otranto fu il primo paese che Pitagora illustrò, diffondendovi le sue dottrine filosofiche, e facendovi conoscere le arti».
Sin dal più lontano passato, Otranto ha svolto un ruolo significativo come scalo marittimo, non solo per la sua felice posizione geografica, ma grazie anche al sistema viario romano, e prima ancora alla rete stradale messapica che nell’antichità collegava la costa e l’entroterra.
Per conoscere nel dettaglio i collegamenti marittimi e terrestri di Otranto disponiamo di una vasta documentazione: oltre alle fonti storiche tradizionali, risultano particolarmente interessanti gli “itinerari” che, come è noto, sono la chiave per ricostruire le vicissitudini dell’antica rete stradale, non solo nel periodo di massima efficienza, durante l’impero romano, ma anche nei secoli della decadenza, durante le invasioni germaniche, e per tutto il Medioevo.
Gli itinerari riproducono i percorsi stradali di tutti i Paesi conquistati da Roma. In questa sede ci limiteremo a prendere in esame i percorsi relativi alla penisola salentina, corrispondente all’incirca all’antica Japigia e alla Messapia dei Greci, e alla Calabria della divisione augustea dell’Italia, raggruppante i popoli della costa adriatica del Salento, detti propriamente Calabri, e quelli della costa ionica, conosciuti dai Romani come Salentini.
La compilazione più vasta e organica di itinerari dell’impero romano è l’Itinerarium Antonini: in esso, gli itinerari ufficiali sono elencati con l’indicazione, in miglia, delle tappe giornaliere e delle rispettive distanze. I dati relativi al Salento sono i seguenti: da Brindisi a Lecce 25 miglia; da Lecce a Otranto 25 miglia. Le rotte e le distanze del Salento rispetto alla sponda opposta dell’Adriatico sono: da Brindisi il traghetto per Durazzo 1.400 stadi; da Otranto il traghetto per Valona 1.000 stadi.
Va osservato che le distanze dei percorsi stradali sono espresse in miglia, secondo l’uso romano che utilizzava le indicazioni delle pietre miliari, mentre quelle relative alla traversata del canale d’Otranto sono espresse in stadi secondo l’uso greco, mostrando in tal modo il predominio della marineria greca nell’ambito dei traghetti con la Grecia.

In appendice all’Itinerarium Antonini ci è giunto un Itinerarium Maritimum, un testo assai breve composto nell’età di Caracalla, che contiene due sole rotte complete e alcuni dati frammentari su traversate di varia natura. Per la parte che ci riguarda, è segnalato il cabotaggio sulle coste salentine e le rotte delle isole adriatiche di fronte a Otranto. Anche in questo itinerario la lunghezza delle tappe è espressa in stadi e appartiene pertanto al bagaglio di conoscenze di origine greca. Ecco le porzioni di rotta che interessano la penisola salentina: da Brindisi o da Otranto a Valona 1.000 stadi; da Brindisi a Durazzo 1.400 stadi; da Otranto a Cassiope 1.000 stadi; dall’isola di Saseno a Otranto 400 stadi; dal litorale di Otranto a Leuca 300 stadi; da Leuca a Crotone 800 stadi.
Il Salento dunque fungeva da traghetto, con i due porti di Brindisi e Otranto, con l’opposta sponda adriatica. Leuca era lo scalo di appoggio per la traversata verso Crotone e la Sicilia. Eccessiva risulta l’indicazione della distanza di ben 300 stadi (pari a 37,5 miglia romane) per la navigazione di cabotaggio tra i porti di Otranto e Leuca, ma probabilmente è un errore di trascrizione che va emendato a 250 stadi, meglio rispondenti alla misura geografica.
Fra gli itinerari merita ancora di essere menzionata la Tabula Peutingeriana, un rotolo di pergamena che riproduce la parte conosciuta della Terra con l’indicazione dettagliata di tutte le strade, le stazioni itinerarie e le distanze miliari. La sua composizione risale alla metà del IV secolo d.C., ma è giunta a noi attraverso una copia del XII-XIII secolo. La parte relativa al Salento riproduce un quadro completo del sistema stradale costituito dalla via Traiana, ultimo tratto della via Appia, col suo prolungamento “calabro” e dalla via “Sallentina”.
La via Calabra e la via Sallentina costituivano due importanti arterie paralitoranee.
La prima, così detta perché si sviluppava lungo la costa calabra, cioè il versante adriatico del Salento, congiungeva i due porti di Brindisi e Otranto. Essa viene considerata un prolungamento della via Traiana, ossia quel troncone viario che si staccava dalla via Appia all’altezza di Benevento e raggiungeva Otranto, rendendone più breve il tragitto.
A metà del percorso della via Calabra è sempre indicata la città di Lecce. Come risulta dagli itinerari di viaggio, essa svolgeva la funzione di mansio, ossia di stazione itineraria che serviva a spezzare il viaggio in due giornate di venticinque miglia ciascuna e, in più, permetteva il pernottamento.
Da Otranto si poteva utilizzare il traghetto per raggiungere le coste dell’Epiro e della Grecia; ma si poteva proseguire anche per via di terra lungo la strada “Sallentina”, in direzione di Castro e di Vereto e poi, superato il Capo di Leuca, verso Taranto, attraverso Ugento, Alezio e Nardò.
L’importanza della via Calabra dipese in gran parte dalla funzione di scalo verso Oriente assunta da Otranto man mano che, nei traffici del Canale, la città acquistava quel ruolo che era appartenuto incontrastato a Brindisi.
In età tardo-antica il traghetto di Otranto fu sempre il preferito e il confluire del traffico peninsulare su Otranto fece sì che questa città fosse sentita come la meta finale della via Appia e della via Traiana. La fortunata ascesa di Otranto fu suggellata dalla preminenza attribuitale nell’ordinamento amministrativo bizantino, per cui il “tema” di Calabria prese successivamente la denominazione di Terra d’Otranto.

