Giugno 2004

Il Vecchio continente allargato

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Europa big bang
Italia nel guado
Daniele Puppo  
 
 

 

 

C’è chi non vuol capire che “meno Stato e più
mercato” non è una formula astratta, ma un principio
informatore
dell’azione politica e di politica
economica del nuovo secolo.

 

Era stato predisposto tutto con una cura assoluta, come mai era accaduto nel passato: un’incubazione durata dieci anni, un migliaio di funzionari europei al lavoro, per garantire il successo dell’impresa, una vera e propria montagna di aiuti, pari a oltre venti miliardi di euro, ai quali, fin dal giorno dell’adesione, il primo maggio, si sono aggiunti altri ventuno miliardi di euro destinati ai fondi strutturali, da incassare entro il 2006. Sono tutti d’accordo su uno degli aspetti rilevanti dell’operazione: il poderoso balzo dell’Europa da Quindici a Venticinque Paesi è un vero e proprio Big Bang dell’Unione Europea, e sarà anche un’avventura senza precedenti, che tuttavia, una volta tanto, almeno sotto il profilo tecnico, parte con le carte in perfetta regola.
La metamorfosi dall’economia pianificata a quella di mercato è sostanzialmente compiuta, l’immenso corpo legislativo comunitario che regola il mercato unico (ottantamila pagine di norme e di standard da rispettare) dai vari ordinamenti nazionali è stato metabolizzato. Anche un buon livello d’interdipendenza con l’Occidente, sul filo della riconversione dei flussi commerciali e di un massiccio afflusso di investimenti, è già conquistato. Gli ex “fratelli separati dell’Est” sono pervenuti alla meta della piena integrazione portando in dote tassi di crescita economica doppi rispetto a quelli dell’Unione a Quindici, vale a dire un serbatoio di dinamismo prezioso per un’Europa che invece continua a trascinarsi al traino degli altri grandi poli di sviluppo globali, come hanno confermato, una volta di più, gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale.
Allora l’allargamento sembra rappresentare la terra promessa, dal momento che dovrà portare una provvidenziale iniezione di energia e di “giovinezza” alla vecchia Europa, che invece più di tanto – diversamente da quel che si è fatto ad Est, dove si sono letteralmente bruciate le tappe – non riesce ad accelerare il passo della modernizzazione del proprio modello di società e di sviluppo. E dovrà portare nuovi mercati e nuove opportunità di recupero della competitività globale per l’industria del Vecchio Continente.

Vien voglia di credere che possa essere proprio così, anche se la realtà, almeno quella delle cifre, è un’altra. I Dieci (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Lettonia, Lituania, Estonia, Malta e metà Cipro) hanno sommato all’Unione una popolazione di poco inferiore (75 milioni di abitanti, complessivamente) a quella della sola Germania, ma con un Prodotto interno lordo (pari al 5 per cento di quello dell’Unione europea) analogo a quello dell’Olanda. E con un reddito pro-capite che è pari a un terzo rispetto a quello medio comunitario. Oltre tutto, con salari che, sempre in media, sono uguali a un quarto rispetto a quelli europei, ma che sono destinati a salire a mano a mano che l’integrazione tra le antiche e le nuove aree si approfondirà anche sul fronte del rispetto dei comuni standard socio-ambientali. Con questi numeri e con queste prospettive, più di tanto la linfa dell’Est non sarà in grado di fare, per carburare la crescita della Grande Unione.
Che, in ogni caso, per garantire il successo della storica scommessa della riunificazione continentale, sarà subito costretta a risolvere il complicato teorema politico-istituzionale dell’autogoverno a Venticinque. Vale a dire che dovrà varare a stretto giro di decisioni una Costituzione efficace, credibile e in grado di passare indenne sotto le forche caudine dei referendum popolari di ratifica. Quello britannico, prima di tutto.
Tutto questo è più facile da dire che da fare. I Dieci hanno svolto diligentemente i compiti a casa e si sono onorevolmente guadagnati il biglietto d’ingresso nella nuova famiglia. Per questo la vera partita dell’allargamento appare ancora tutta da giocare.
E per questo non sembra cominciare nelle condizioni migliori.

