Giugno 2004

Il corsivo

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Ricomincia una storia. Altra?
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

 

 

 

 

In quanti modi si può scrivere la storia dell’Europa a Venticinque?
In tanti, anche troppi. Dipende dalla cultura, dalle letture comparate, dalla curiosità personale. Si può guardare al passato, e ravvivare la memoria della millenaria guerra civile europea, della nascita e caduta degli Imperi, del formarsi delle nazioni.E si può pronosticare il futuro, osservando, ad esempio, che con l’ingresso dei Dieci il Vecchio Continente ha una maggioranza cattolica, o che l’asse franco-germanico è più che bilanciato da quello slavo e mitteleuropeo. Si possono percorrere i labirinti delle attività diplomatiche. Si possono rivisitare le città che furono epicentri di battaglie epocali o gli alberghi che divennero celebri come punti di convergenza delle spie al servizio di tutte le bandiere.
Si possono riesplorare itinerari di memoria e di dolore, visitando i cimiteri di guerra che costellano tante alture e valli, e sacrari che testimoniano la tragicità di incolpevoli vite spezzate. E’ anche possibile soffermarsi in zone che conobbero confini erratici e contrapposte file di trincee fra spazi intrisi di sangue, oppure fra campi di concentramento, lager e gulag, preludi di morte in massa: perché tanta parte della Storia Europea è stata preludio, atti con intermezzi ed epilogo di reciproci stermini; anche quando, al tempo della Guerra Fredda, le sfide si sono consumate in Paesi lontani e gli echi sono giunti in sordina o sono stati vissuti sui giornali e nei film.

Comunque, la linea di displuvio fu tracciata dal 1989, almeno per l’Europa qual è oggi. Crollato su se stesso l’ultimo Impero Ottocentesco, quello sovietico, è cambiato il colore del cielo. Adesso, in questo risorto Continente, deve cambiare quello della terra. Partendo dall’anno zero di una Storia Altra, che coinvolga tutti coloro i quali, dall’Atlantico ai Carpazi, vorranno prendere atto delle nuove realtà e necessità.
All’originario nucleo dei Sei dominato dall’asse franco-tedesco, poi ampliato spostando il confine verso le latitudini anglosassoni e scandinave, si sono sommate quattro importanti aree dell’universo slavo: la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia. Quattro Paesi culturalmente affini e da tempo abituati a convivere in ampi conglomerati sovranazionali. Varsavia, fondatrice di una sorta di Commonwealth ante litteram che dalla Lituania giungeva fino al Mar Nero, aveva visto il proprio territorio diviso tra l’Impero Zarista e quello Absburgico. Nessun’altra capitale al mondo è mai stata tanto martoriata (per quattro secoli) quanto questa, invasa da russi, prussiani, svedesi, e infine diventata colonia sovietica. Malgrado tutto, l’universalismo cattolico, combinato con la vocazione transnazionale austro-ungarica, aveva predisposto polacchi, slovacchi, sloveni e cechi (divisi fra cattolici, protestanti e hussiti) alla convivenza e all’integrazione in un contesto politico-economico che superava le barriere etniche e doganali degli Stati-nazione.

Osservava perspicacemente Scipio Slataper che l’Austria-Ungheria era il secondo Impero Slavo dopo quello Russo. Con una differenza di fondo: c’era, lì, una tolleranza multietnica che faceva di Vienna, come affermò Bismark, «una capitale balcanica piuttosto che germanica». Era lo spirito di convivenza che solo ed esclusivamente i Grandi Imperi Europei, da Augusto a Francesco Giuseppe, avevano saputo suscitare nelle minoranze nazionali e religiose. L’Austria imperiale, a parte Trieste e Budapest, esibiva una splendida costellazione di città slave: Varsavia, Cracovia, Praga, Bratislava, Lubiana, Zagabria, in ciascuna delle quali lingua franca era il tedesco, ma si parlava, si studiava, si scriveva e persino si complottava contro gli austriaci nelle rispettive lingue madri. Gli intellettuali polacchi, sottoposti a Varsavia alla censura sovietica, potevano comunicare, esprimersi e sognare in piena libertà la rinascita della loro nazione nella Cracovia absburgica. Nella magica Praga scrittori di lingua ceca e narratori ebrei di lingua tedesca potevano elaborare opere destinate a diventare capolavori della letteratura europea. A Zagabria vescovi e poeti, fondatori di un movimento risorgimentale illirico, potevano tracciare le linee di un progetto dell’Unione fra serbi, croati e sloveni, dal quale dopo la Grande Guerra sarebbe emersa la turbolenta Jugoslavia monarchica, poi trasformatasi in una deludente Repubblica sgretolatasi nello spazio di un mattino, con gli ultimi bagliori di guerra su un suolo europeo.

