Giugno 2004

Università e idee

Indietro
Scuole di economia
Edoardo Corradi  
 
 

 

 

 

All’inizio del
Novecento, l’Italia era ai vertici
della disciplina economica ed esprimeva un peso massimo mondiale del calibro di
Vilfredo Pareto.

 

Certamente, l’economia si può raccontare. Lo hanno fatto, fra tanti altri, Kissinger o il nostro Cipolla. Ma si possono raccontare anche gli economisti? Raccontarli, s’intende, in modo organico e non semplicemente giustapponendone le biografie e le scuole di riferimento? Compito arduo, in modo particolare quando le dicotomie tradizionali (marxisti contro cattolici, comunisti contro fautori del capitalismo, statalisti contro liberisti, keynesiani contro monetaristi) perdono di rilievo per la scomparsa di uno dei due poli, oppure per la loro fusione in una sintesi superiore (o, più banalmente, in un bel pasticcio eclettico), e così vengono meno gli schemi più naturali di organizzazione del materiale.
Un poderoso pool di economisti italiani si è cimentato nella non facile impresa di raccontare, appunto, il contributo di loro stessi e dei loro colleghi nella prima generazione dopo la guerra, quando le dicotomie di cui abbiamo detto erano gli assi portanti di ogni discorso accademico e politico e appassionavano, creavano sodalizi o invece rompevano amicizie consolidate anche da gran tempo. Ne è risultato un testo voluminoso e intensissimo, eppure di lettura molto gradevole e soltanto a tratti ostico per chi non sia uno specialista, dal titolo La formazione degli economisti in Italia (1950-1975), a cura di Giuseppe Garofalo e Augusto Graziani, con un totale di ventitré firme e l’impostazione unitaria e originale (e come tale anche legittimamente discutibile) dei due curatori: messe da parte le schematizzazioni consuete (che nel racconto riemergono da sé, ma non rappresentano più a priori gli stampi nei quali si forgia la realtà) è il punto di vista della “formazione” ad essere privilegiato, con estrema attenzione alla genesi delle avventure intellettuali dei singoli e dei gruppi di studio e alle loro interrelazioni. Si indovina che, oltre al suo rilievo diretto, i testi apriranno la strada a molte altre ricerche nello stesso solco, in altri angoli rimasti in ombra.

