Giugno 2004

Nelle due guerre mondiali

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I popoli scomparsi
Tonino Caputo - Ada Provenzano - Edda Cantalupo
 
 

 

Difficile
dimenticare come vennero accolti in Italia: respinti al porto di Ancona dai portuali
comunisti che
incrociarono le braccia, respinti alla stazione di Bologna...

 

Almeno per quel che riguarda il primo conflitto mondiale eravamo convinti di sapere tutto, di conoscere tutti i risvolti, anche i più oscuri, di una guerra che aveva saldato un fronte gigantesco su due continenti, da Verdun a Vladivostok. Invece, non è così. Non lo è, almeno, per l’Italia. Perché continuano ad emergere fatti inediti (e insospettabili), che gettano nuova luce su quanto si verificò in alcune regioni che furono primari teatri di battaglia in uno degli scacchieri più tormentati dell’epoca.
Quella tragedia europea fu, fra l’altro, un gigantesco, tragico laboratorio nel quale vennero sperimentati i mali incurabili del Novecento: la morte inflitta su scala industriale, le deportazioni di massa, il mondo orribile dei campi di concentramento, il trasferimento di intere popolazioni, la cancellazione di intere nazionalità. E una parte di queste vicende è stata riportata alla luce, grazie ad una ricca documentazione, con scritti e con fotografie che riportano in primo piano i destini delle cavie di quegli orribili esperimenti: la permanenza in trincea, con la forzata convivenza di vivi e di morti, il primordiale magma umano dei soldati disintegrati dai tiri delle artiglierie o avvelenati dai gas esplosi dagli obici; e, nelle retrovie, i traumi fisici e psicologici delle deportazioni: i paesaggi sinistri delle baracche uniformi dei lager, gli sguardi spenti dei profughi, la solidarietà familistica delle donne e quella innocente dei bambini, l’aria smarrita dei prigionieri. Sono parole e immagini angoscianti, da leggere e da vedere in un libro, Il popolo scomparso. Il Trentino, i Trentini nella prima guerra mondiale (1914-1920), curato da Quinto Antonelli e da Diego Leoni, e dedicato all’inferno di quella guerra planetaria.

Involontario paradigma di questo cataclisma, il Trentino, non soltanto in quanto teatro di sanguinosi scontri militari, ma anche in quanto frazione di una problematica realtà etnica, qual era l’Impero austro-ungarico. Dal 1914 in poi, ai trentini successe di tutto. Gli uomini ritenuti in grado di portare le armi, cioè quelli dai diciotto ai cinquant’anni, si divisero, volenti o nolenti, in due distinte fazioni, prendendo due direzioni opposte: alcuni divennero soldati dell’imperatore viennese, altri soldati del re sabaudo; si trattò, in pratica, di una maggioranza di sudditi absburgici (non pochi contro la stessa propria volontà) che furono costretti a mobilitarsi sotto le bandiere di Francesco Giuseppe, e una minoranza di irredentisti che, disertando, vestirono le divise grigioverdi di Vittorio Emanuele III. Allo scopo di tenerli il più possibile lontani dall’Italia, quasi tutti i sudditi dell’Impero delle Due Corone vennero assegnati ai fronti europei orientali. Per la maggior parte combatterono in Galizia. Quelli che riuscirono a sfuggire all’ecatombe furono fatti (o si diedero) prigionieri in Russia, dove finì per coglierli la rivoluzione bolscevica. E anche in questa circostanza si divisero: ci fu chi decise di unirsi all’Armata Rossa di Trockij, pensando così di riscattare se stesso in nome del proletariato; e chi preferì farsi internare, in attesa di tempi migliori.
Sul fronte opposto, i trentini rimasti fedeli all’Intesa si ritrovarono (alcuni liberi, altri prigionieri, alcuni arruolati e altri sbandati) sotto i cieli sconfinati dell’Asia: in Siberia, nel Turkestan, addirittura in Cina. E i racconti delle loro avventure sono avvincenti come tragedie brechtiane. Tanto più che nessuno dei loro familiari, genitori o mogli o figli, poté attenderne a casa o il ritorno o il tremendo telegramma che li dichiarava “valorosamente deceduti sul campo di battaglia”.

