Giugno 2004

Supereuro come alibi

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Un debole sistema d’impresa
Renato Possenti  
 
 

 

 

 

La radice del
problema non sta nella nuova divisa europea, ma nella politica economica che si è realizzata negli ultimi anni.

 

Malgrado la perdurante stagnazione e la conseguente debolezza della domanda interna, la bilancia commerciale italiana ha chiuso lo scorso anno ancora in attivo, ma con un saldo più basso rispetto all’anno precedente. Nei primi anni Novanta il commercio con l’estero era in crisi perché si trovava al culmine di un ciclo valutario che, chiudendosi con una svalutazione della lira, doveva ripristinare una competitività che nel frattempo si era “consumata”. Erano gli ultimi anni di un’epoca nella quale l’economia italiana era cresciuta malgrado un sistema produttivo al cui elevato livello di intraprendenza non faceva riscontro una forza competitiva che potesse sostenere le ambizioni del Paese a confrontarsi con quelli più evoluti del resto d’Europa. La gran parte della produzione italiana, infatti, poteva essere venduta sui mercati esteri e nazionali solo in forza della convenienza di prezzo. Per questa ragione, quel modello di sviluppo poteva essere sostenuto solo alla condizione delle ricorrenti svalutazioni della lira, e solo fino a quando fosse stato possibile sostenere il suo rovescio della medaglia: in primo luogo, l’inflazione che, a sua volta, concorreva al dissesto della finanza pubblica.

Nel 1992 cominciò la svolta verso una politica che poi avrebbe connotato il resto del decennio: contenimento dei costi nominali (leggi: salari e stipendi) con la concertazione e la politica dei redditi, elevazione della pressione fiscale ai livelli medi degli altri Paesi europei, conseguente abbattimento del disavanzo della pubblica amministrazione, stabilizzazione del cambio in vista della partecipazione all’Unione monetaria europea.

In quel decennio cambiò profondamente il sistema politico-istituzionale, cambiarono gli atteggiamenti e i costumi degli italiani, cambiò il ruolo delle organizzazioni sindacali, cambiò il sistema bancario, cambiò la presenza dello Stato nell’economia. Non cambiò il sistema produttivo, al quale, anzi, fu data la possibilità di perpetuare un’impostazione strategica che tutti quei cambiamenti e la prospettiva dell’Unione monetaria rendevano decisamente superata. Gli venne data la possibilità in primo luogo perché la profondità della crisi valutaria, la vastità delle pressioni speculative che la connotarono e la dimensione inusitata del deprezzamento che la nostra moneta conseguentemente subì diedero alle imprese importatrici una spinta poderosa, interpretata come successo delle imprese stesse. Inoltre, perché in quegli anni si modificò anche la cultura politica. Il crollo della Prima Repubblica e il ciclone di Mani pulite travolsero, con molti loro esponenti, le stesse istituzioni politiche rappresentative, a cominciare da partiti e sindacati, in contrapposizione al mondo delle imprese e agli imprenditori il cui successo in quegli anni era promosso dalla suddetta poderosa spinta data dalla svalutazione. Si diffuse così il convincimento che in Italia tutto fosse inefficienza e corruzione, tranne l’impresa, l’imprenditoria, gli imprenditori.

Tutta la politica si orientò in questo senso, operando sulle componenti di competitività esterne all’impresa, quando il problema, non fosse altro che per l’evoluzione dei tempi, era nelle stesse connotazioni interne: piccola dimensione, struttura padronale, visione strategica di breve periodo, poca ricerca, scarsa capitalizzazione.
E così, quando la spinta della svalutazione ha cominciato ad esaurirsi (in un tempo simile a quelli dei cicli precedenti, a conferma che il sistema produttivo non era cambiato), i fattori presentati come responsabili erano, e sono tuttora, sempre ed esclusivamente esterni: il costo del lavoro, poi il costo del denaro, poi la flessibilità, poi ancora l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, e naturalmente le tasse. Si è fatto tanto: il costo del lavoro è tra i più bassi, di flessibilità ne è stata introdotta fino a farne un problema sociale, i tassi di interesse sono irrisori, molte procedure sono state semplificate, si progettano riduzioni della spesa sociale per fare spazio a una riduzione delle tasse. Ciò nondimeno, il sistema produttivo continua inesorabilmente a perdere competitività, come conferma, tra i tanti altri indicatori, il deterioramento della bilancia commerciale.

Chi ha interesse alla perpetuazione di questo stato di cose avanza la giustificazione dell’apprezzamento dell’euro. Si incarica di smentirli la circostanza che il saldo commerciale è la combinazione di un surplus nei confronti dei Paesi extra-europei (è l’Asia che tira) con un disavanzo verso il resto dell’Unione europea, vale a dire verso i mercati che hanno la nostra stessa moneta e che sono i più qualificati. Se ne evince che la radice del problema sta nella politica economica che negli ultimi anni si è realizzata. La negazione di questa evidenza non fa che consentire la progressiva accentuazione di un declino che anche i dati commerciali rendono inconfutabile.

   
   
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