La Storia Altra potrà essere questa. L’antico patrimonio di cultura cosmopolita, la tradizione imperiale, i cospicui contributi letterari, le committenze artistiche (soprattutto nell’architettura che caratterizza l’urbanistica, il Dna paneuropeo, insomma, potranno fare più europea l’Europa finora improntata all’azione politica e di politica economica franco-tedesca. Ciò determinerà il tramonto dell’Europa carolingia, che all’interno di una identità isolazionista coltivava gli orgogli, gli egoismi e i pregiudizi dei singoli Stati-nazione. Tutto questo accadrà se le nuove energie trasfuse in un Continente stanco, anemico, grigio, saranno sufficienti a far prendere coscienza del ruolo europeo nel mondo; se quelle energie non saranno ritenute marginali o superflue; se cadranno al più presto i limiti temporali imposti alla libera circolazione degli uomini, e non soltanto delle merci. E, sul piano globale, se al di là delle diatribe (tattiche) sull’euro e sui piani di stabilità, si stabilirà un tipo di rapporto paritetico con l’America: il che vorrà dire che l’antiamericanismo strumentale (di Francia e Germania, cui si è aggregata la Spagna) e quello ideologico (della violenza delle fazioni “pacifiste”) dovrà fare molti passi indietro, perché i nuovi entrati continuano a temere la Russia e vedono proprio negli Stati Uniti, e nella Nato, i fattori decisivi per la protezione politica e per la sicurezza militare, e dunque auspicano un’Europa alla pari e in amicizia con Washington e alla pari e in diffidenza con Mosca.

Adesso, e non domani, l’Italia può giocare un ruolo di primo piano in questo scacchiere. Intanto, perché insostituibile cerniera mediterranea. Poi perché storica esportatrice di talenti e ammirata terra creativa. Girando per quest’Europa, prima e dopo l’Ottantanove, un italiano si sente in casa ovunque. Perché come e forse più che a Pietroburgo, Cracovia è stata città tirata su da architetti italiani, e Varsavia, finita la guerra, venne ricostruita pietra su pietra tenendo presenti le tele del Canaletto. Vilnius, capitale della Lituania, come Roma sorta su sette colli, fu definita dal poeta e Premio Nobel Czeslaw Milosz «il regno dell’architettura barocca e italiana trasferito nei boschi del Nord». Se Praga è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità è perché dal Barocco al Cubismo molti stili l’hanno modellata. Budapest, vista dalla danubiana Isola Margherita, allinea palazzi severi e sfarzosi al modo di quelli della Repubblica marinara di Genova. Riga, capitale della Lettonia, esibisce cinque piani del Palazzo Italia dove i prodotti della nostra moda non conoscono tramonti. Sono di origine italiana i celebri cavalli di Lipiça, piccolo centro del Carso sloveno, con la scuderia fondata nel 1580 dall’austriaco arciduca Carlo II, che volle incentivare l’equitazione classica e le scuole di sport equestri. Tallin, capitale dell’Estonia, città medioevale meglio conservata d’Europa, figurerebbe bene dentro le mura di Lucca, come Bratislava, capitale della Slovacchia, potrebbe saldarsi alla struttura urbana della città più verticale d’Italia, Torino…

Realtà, certamente. E anche suggestioni, non si può negare. Ma la tentazione di riconsiderare una cultura paneuropea aggregante, e non discriminante, è forte, perché è il migliore antidoto contro l’europportunismo presuntuoso e a volte sprezzante di chi proponeva, fra i Quindici, Europe a due velocità, e non si farebbe scrupolo, fra i Venticinque, di ipotizzarne a tre.
Aveva avuto un sogno, Nauman: quello di una Mitteleuropa che, partendo da Amburgo e passando per Vienna, Budapest, Sofia e Costantinopoli, culminasse a Baghdad. Quel sogno era naufragato fra le trincee della Grande Guerra, e di una Mitteleuropa meno larga ci è rimasta una letteratura innervata nelle tessiture di un macerante presente storico e della sua umana precarietà e problematicità, a torto ritenuta “di confine”, e dunque vagamente esplorata. Ora è mutato un clima, e fra non molto non ci saranno più frontiere da varcare per stabilire altre residenze. Si potrà camminare su sentieri che non avranno più le cesure dei valichi e delle terre di nessuno.
Ci sarà un melting pot continentale? E una osmosi e fusione in forma nuova di contenuti letterari e di espressioni artistiche? Ci federerà una forza interna, oppure carolingi e mitteleuropei, mediterranei e celtici procederanno su strade parallele, sì, ma con ritmi di marcia scombinati? Saremo tutti coraggiosi eurorifondatori, oppure opachi eurosauri? Tempo un anno, e già potremo leggere i primi segnali in chiaro.

   
   
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