Per quanto riguarda il percorso, possiamo dire, molto sinteticamente, che la strada Calabra muoveva da Brindisi verso sud, uscendo da Porta Lecce e si dirigeva a Valesio. Le fotografie aeree, i toponimi, l’allineamento delle alberature, le antiche carrarecce e i confini campestri consentono di ricostruire sempre con buona approssimazione l’andamento del tracciato.

All’interno della città di Valesio, una stazione itineraria e un impianto termale assicuravano il ristoro dei viandanti. Il cammino proseguiva fuori dalla cerchia muraria seguendo l’andamento di una strada campestre ancora oggi esistente e continuava fino a Torchiarolo. Dopo Torchiarolo, con lo stesso tracciato della moderna carreggiabile, la strada incontrava Squinzano, sfiorava Surbo e si giungeva a Lecce. La stazione di Lupiae, a metà strada fra Brindisi e Otranto, godeva di notevole prestigio in età imperiale non solo per la sua posizione intermedia fra Roma e i due più importanti scali per l’Oriente, ma anche perché offriva la possibilità di un collegamento diretto con l’Adriatico, specialmente dopo il potenziamento del porto di San Cataldo voluto dall’imperatore Adriano.
Si ritiene che il tracciato da Lecce a Otranto sia una persistenza di antiche strade, piuttosto che un’arteria ex novo; tuttavia permangono incertezze fra gli storici in merito alla definizione di alcuni segmenti dell’itinerario, soprattutto all’altezza dei laghi Alimini. Sorvolando su queste divergenze, osserviamo che a ridosso di Otranto, sul fiume Idro, si è ipotizzata l’esistenza di una stazione di sosta, situata a 25 miglia da Lecce e a 50 miglia da Brindisi. La strada si interrompeva di fronte alle mura della città, come inducono a ipotizzare le due presunte colonne terminali visibili nella cartina del Pacichelli.