Per ragioni economiche e politiche, oltre che per più stringenti decisioni militari, parecchie decine di migliaia di trentini furono evacuati dalle autorità absburgiche e dispersi nelle province centrali dell’Impero, soprattutto in Tirolo, nella Boemia e nella Moravia. In ventimila, invece, vennero concentrati in lager austriaci, nelle orribili “città di legno”, nelle quali la sporcizia, la miseria, la fame e le malattie infettive concorsero a decimarli. Ne tornarono pochissimi, a conflitto concluso, tutti, senza eccezione, malati, denutriti e fiaccati nel fisico e nell’anima: la guerra passata sulla loro terra aveva arroventato la vita di un popolo, i patimenti l’avevano arrugginita. Di tutta una generazione, più di metà era stata cancellata dalle armi, mentre nei superstiti sarebbe rimasto per sempre il marchio del dolore.
Beffarda rivincita della vita sulla morte, i documenti scritti dai soldati sui fronti, dai profughi nei campi di concentramento, dai deportati nelle regioni centrali del mosaico imperiale absburgico, affidate all’ignoto destino della corrispondenza epistolare o alle righe di diari e di sdruciti quaderni di scuola, sono giunti numerosi fino a noi, per ricordarci tutto un vissuto di guerra di un popolo letteralmente scomparso: i destini inattesi, la disperazione, le malinconie, le reazioni meno prevedibili e magari inconcepibili in tempi normali.
Ad esempio, il pregiudizio antisemita di un soldato precipitato nella fornace bellica galiziana, che si vede offrire del cibo, e persino delle donne, da «un Abreo furbo come il diavolo». Oppure la rabbia misogina di un sacerdote in servizio fra le tende di un ospedale alle spalle delle prime linee, disgustato per l’arrivo di quattro intraprendenti crocerossine («alle loro case non avranno proprio niente da fare»). O ancora, il residuo dell’innocenza di un internato nel campo di concentramento di Mauthausen, il quale riesce a trovare “bellino” un paese, con le villette «coperte di pergolato di rose o di viti americane». Tranches de vie, pezzi di vita, spaccati di antropologie e di temperamenti, di umori e di speranze, che ci illustrano un’umanità trascinata dentro una bolgia in cui tutto è imperscrutabile, ogni condizione è provvisoria, l’esistenza stessa è appesa a un filo.

Insieme con gli scritti, i documenti fotografici, disseppelliti e raccolti nei solai e nelle cantine delle case trentine. Anche questi inediti. Sono foto quasi tutte scattate dai soldati e dagli stessi profughi e deportati, immagini che rivelano una loro dilettantesca estemporaneità, e che tuttavia, come tutto ciò che è fotografia, fissano momenti di vita che non tornano più, e sono ritenute “proiezioni di nature morte”.
Altro discorso, questo. Per ciò che ci riguarda, e che ci ha particolarmente colpito, oltre ad un’evidente prevedibilità di inquadrature, sono impressionanti le immagini del conflitto combattuto in alta quota, fra le nevi dell’Adamello e le rocce delle Dolomiti, con i valligiani trasformati in eschimesi, con i soldati riparati dal gelo con una mantellina di panno ruvido: la guerra dei contadini con a tracolla il fucile 91, la guerra che vide soccombere centinaia di migliaia di meridionali in terre dal clima ostile. Ecco: sono proprio queste foto a darci l’idea delle contraddizioni di quel conflitto, che fu un magma confuso e micidiale di arcaismo e di modernità. Accanto ai telefoni da campo, i cani da slitta; insieme con i mezzi corazzati, i piccioni viaggiatori; in cielo gli aerei da incursione, fra le balze gli orsi siberiani… Alcune pagine dopo, un drammatico documento da preludio: un gruppo di prigionieri spogliati dalle guardie per la disinfestazione; uomini nudi sugli attenti, di fronte a uomini vestiti, che con scrupolo incurante delle altrui sofferenze registrano i nomi di quegli sventurati. Come dire: le prove generali di uno spettacolo prossimo venturo!

Tornarono quasi tutti, invece, i duemila “Ulissi oscuri” (la definizione è di Claudio Magris) i quali, abbagliati dal sole dell’avvenire, abbandonarono Monfalcone nei primi mesi del 1947, e passarono in Jugoslavia, per contribuire alla realizzazione del comunismo. Storia di un’illusione, di un sogno degno di tutto rispetto, tradottosi presto in un’odissea che gli ultimi superstiti ricordano con sobrietà, oggi, dopo un silenzio interrotto soltanto da un romanzo di Pasolini (Il sogno di una cosa), pubblicato nel 1949-‘50.
Avevano abbandonato i cantieri navali e quelli aeronautici, con buone paghe e con posti di responsabilità, e avevano attraversato il confine convinti di raggiungere una terra che era l’avamposto paradisiaco del proletariato. Non si era trattato di un trasferimento organizzato: ciascuno si era mosso spinto da un impulso ideale individuale, sull’onda della grandezza raggiunta dalla Grande Madre Russia dopo la vittoria sul nazismo, e tutti insieme si erano ritrovati sotto le bandiere titine, prima che il Cominform sovietico scomunicasse il dittatore jugoslavo, bollandolo con l’accusa di tradimento. Un anno dopo, moltissimi erano già rientrati, con la coda tra le gambe. In Jugoslavia erano stati ritenuti delle spie, perseguitati, messi in prigione. Alcuni sarebbero tornati dopo anni di internamento nel lager dell’isola di Goli Otok (Isola Nuda), nel Quarnaro, dopo essere stati i primi a scontrarsi con la verità e con la realtà del “socialismo reale”: Tito, con metodi stalinisti, aveva perseguitato questi stalinisti, un “mucchio selvaggio di matrice gramsciana”, come li ha definiti Andrea Berrini, che ne ha ricostruito la storia in Noi siamo la classe operaia, titolo preso da una vecchia canzone: “Noi siamo la classe operaia / che suda che soffre e lavora / finiam di soffrire che è l’ora”.

