Giugno 2004

Rivisitazioni

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Mercanti d'antan
Gilberto D’Orazio  
 
 

 

Federico II di Svevia pagava
normalmente
l’interesse del 36 per cento sulle somme che
prendeva a prestito dai mercanti
romani, senesi,
fiorentini, emiliani.

 

Sostiene Giorgio Ruffolo che c’è stato un tempo in cui l’Italia era una superpotenza. E per chiarire il concetto parte da molto lontano. Precisamente dai tempi di Roma Caput mundi. Come tutti gli Imperi territoriali, precisa l’economista, quello romano ha implicato una conquista, ma l’arte della guerra si doveva accompagnare necessariamente, allora, a quella della pace, in grado di integrare e suscitare consenso in tutte le classi dirigenti. Non era, insomma, quello che attualmente si definisce correntemente un impero del male.
L’excursus (in Quando l’Italia era una superpotenza. Il ferro di Roma e l’oro dei mercanti, edito dalla torinese Einaudi) si svolge attraverso le strutture economiche e sociali che, tramontate, si proiettano nell’età medioevale. Pertanto, l’Italia dell’Età di mezzo viene paragonata a quella antica. Con quale esito? In un primo momento, i Romani sembrano abilissimi nella politica ma più o meno inetti in economia, mentre gli Italiani del Medioevo paiono il contrario. Ma ad una lettura più attenta, il quadro complessivo finisce per complicarsi.

Il sistema economico romano ha inventato il “capitalismo mercantilistico” e una prima “economia-mondo”, raggiungendo l’apice nel sistema schiavistico della villa romana; dopo di che, quel sistema sarebbe precipitato nella stagnazione. Tuttavia, non si deve confondere l’Italia con l’Impero: Roma, infatti, prima ha dominato l’Italia e poi le province, soprattutto quelle nordafricane, dove fioriva una grande economia – non basata sulle ville e sugli schiavi – proprio nella tarda antichità.
Lo studioso apprezza il notevole contributo offerto dall’archeologia allo studio delle manifatture e delle merci romane, in particolare tramite lo scavo delle ville, e condivide la posizione degli antichisti italiani che hanno superato il primitivismo di Finley, riproponendo la distinzione fra un modo di produzione “antico”, orientato al valore d’uso, (quello di Cincinnato), e un modo di produzione “schiavistico”, orientato invece al valore di scambio.
Il tracollo fallimentare romano è senza alcun dubbio impressionante, ma non è poi diverso dai crolli di tutti gli sviluppi precapitalistici, che mai hanno conseguito l’autopropulsione tipica dell’industrialismo. In quegli sviluppi il mercante o il manifatturiero finisce per scimmiottare l’aristocratico (vale a dire: aspira all’otium), per cui non nasce una vera borghesia, la prima classe che ha posto l’economia al centro della società e che non si è accontentata di fasto e bellezza, protesa instancabilmente al guadagno, quanto il credente era proteso al cielo. Ma la classe borghese è riuscita a svilupparsi soltanto sotto le grandi monarchie nazionali, di cui l’Italia, divenuta patria dei particolarismi, non è riuscita mai a far parte.


Fra gli sviluppi destinati al fallimento, il romano resta quello che più si avvicina all’economia delle Repubbliche medioevali italiane, che ha raggiunto la vetta massima del “capitalismo commerciale”, ma che in seguito, alla fine del Cinquecento, ha cominciato anch’essa a decadere. I Romani saranno stati pure meno bravi economicamente dei milanesi, e questi meno bravi dei primi nella politica, conta però il fatto che sia i primi sia i secondi si sono avvicinati alla soglia del capitalismo industriale, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo. Occorre comunque fare una precisazione. Entrambi hanno creato le fondamenta perché altri inventassero, in altri mari, la forma economica entro cui viviamo e che a noi pare eterna. In questo senso, sia l’antichità romana che il Medioevo italiano sembrano all’archeologo formare stadi di sviluppo diversi entro l’unica grande categoria del “capitalismo commerciale”, come ha ritenuto il Marx del saggio sulle Forme di produzione precapitalistiche.
L’Autore accetta il destino italiano di decadenza «con sereno orgoglio», accettabile quando Roma e il nostro Rinascimento inondavano il mondo di bellezza. Ma, una volta che sia spenta ogni magnificenza, non resta che guardarsi intorno; e, vedendo che si è quasi in coda all’Europa, tutt’al più si possono criticare, odiare o ammirare quei vincitori, i quali hanno saputo essere ad un tempo, insieme, Romani e Italiani.