Sorprende lo scarso spazio che si è voluto dedicare nel volume ad alcuni Istituti di gran prestigio: la facoltà di economia di Torino viene citata (molto brevemente) soltanto in relazione all’attività di Siro Lombardini e di un altro paio di studiosi; neanche quella di Pavia si conquista un capitolo a sé, mentre alla Bocconi è riservato uno dei capitoli più brevi ed è quasi tutto dedicato a Ferdinando Di Fenizio, uno dei protagonisti dell’introduzione di Keynes in Italia e co-fondatore de Il Sole, (diretto da un indimenticabile collaboratore di questa Rivista, Gennaro Pistolese, fino a quando il quotidiano economico si fuse con il gemello 24 Ore), e dell’Isco, che oggi si chiama Isae. Evidentemente, il settore degli studi economici nel nostro Paese è per sua natura policentrico e nessuna accademia, per quanto reputata, nemmeno la Bocconi, vi può svolgere quel ruolo di leadership che hanno negli Stati Uniti d’America il Mit oppure l’università di Chicago, o nel Regno Unito la London School o Cambridge. Semmai tale funzione tocca da noi a quella grande fucina di economisti e centro connettivo che continua ad essere la Banca d’Italia.
Le cause della pluralità di scuole economiche nel nostro Paese sono con tutta probabilità due: la prima ha a che fare con i nostri mille campanili, la seconda (e ben più importante) con il periodo del Fascismo e della seconda guerra mondiale.
All’inizio del Novecento, l’Italia era ai vertici della disciplina economica ed esprimeva un peso massimo mondiale del calibro di Vilfredo Pareto, oltre ad altri economisti quasi dello stesso livello; ma subito dopo il filone si esaurì e il nostro sistema universitario diventò provinciale. I centri di eccellenza non erano più tali, e quando si trattò di avviare la ricostruzione non ci fu soltanto da sgomberare le macerie dei bombardamenti, ma anche da riscoprire ex novo le grandi correnti di studio internazionali. I centri di ricerca minori ripartirono alla pari con i grandi, vale a dire da zero.
Proprio la ricostruzione ha rappresentato il filone più appassionante degli studi economici: chi si esercitava nella disciplina lo faceva non soltanto per ripristinare l’Italia come era stata, ma anche con l’ambizione di rifarla meglio, senza gli squilibri sociali e geografici dell’anteguerra. Seguì negli anni Cinquanta il boom dell’impresa pubblica (Iri, Eni) e della Cassa per il Mezzogiorno, che facevano da pensatoio e da braccio operativo nei settori di investimento ad alto rischio e nella dotazione di infrastrutture, fornendo nuove occasioni agli economisti che volevano cimentarsi; e di nuovo, nel decennio Sessanta, ci furono le speranze della pianificazione programmata, cui fecero seguito quelle persino più ardite degli anni Settanta. Di tutte queste stagioni, Claudio Napoleoni fu uno degli spiriti protagonisti, facendo anche da raccordo tra la Svimez di Pasquale Saraceno e la Scuola di Portici (Napoli) di Manlio Rossi Doria.
I risultati, com’è noto, furono piuttosto parziali: lo sviluppo complessivo del Paese fu spettacolare per ricchezza e per posti di lavoro reali creati, ma gli squilibri regionali non vennero alleviati, e anzi la cosiddetta “forbice” accentuò la sua divaricazione. Un allievo di Napoleoni attribuì a questo grande economista una frase di Baudelaire: «Non ho ancora conosciuto il piacere di un piano realizzato».

La stagione riformista ebbe anche una forte matrice cattolica, grazie appunto all’Università Cattolica di Milano. Se Francesco Vito vi è stato l’iniziatore degli studi economici, lo snodo centrale della costellazione dei centri di ricerca che rientrano in questo filone è probabilmente la persona di Siro Lombardini, di cui è stato allievo, fra molti altri, Beniamino Andreatta, creatore di un polo di eccellenza presso l’università di Bologna, dove si è formato anche l’attuale presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Dunque, è una storia ancora in corso.
Anche la “Sapienza” di Roma ha un fondatore o ri-fondatore degli studi economici nella persona di Ugo Papi, una figura centrale di studioso in Paolo Sylos Labini e un’importante filiazione nella facoltà di Scienze economiche e bancarie di Siena ad opera di Vittorio Marrama e Cesare Cosciani. Fra gli altri centri di studio dell’economia che si sono affermati in piccole città, vanno ricordati per lo meno Ancona (la facoltà e l’Istao), protagonista dell’analisi del modello “Nord-Est-Centro” con Giorgio Fuà e il suo Gruppo, e Modena, attenta in modo particolare alle questioni sindacali. Ma è bene sottolineare che in queste sedi periferiche si agisce localmente, ma si pensa globalmente, visto che, ad esempio, alla creazione di Modena ha presieduto Pierangelo Garegnani, formatosi (al pari di Luigi Pasinetti) alla scuola di Piero Sraffa, in quel di Cambridge.

Per quanto riguarda la formazione all’estero, e dal momento che il volume soprattutto di formazione parla, è bello sottolineare che uno dei ventitré autori riferisce (al passato) che «il cursus degli allievi dipendeva dal benevolo consenso del maestro», e che c’era «la necessità di vestire i colori di una scuderia (o di una baronia, se si preferisce)», ma poi «l’apertura delle frontiere cominciò a produrre crepe vistose nel protezionismo accademico». Soddisfazione per la notizia. Ma almeno un pizzico di incredulità.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2004