«Chi risponde al telefono quando chiamo l’Europa?». La celebre battuta di Henry Kissinger, trent’anni dopo, mantiene ancora la sua attualità. Dal primo maggio, 450 milioni di abitanti del Vecchio Continente sono “sotto una sola bandiera”, quella con le dodici stelle d’oro in campo azzurro dell’Unione europea. Ma l’allargamento è giunto a questa tappa in una fase assai delicata dei rapporti internazionali, sia all’interno dell’Europa sia tra le due sponde dell’Atlantico.
Certo, alla provocatoria domanda di Kissinger si può correttamente rispondere (fino alla fine del prossimo mese di ottobre): il presidente della Commissione europea. Ma a Bruxelles continua la diaspora dei commissari: quella greca è stata eletta nel Parlamento nazionale; il francese è passato alla guida della diplomazia dell’Eliseo; lo spagnolo è diventato ministro delle Finanze a Madrid; il finlandese è passato alla guida della Banca centrale nazionale. La perdita di slancio dell’Esecutivo dell’Unione europea va quanto meno fatta risalire alla “battaglia” per il Patto di stabilità del novembre dello scorso anno, quando il Consiglio dei ministri Ecofin congelò la richiesta della Commissione di avviare la procedura per deficit eccessivo contro la Francia e la Germania.
Ma come muta l’equilibrio dei poteri nell’Ue a Venticinque? E quale può essere, adesso, il suo ruolo nel mondo?
Secondo il presidente dell’Istituto francese di relazioni internazionali, De Montbrial, sul Patto di stabilità non occorre essere troppo pessimisti: Francia e Germania, insieme agli altri Paesi Ue, devono rientrare nei parametri di Maastricht, non perché lo chiede la Commissione, ma perché devono aggiustare i conti pubblici: a breve termine le polemiche possono prevalere, ma nel medio periodo l’opera di risanamento è nel loro stesso interesse. E sostiene De Montbrial che l’allargamento dell’Unione ad Est, dopo la fine dell’Urss, era inevitabile, anche se sembra essere stato troppo rapido: «I Venticinque non sono tutti uguali: se è logico pensare che alcuni Paesi giochino un ruolo d’avanguardia, ciò non deve creare alcuna forma di “direttorio”. Piuttosto serve – e in questo consiste la sottigliezza diplomatica – un “giroscopio” che indichi una direzione di marcia. E’ pur vero, però, che se Francia, Germania e Regno Unito non s’intendono, l’Europa si inceppa. La possibilità di giungere alla firma della nuova Carta Ue, dopo il cambio di governo in Spagna, dimostra che dalle disgrazie, anche le più imprevedibili e tremende, talvolta può derivare qualcosa di positivo, e questo avvicinamento europeo non deve essere ritenuto per forza una mossa antiamericana».
Secondo il direttore del Centro per l’integrazione europea dell’Università di Bonn, Kuhnhardt, un compromesso sulla Costituzione sarebbe un importante passo avanti, «ma l’Europa deve restare un partner affidabile degli Stati Uniti: per una vecchia esperienza, quando i rapporti transatlantici vanno male, anche il processo d’integrazione comunitaria ne soffre. Invece, negli ultimi due-tre anni c’è stata una sorta di Guerra fredda dentro il mondo occidentale: con la politica di neutralità tedesca l’asse franco-tedesco ha perso la sua carica propulsiva per diventare un binomio di blocco. Così almeno lo hanno percepito gli altri Paesi europei».
Per il direttore del londinese Reale istituto di affari internazionali, Bulmer-Thomas, la Gran Bretagna «è consapevole che la nascita di un “direttorio” con Francia e Germania pone grossi problemi all’Italia, ma Londra guarda a Parigi e a Berlino nell’ottica di un’alleanza strategica rivolta al futuro, mentre l’allineamento con la Spagna e la Polonia (sull’Iraq) è di natura tattica. Anche la scommessa del primo ministro britannico per la Costituzione Ue si inquadra in una sorta di “puzzle” tutto inglese. L’approccio di Londra è di tipo pragmatico e si basa sul fatto che i sudditi di Sua Maestà pensano di poter vivere bene anche senza la nuova Carta costituzionale, e per l’idea di Europa che piace a costoro va splendidamente un’aggregazione di Stati non troppo vincolante».

Per un osservatore che sta sull’altra sponda dell’Atlantico, come il docente alla Georgetown University di Washington, Kupchan, «un nucleo di Stati-guida, o “core Europe”, può essere utile per non riposizionare al minimo comun denominatore la nuova Unione a Venticinque. Il multilateralismo del XX secolo è ormai acqua passata. Poco importa se l’inquilino della Casa Bianca sarà democratico o repubblicano: le tensioni in Iraq e in Medio Oriente sembrano destinate a ridursi, lentamente ma fatalmente. Ecco perché l’Europa deve raddoppiare gli sforzi per costruire un’Unione capace di intervenire in modo compatto sugli scenari internazionali».
In un certo senso, in Italia il piatto piange. Mentre tutti gli Stati europei affilano le armi per affrontare la nuova situazione creatasi con l’ingresso dei Dieci nell’Ue, da noi si rimane in mezzo al guado, per le tensioni, che sembrano insuperabili, e che sono comunque inconciliabili, tra i sostenitori dell’economia di mercato e i sostenitori dell’intervento pubblico (a favore dei dipendenti statali e delle imprese “privatizzate”, ma solo in parte, con la mano pubblica in non pochi casi in possesso del 51 per cento dei pacchetti azionari). La situazione che si è venuta a creare è di pieno stallo, con conseguenze nefaste sull’economia italiana.
Il caso Alitalia è stato emblematico: Berna (che pure non fa parte dell’Unione europea) lasciò fallire la Swissair, e da quel crollo nacque la Swiss, che funziona molto bene. Ed è stato altrettanto emblematico il caso Fiat, con il ministro delle Finanze deciso a lasciar fare al mercato e ai rapporti tra dirigenza e sindacati, mentre altri invocavano l’intervento (inappropriato) del governo. Insomma, c’è chi non vuol capire che i tempi sono cambiati, che i vecchi comportamenti sono ormai obsoleti, che “meno Stato e più mercato” non è una formula astratta, ma un principio informatore dell’azione politica e di politica economica del nuovo secolo. Certamente, da una parte c’è la paura di perdere potere, e dall’altra la speculare paura di perdere consenso. Ma l’Europa è lì ad insegnarci che la perpetua compromissione non è più concepibile in un concerto europeo comunitario che scandisce ben altra musica. Sicché, o si va nella stessa direzione, o si è destinati a restare tagliati fuori, emarginati al ruolo di comprimari con diritto di parola, certamente, ma senza alcun reale peso specifico nell’ambito delle decisioni risolutive della politica europea.

   
   
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