Riferiamo questo episodio per ricordare l’altra verità storica finora elusa, e comunque tenuta in piena ombra. Il partito comunista della regione Giulia spingeva perché la zona di Monfalcone, con Gorizia, divenisse la Settima Repubblica Socialista della Jugoslavia, e, all’interno di questa politica, sollecitava i seguaci all’emigrazione: era necessario bilanciare l’esodo della gente istriana e dalmata con un “controesodo” ideologico. Dunque, non si fece nulla per scoraggiare il trasferimento dall’area di Monfalcone, anche se è molto improbabile che i dirigenti comunisti giuliani non conoscessero quel che era il mondo jugoslavo, con la sua arretratezza, con lo spirito di rivalsa nei confronti dell’Italia, con la diffidenza anche nei confronti delle gerarchie politiche internazionaliste che agivano a Roma.
Ed è qui che si innesta il discorso sull’altro orrendo silenzio, durato fino a poco fa: quello sulle foibe. C’era una ragione di fondo per rimuovere le pagine tragiche della pulizia etnica portata a termine, e questa ragione non riguardava il numero delle vittime, che non conosceremo mai (i titini diedero alle fiamme i registri anagrafici dei comuni italiani appena occupati), come difficilmente potremo appurare il numero delle foibe e degli inghiottitoi trasformati in fosse comuni (finora si sa di 167 su circa duemila presenti in tutta quell’area, compresa la foiba di Basovizza, dove sono stati scoperti diciotto metri di corpi accatastati. Questa foiba era profonda 208 metri, ma la massa delle vittime aveva ridotto il fondo a soli 190 metri: come dire, vi erano non meno di 1.500 persone “infoibate”). Basovizza come Monrupino, Gropada, Vines, Villa Surani, Carnizza, Gallignana, per il lungo elenco dei luoghi della vergogna, dove i morti si contano in centinaia di “metri cubi”. Al di là di tutto questo, che può definirsi storia se non negata, per lo meno occultata, riguarda, la ragione, la politica svolta da Palmiro Togliatti e dal suo partito in favore della Jugoslavia, alla quale intendeva far consegnare Trieste e l’intero Friuli-Venezia Giulia, Udine compresa.
In questo modo, l’Italia avrebbe perso in un sol colpo, e per merito di una forza politica interna, la maggior parte del territorio per il quale aveva avuto oltre 600 mila morti nel primo conflitto mondiale.
Questo versante della determinazione comunista di smembrare la Penisola in favore di Tito andava tenuto rigorosamente nascosto, dal momento che l’azione togliattiana era saltata e che alla Jugoslavia era stato negato anche il possesso della Zona A del Territorio Libero di Trieste, amministrato, insieme con la Zona B, dagli alleati, prima, e dagli inglesi in un secondo momento. E ciò, più d’ogni altra cosa, ha causato i silenzi sulla tragedia istriana, sul terrore seminato dai titini nelle terre di Zara, di Pola (Pula), di Fiume (Rijeka), e, nei giorni della ferocia e degli omicidi indiscriminati e dei saccheggi a tutto campo, durante la presenza degli jugoslavi a Trieste, quando questa città aveva già preso il nome di Trst.

350 mila istriani e dalmati salvarono la vita abbandonando avventurosamente le loro terre: in parte, un popolo scomparso anche questo, per infoibamento; in parte, un popolo disperso, al quale oggi riconosciamo unità, oltre che grande dignità, dopo i giorni della nostra viltà. Difficile dimenticare, infatti, come vennero accolti in Italia: respinti al porto di Ancona dai portuali comunisti che incrociarono le braccia, respinti alla stazione di Bologna dai ferrovieri comunisti che bloccarono gli ingressi dei treni con i profughi a bordo… Solo adesso noi cominciamo a fare i conti con questo passato, con la nostra storia sommersa o vischiosa. A novant’anni dai trentini col muro nel cuore, a sessant’anni dai crimini anti-italiani nell’Istria.

   
   
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