Se, al tempo di Roma e nell’Alto Medioevo, le attività economiche erano incentrate in modo particolare sull’agricoltura, sull’allevamento e sulla lavorazione dei metalli, e dunque sui commerci dei relativi prodotti, nel Rinascimento molte cose cambiarono. Intanto, le scoperte geografiche avevano fatto perdere al Mar Mediterraneo il ruolo di baricentro del mondo. L’asse della storia era inclinato ad Ovest, e mentre gli Stati Iberici e quelli del Nord dell’Europa, con le loro formidabili marinerie, allargavano i loro Imperi, Comuni e Stati italiani entravano in crisi, fatalmente declinando.
In questa fase si sviluppò una classe nuova, aggressiva, spregiudicata, che sconvolse le antiche regole del gioco e determinò nuovi modi di produzione, nuove dinamiche del profitto, concentrazioni monopolistiche, instaurazione di scambi sempre più vasti. I feudatari furono in massima parte travolti da crisi lunghe e laboriose. Famiglie un giorno potenti naufragarono in difficoltà economiche e finanziarie: abituati a vivere di rendita, incapaci di trasformarsi in mercanti, in agricoltori, in produttori, furono costretti a indebitarsi.
Ma con chi? Inizialmente, almeno, furono i mercanti, gli artigiani, i piccoli industriali ad esercitare verso i signori feudali le funzioni di prestatori. Il denaro veniva concesso a tassi di interesse elevatissimi, malgrado i fulmini contro l’usura lanciati dai Pontefici. Tanto per fare qualche esempio, Federico II di Svevia, che per le sue lotte contro i Comuni e il Papato aveva un continuo bisogno di denaro, pagava normalmente l’interesse del 36 per cento sulle somme che prendeva a prestito dai mercanti romani, senesi, fiorentini, emiliani. Una volta ad alcuni mercanti di Parma dovette corrispondere il 60 per cento; un’altra volta per un prestito di 500 once d’oro pagò ai mercanti senesi più del 66 per cento.
Ugualmente, gli Angioini re di Napoli ricorrevano a prestiti da mercanti fiorentini, genovesi, pisani, e a denaro offerto soprattutto dalle compagnie fiorentine dei Bardi, degli Acciaioli, dei Portinari, dei Capponi e dei Peruzzi, e in seguito anche dai Medici, ma obbligandosi al pagamento di formidabili interessi, concedendo inoltre come premio ai loro creditori la facoltà di fare incetta di frumento nelle regioni cerealicole del Regno, e di ricavare quindi guadagni che si possono definire favolosi. Nacquero da tutto questo le prime operazioni di credito che la storia ricordi. E grazie a queste, i mercanti a poco a poco diventarono arbitri della vita stessa delle classi aristocratiche, alle quali di volta in volta sottrassero terre e case, oltre misura arricchendo se stessi, mentre gettavano sul lastrico quelle.
Il capitale circolante era creato dai traffici, dallo sfruttamento delle miniere orientali, dalla lavorazione della lana, della seta, delle pellicce, del cuoio, dal risparmio investito e dalle rendite fondiarie che ormai raggiungevano il 12-15 per cento. Succursali delle compagnie erano state aperte nelle Fiandre, in Francia, in Tirolo, in Germania, in Dalmazia, a Roma, a Napoli, in Sicilia... Poi, con le scoperte geografiche, come dicevamo, la grande crisi italiana, e i conseguenti vantaggi di Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, che ebbero la possibilità di sviluppare ceti imprenditoriali e manifatturieri e una nuova classe mercantile, già allora collegata all’industria. Dunque: un gran rimescolamento di fortune, un terremoto sociale, il sogno venuto meno di un capitalismo italiano in anticipo sui tempi. La storia abbandonava il Mare Nostrum, per trasferirsi fra gli orizzonti più vasti degli oceani.

   
   
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