Un breve percorso conduceva al porto, difeso da un molo artificiale che si allungava dalla punta San Nicola. Da qui salpava il traghetto per la Grecia; qui facevano scalo le imbarcazioni che provenivano da Cassiope o da Saseno, quando i venti non consentivano di puntare su Brindisi; perciò sempre più spesso si puntò direttamente su questo porto in età tardo imperiale e bizantina. Va sottolineato che, nel 49 a.C., Cesare considerava sullo stesso piano i porti di Brindisi, Taranto e Otranto, ma nei decenni e nei secoli successivi, nell’Itinerarium Antonini e nell’Itinerarium Maritimun, Otranto sembra essere il traghetto preferito per le spedizioni in Oriente, come pure nel Medioevo al tempo delle crociate.
Completava il sistema stradale peninsulare che faceva capo a Otranto la via “Sallentina”: essa, con un percorso paralitoraneo, congiungeva i principali centri del Salento da Otranto al Capo Iapigio (Leuca) e quindi a Taranto.
Questa strada è certamente meno conosciuta delle altre, forse perché mantenne un interesse prevalentemente locale, come collegamento tra i centri messapici, piuttosto che di collegamento diretto tra Roma e Otranto, risultando più lunga a causa del giro attorno al Capo di Leuca. La via seguiva complessivamente questo schema: Taranto-Manduria; Manduria-Nardò; Nardò-Alezio; Alezio-Ugento; Ugento-Vereto; Vereto-Castrum Minervae; Castrum Minervae-Otranto.
L’ultima tappa della via “Sallentina” collegava dunque Castro con Otranto. Un sentiero permette ancora oggi di individuare l’andamento originario della strada, dallo sperone fortificato di Castro ai piedi del Monte Mattia. L’andamento del percorso è sempre facilmente riconoscibile in alcuni tratti di confine comunale, in alcune strade campestri e mulattiere fino al profondo solco a est dello stradale dove si incanalano le acque che scendono dal Monte Lauro.
Sempre fiancheggiando lo stradale moderno, la via antica, di cui sono ancora visibili alcune tracce, raggiungeva la porta sud di Otranto, potenziata dopo l’incursione turca del 1480.
Durante il Medioevo fu molto utilizzato l’Itinerarium Burdigalense, detto anche Hierosolymitano, secondo che si privilegi la città di partenza (Bordeaux) o la destinazione del viaggio (Gerusalemme). L’Itinerarium descrive un pellegrinaggio di cristiani dall’Aquitania alla Terra Santa compiuto negli anni 333-334 d.C., subito dopo che l’editto di Costantino ebbe riconosciuto libertà di culto alla nuova religione.
Vi sono elencate con precisione le stazioni di pernottamento e le tappe per il cambio dei cavalli, in un percorso lunghissimo che va dall’estremità occidentale dell’Europa fino in Palestina. Sulla via del ritorno, i pellegrini traghettavano da Valona a Otranto e risalivano la penisola italiana lungo le grandi arterie stradali: la via Traiana, l’Appia, la Flaminia e l’Emilia fino a Milano, poi i valichi alpini, ripercorrendo a ritroso lo stesso itinerario dell’andata.
I pellegrinaggi verso i luoghi santi, lungo questo percorso, proseguirono per tutto il Medioevo, salvo una stasi nei secoli VII-X nell’età delle incursioni barbariche per l’insicurezza delle strade, ma raggiunse l’apice con il risveglio devozionale del X-XII secolo e con le crociate.
Nelle fonti troviamo la conferma del frequente ricorso allo scalo di Otranto come imbarco privilegiato per l’Oriente; possiamo ricordare, fra le tante testimonianze, la descrizione del pellegrinaggio compiuto probabilmente nel 1102-1103 da un tale Sevulfo. Di questo personaggio non sappiamo quasi niente: il nome Sevulfo (sea-wolf = lupo di mare) potrebbe essere fittizio. Certamente di nazionalità anglosassone, Sevulfo parla dei porti pugliesi nel suo racconto di viaggio: «Vi sono dei pellegrini che s’imbarcano da Bari, alcuni da Barletta, ed altri ancora da Siponto e da Trani. Naturalmente vi sono altri pellegrini che preferiscono attraversare il mare da Otranto, ultimo porto della Puglia».
Accanto agli itinerari, i portolani costituiscono un’altra tipologia di fonti utili a ricostruire la posizione e il ruolo di Otranto nel Mediterraneo. Portolani rudimentali furono usati non soltanto dai popoli dell’antichità classica, ma anche da altre genti che svolsero un’intensa attività sul mare, come i Cinesi, gli Arabi e i Vichinghi.
Fra i portolani più antichi, si ricordano i peripli – descrizioni geografiche di viaggi marittimi – compilati dai Greci che vi annotavano i particolari costieri più interessanti e più facilmente riconoscibili, con l’indicazione delle distanze da luogo a luogo espresse in giornate di viaggio, in giornate e stadi, o solo in stadi.Manca, però, nei peripli qualsiasi accenno all’elemento direzione, che invece appare nei portolani medievali. Questi ultimi segnalano la direzione rispetto ai punti dell’orizzonte, sia pure con una certa approssimazione che non va oltre la quarta di vento; vi compaiono, inoltre, le indicazioni delle distanze relative ai luoghi costieri e attraverso il mare aperto.
Una grande quantità di fonti classiche e medievali consente di ricostruire un quadro abbastanza analitico delle rotte che interessavano la penisola salentina. Strabone riferisce del cabotaggio intorno ad essa, sia lungo la costa adriatica da Otranto verso nord, toccando Roca vecchia, San Cataldo, San Gennaro (Valesio), Brindisi, Guaceto (San Vito), Torre Santa Sabina, il porto di Ostuni e infine Egnazia; sia lungo la costa ionica da Otranto verso sud, toccando Castro, Leuca, San Gregorio (porto di Vereto), San Giovanni (Ugento), Gallipoli, lo scalo marittimo di Nardò, Porto Cesareo, Torre Ovo, Satùro e infine Taranto.
Molto importanti, come si è già detto, erano i traghetti che dal Salento si dirigevano a ventaglio sulle coste balcaniche puntando, da nord a sud, su Durazzo, Apollonia, l’isola di Saseno, Valona e l’isola di Corfù. Una funzione alternativa rispetto a Brindisi potevano avere sia Egnazia, più a nord, che i vari porti del litorale calabro, più a sud. Ma è soprattutto Otranto che, nelle fonti, appare lo scalo privilegiato per le comunicazioni con l’Oriente, data la sua felice posizione sullo spartiacque tra il golfo Veneto, come si chiamava tutto il mare Adriatico fino appunto a Otranto, e il resto del mare Mediterraneo.
I portolani medievali che descrivono le caratteristiche costiere intorno a Otranto sono tanti, dal portolano di Grazioso Benincasa da Ancona, utile per conoscere su quali rotte e con quali paesi gli Otrantini avevano scambi e commerci, ai portolani composti da esperti navigatori veneziani e pubblicati da Konrad Kretschmer nel volume Die italienischen Portolane des Mittelalters; ci sono poi le descrizioni degli studiosi salentini, dal Galateo (1444-1517) al dotto cosmografo Cosimo de Giorgi.
Tornando alle fonti medievali, ricordiamo la descrizione del geografo arabo Edrisi, attivo in Sicilia nel XII secolo alla corte di Ruggero II: «Otranto, città di antiche vestigia e molto popolata, abbonda di coltivatori, dispone di mercati in piena attività nonché di prosperi commerci. Il mare ne lambisce le mura da tre parti sì che essa è saldata al continente solo dal lato nord. La città ha un fiume che scorrendo da settentrione passa nei pressi della sua porta e procede oltre lungo il Golfo dei Veneziani (mare Adriatico) verso la città di Brindisi, lontana quaranta miglia da Otranto, e là ha la foce. [...] Otranto è situata all’estremità del canale che divide il Mare di Siria (Mediterraneo) dal Mare dei Veneziani (Adriatico), sulla costa occidentale».

