Giugno 2004

Dibattiti

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Ma la Cina spiega
il declino italiano?
Flavio Albini  
 
 

 

Quella che chiede all’Esecutivo di
essere protetta dalla concorrenza dei cinesi è una Italia senza idee, che ha perduto
la straordinaria
abilità dei nostri vecchi artigiani.

 

Da quando il tema della “globalizzazione” è penetrato nell’orecchio del grande pubblico, la competitività italiana è calata di un altro buon dieci per cento. L’autistico dibattito politico dovrebbe aprire una finestra sulla realtà e guardare finalmente a quello che succede nel mondo. Le polemiche sul declino del nostro Paese acquisterebbero un’altra sostanza.
In questa fase gli Stati Uniti si stanno accorgendo che la globalizzazione non riguarda più soltanto le produzioni industriali sostituite da quelle cinesi. Ad abbandonare il campo e a fuggire sono anche i servizi e i posti di lavoro dei colletti bianchi. Programmatori di software o fornitori di servizi bancari o telefonici costano un decimo in India rispetto a San Francisco. In Germania le banche si servono di consulenti nei Paesi dell’Est a metà costo.

Per i sostenitori del libero mercato si tratta di un vero e proprio shock. La teoria del commercio che garantiva benefici globali si basava sulla divisione delle economie industriali in due segmenti: quello dei beni commerciabili, per esempio i computer, e quello dei beni non commerciabili, per esempio servizi e assistenza ai computer. I beni non commerciabili rimanevano al riparo dalla competizione globale, offrendo rifugio all’80 per cento dei lavoratori in America e al 75 per cento in Europa. Così, a mano a mano che la concorrenza riduceva i prezzi dei beni commerciabili, il resto dell’economia beneficiava di un aumento del potere d’acquisto. Ora i servizi non saranno più un riparo dalla globalizzazione, anzi ne accentueranno la pressione. Europa e Stati Uniti non potranno compensare i costi della concorrenza nell’industria perché tutto è esposto alla concorrenza e quasi tutto è meno conveniente che in Asia.

Dal punto di vista politico, l’Occidente non è preparato. Negli ultimi duecento anni al centro delle divisioni c’erano i lavoratori del settore industriale. Socialisti e liberali hanno fondato visioni e identità sui mercati del lavoro nazionali. La caratterizzazione di classe è così forte che ne risentono anche i dibattiti sulla globalizzazione o sulle distinzioni tra capitalismo europeo e statunitense. Tra lavoro e capitale, tra flessibilità e protezione sociale, si è creata una divisione politica “interna” alla società. Attorno ad essa si sono cristallizzate destra e sinistra, la cui dialettica ci sopraffà quotidianamente in forme che molto spesso perdono contatto con la realtà.
Ora che l’intera economia – non soltanto la parte industriale – è vulnerabile, la linea divisoria non passa più all’interno dei vari Paesi, ma li separa l’uno dall’altro. I dati sono forse esagerati, ma se alla ripresa americana mancano otto milioni di posti di lavoro, il 60 per cento è finito in Asia. Ciò solletica istinti isterici di protezione nazionale, già forti negli Stati Uniti, eppure velleitari: grazie a Internet, fortunatamente, non è possibile chiudere le connessioni in tempo reale tra un radiologo di Nuova Delhi e un ospedale di New York, e ciò crea vantaggi per entrambi.

L’impatto della nuova concorrenza sui servizi non sarà affatto annichilente per i Paesi che non chiudono gli occhi e non alzano barriere. Quando la produzione di computer si è spostata in Asia, gli Stati Uniti hanno sfruttato il calo dei costi per il boom mondiale delle tecnologie. L’Europa non ha visto quello che succedeva e ha perso il boom degli anni Novanta del secolo scorso. Anche i servizi asiatici saranno un’opportunità per chi saprà riposizionarsi. E, per farlo, bisogna avere personale in grado di anticipare l’evoluzione informatica. Governi che incoraggiano l’istruzione e rendono disponibili apparecchiature e autostrade informatiche al largo pubblico. Pur rafforzando la sicurezza sociale, la flessibilità del lavoro deve aumentare per consentire un rapido passaggio da attività vecchie a quelle innovative. Allo stesso modo, i capitalisti incapaci devono essere sostituiti da quelli capaci grazie a un sistema finanziario più efficace.
Già ora l’Italia è cinque volte più esposta alla concorrenza commerciale cinese rispetto alla Germania, e tre volte più della Francia. Ma come possano entrare questi temi decisivi in un dibattito pubblico reso cieco dalla propria ferocia, è del tutto ignoto.

Quella che chiede all’Esecutivo di essere protetta dalla concorrenza dei cinesi è un’Italia senza idee, che non sa più innovare e ha anche perduto la straordinaria abilità dei nostri vecchi artigiani. Se produci tegole o tondino di ferro non hai più speranza. Ma per fortuna l’Italia non è tutta così.
Nelle valli sopra Bergamo, un cotonificio produce tessuto per camicie: osservando il prodotto, sembrerebbe un’azienda spacciata, e invece esporta il 70 per cento della produzione, e poco tempo fa ha aperto un nuovo stabilimento con ottanta operai, non a Shanghai, ma a Mottola, in provincia di Taranto. Segreto del successo: un imprenditore coraggioso e una straordinaria attività di addestramento dei giovani per trasmettere loro un’esperienza secolare. Poco lontano, un’impresa costruisce i freni delle migliori automobili al mondo. Se c’è un problema, è che le nostre università formano pochi ingegneri meccanici: al Politecnico di Milano, i migliori si iscrivono a Ingegneria gestionale, vogliono tutti diventare manager, pensano che disegnare il disco di un freno sia un’attività obsoleta, e per questa ragione chi ha bisogno di ingegneri meccanici li importa dalla Repubblica Ceca o dall’India.
Per essere competitivi ci vogliono una scuola che apra la testa, istituti professionali in grado di tramandare l’esperienza dei nostri artigiani migliori e soprattutto tanta concorrenza per evitare che si creino posizioni di rendita, che sono il maggiore ostacolo all’innovazione. In un libro che aiuta a capire come sopravvivere alla concorrenza cinese (La leva della ricchezza. Creatività tecnologica e progresso economico), lo storico di Chicago, Joel Mokyr, scrive: «In ogni società vi sono forze che si oppongono all’innovazione, che vogliono proteggere interessi particolari, piccole e grandi rendite. Nelle aziende di questi Paesi gli ingegneri sono stati sostituiti da avvocati, commercialisti e lobbisti, ascoltati dal governo, che li protegge, e guarda con sospetto agli innovatori. La storia ci insegna che qui inizia il declino di un Paese». Sembra di leggere la vicenda di certe aziende del tessile, che, partite dalla creatività, si sono ridotte a contrattare con il Cipe i pedaggi autostradali.
Il Sud non avrà un futuro, fino a che le famiglie penseranno che per trovare un buon lavoro i loro figli devono iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere, o prepararsi alla carriera di commercialisti. C’è un’altra Italia: all’Interaction Design Institute di Ivrea una quarantina di giovani progettano nuove modalità di interazione fra l’uomo e la tecnologia. Ma sono ancora troppo pochi, e le aziende i giovani “creativi” li vanno a cercare a Londra, al Royal College of Art.

Wim Bishoff, ex capo di una grossa banca inglese, racconta che per assumere i giovani segue una regola precisa: prima scorre l’elenco dei laureati in Lettere Classiche, poi in Matematica: se proprio non li trova, assume un giovane uscito dalla London School of Economics. Sorprendente? Ma no, risponde. Una volta assunti i giovani, li invita a colazione ed espone loro i problemi della banca. I classici e i matematici, per lo più, dimostrano che non hanno idea di che cosa si stia parlando; ma ogni tanto il loro modo di vedere le cose è talmente inusuale, «che improvvisamente capisco come risolvere un problema fino a quel momento senza vie d’uscita. Quanto ai laureati della London School, mi ripetono ciò che ho letto su Business Week: non imparo nulla». (In realtà, in Italia sessant’anni fa tutto questo lo aveva già capito Raffaele Mattioli).
Scuola e università, dunque, per dare indirizzi innovativi, grazie all’apporto della creatività dei giovani migliori. Ma è accaduto quest’anno che alla “Sapienza” di Roma si siano iscritti a Fisica una trentina di studenti. Altrettanti alla facoltà di Matematica. E diecimila a Scienze della Comunicazione. Todos periodistas, olè! Tutti giornalisti in pectore. Al novantanove per cento candidati ad imparare l’amara scienza di vivere di ripieghi o di espedienti. E’ concepibile, tutto questo, in una società che non vorrebbe arretrare nel futuro? E che colpa ha la Cina se, piuttosto che lavorare, pretendiamo di essere tutti inviati speciali?

   
   
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