In una fonte composta presumibilmente nella seconda metà del XIII secolo, Il compasso da navigare si fa riferimento alla conformazione della costa otrantina e alle manovre necessarie per l’attracco nel porto: «Otranto è porto e se vorrete entrare là entro, si tosto con serrete a la ponta de Otranto, va appresso da terra entro che trovi li scolli che non som de socta lo castello de Otrenta e llà demora à lo scollio ver meczo dì, e poi va entro al porto».
Analoghi riferimenti alla configurazione costiera di Otranto e alle manovre per entrare nel porto si trovano in Goffredo Malaterra che, descrivendo il soggiorno otrantino di Roberto il Guiscardo prima della spedizione in Sicilia, ricorda i lavori di spianamento del terreno fatti eseguire dal Normanno per agevolare il percorso dalla città al porto e per rendere più spedito l’equipaggiamento delle navi: «Apud Ydrontum moratus, montem, quo facilius descensus ad mare – equos navibus introducens – fieret, rescindere facit».
Nell’opera di Guglielmo di Puglia, il porto viene definito poco sicuro, soprattutto a causa delle tempeste autunnali che rendevano precaria la navigazione nelle acque del Canale d’Otranto: «Transire veretur Hidronti, / Quo brevior transcursus erat, quia tempus adesse / Coeperat autumni, tranquilla recesserat aestas, / Unde timens ratibus mora nequa noceret Hidronti / Ex tempestatis subitis incursibus ortae, / In portu tuto fit tutus classe recepita; / Expectat flatus prudenti mente secundos». La stessa situazione viene registrata quattro secoli dopo dal Galateo: «Portum habet satis commodum sed aquilone minime tutum: a mari altae sunt rupes, ex molli, et fragili lapide ex cuius crebris ruinis, non parvam urbis partem mare occupavit».
Pur con questi limiti e nonostante la perifericità geografica rispetto all’asse politico continentale che aveva il suo fulcro nel nord dell’Europa, Otranto si trovava in una posizione strategica, al centro di un sistema di comunicazioni che la collegavano verso occidente con il resto della Puglia e con la Lucania e verso oriente con la Grecia, attraverso le rotte dell’Adriatico. Una posizione ideale per i traffici e gli scambi commerciali, ma anche un privilegiato luogo di incontro di due culture, quella latina e quella greca, che trovavano il loro riferimento ideologico e cultuale nella Cattedrale e nella chiesa di San Pietro.

   
   
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