Giugno 2004

Scenari

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Demografia
e crescita economica
Anthony S. Wilson  
 
 

 

 

Una nuova
dottrina si aggira per l’Europa:
in fatto di crescita economica e
di ricchezza, più
dei mercati
liberalizzati conta la demografia.

 

La popolazione mondiale è attualmente di 6,1 miliardi di persone. Fra tre secoli sarà scesa a 2,3 miliardi o sarà esplosa a 36,4 miliardi? Verosimilmente, almeno secondo le cifre di uno “scenario intermedio”, sarà cresciuta fino a nove miliardi. In ogni caso, tenuto conto del fatto che una minima oscillazione del tasso di fecondità può provocare enormi variazioni, è piuttosto difficile fare congetture. Una cosa sembra inevitabile: il declino dell’Europa.
Il Dipartimento degli affari economici e sociali delle Nazioni Unite ha pubblicato i suoi scenari demografici mondiali. Le ipotesi del Dipartimento non avevano mai preso in considerazione un periodo così lungo: il rapporto precedente guardava “soltanto” fino al 2150. Quello attuale si spinge fino al 2300. Queste previsioni sono utili «agli specialisti dell’ambiente, ai responsabili politici e a tutti quelli che valutano a lungo termine le implicazioni demografiche», chiarisce l’analisi. «Forse servono soprattutto a capire fino a che punto una piccola variazione nel tasso di fecondità attuale abbia conseguenze davvero straordinarie a lungo termine», sottolinea il capo della Sezione Evoluzione dell’Ufficio federale di statistica (Ofs) elvetico.

Così, lo scenario “basso” dello studio dell’Onu presuppone un tasso di fecondità mondiale pari a 1,85 figli per donna, e lo scenario “alto” di 2,35 figli. Da notare che oggi il tasso è di 2,69: i demografi dell’Onu non prendono neanche in considerazione l’ipotesi secondo cui potrebbe restare costante. Se così fosse, infatti, la popolazione mondiale raggiungerebbe nel 2300 ben 134 miliardi di persone: un’ipotesi ritenuta “irrealizzabile”.
Lo scenario “intermedio”, che sembra essere quello più plausibile, presuppone un tasso di fecondità stabilizzato a due figli per donna, cioè leggermente inferiore al tasso di rinnovamento della popolazione (2,1). Si osserva qui un cambiamento di atteggiamento dell’Onu: fino a questo momento i demografi erano sicuri che, alla lunga, sarebbe risalito a 2,1, mentre già nel rapporto del 2000 hanno ammesso, per la prima volta, che il concetto di soglia di rinnovamento della popolazione potrebbe sparire dal nostro orizzonte. Il che non impedirà alla popolazione di invecchiare, ritengono gli esperti, i quali confidano in un grande miglioramento della speranza di vita, in particolare nei Paesi in via di sviluppo.

Le medie mondiali sono più impressionanti che interpretabili, ma le differenze regionali parlano chiaro. Secondo lo stesso “scenario intermedio”, nel 2300 la quota dell’Africa nella popolazione mondiale si sarà raddoppiata, passando al 24 per cento, mentre la parte dell’Europa si sarà ridotta dal 12 al 7 per cento. Il declino dell’Europa, che oggi è ferma a 1,4 figli per donna, è considerato né più né meno che una “certezza”. E questo anche se lo “scenario intermedio” scommette su un livellamento dei tassi di fecondità intorno a due figli per donna. Il demografo svizzero critica in ogni caso la scelta compiuta dai suoi colleghi internazionali, quella di disegnare un futuro ipotetico privo di movimenti migratori: «Il saldo migratorio è l’unico fattore di crescita dei Paesi sviluppati. Uno scenario che mantenesse il saldo attuale darebbe un’immagine diversa della futura ripartizione delle popolazioni».

E’ proprio l’Europa, e non i Paesi sviluppati in generale, ad essere più toccata dall’inverno demografico. L’America del Nord, con due figli per donna, sfugge alla depressione riproduttiva. Così India, Cina e Stati Uniti fra tre secoli saranno ancora i Paesi più popolati del mondo. Questi numeri danno ragione agli economisti, che attenuano il pessimismo delle analisi puramente politiche sul declino americano: una parte decisiva della battaglia si svolge sul piano demografico – spiegano – perché se una natalità galoppante può frenare lo sviluppo, un Paese troppo vecchio è condannato al declino economico.
Dopo le previsioni, che comunque restano sempre nel limbo dell’astrazione, vediamo i commenti. Si dice che, al pari del mitico fantasma, una nuova dottrina si aggiri per l’Europa. Non c’entra nulla con la “borsetta liberista” della Thatcher né con il colbertismo dirigista di Chirac. Dice che, in fatto di crescita economica e di ricchezza, più dei mercati liberalizzati e dei campioni industriali nazionali, conta, appunto, la demografia. E aggiunge che, su queste basi, è quasi impossibile che i Paesi dell’Unione europea raggiungano le performances degli Stati Uniti, e men che meno l’obiettivo di una crescita media del 3 per cento fissata al vertice Ue di Lisbona del marzo 2000. Anzi: gli ostacoli frapposti dalla maggior parte dei membri della stessa Ue agli immigrati potenzialmente in arrivo dai Dieci Paesi entrati in Unione fanno pensare che la situazione non sia destinata a migliorare nel breve periodo.
L’impatto dell’andamento demografico sull’economia è sempre più al centro del dibattito degli economisti e degli statistici. Ora, un’analisi americana aggiunge qualche considerazione e alcuni numeri.
In sostanza, calcola che nel confronto tra Stati Uniti ed Eurolandia le differenze nella ricchezza e nella crescita del Prodotto interno lordo dipendano dal fatto che la popolazione europea lavora meno e aumenta meno.
I punti di partenza sono due. Primo: nel 2003 il Pil pro capite della zona euro è stato del 30 per cento inferiore a quello americano in termini di parità di potere d’acquisto. Secondo: negli ultimi dieci anni il Pil americano è cresciuto in media dell’1 per cento in più ogni anno di quello di Eurolandia.

L’Europa, cioè, rispetto all’America continua ad impoverirsi. E si sottolinea: dal momento che la produttività (Pil prodotto per ogni ora lavorata) in Eurolandia è simile a quella degli Stati Uniti, la differenza di ricchezza pro capite prodotta è data dal fatto che, sempre nel 2003, l’utilizzazione del lavoro in Europa è stata del 28 per cento inferiore rispetto agli Usa. La metà di questo 28 per cento dipende dal fatto che i lavoratori europei hanno lavorato il 15 per cento di ore in meno. L’altra metà dipende dal fatto che in Europa lavora meno gente: per ogni cento persone tra 15 e 64 anni che in America lavorano, in Europa solo 81 sono occupate, (in Italia, fanalino di coda, si scende a 59).
Risultato: al di qua dell’Atlantico l’anno scorso abbiamo prodotto un terzo di ricchezza in meno rispetto agli americani.
E negli ultimi dieci anni, la crescita della produttività è stata praticamente uguale: l’1,8 per cento in Eurolandia e l’1,6 per cento negli Stati Uniti. L’utilizzazione del lavoro è cresciuta dello 0,1 per cento in America ed è invece calata dello 0,2 per cento in Europa. Distanze non enormi. Ciò che ha fatto la vera differenza nella crescita dei rispettivi Pil è stato il fatto che la popolazione americana è aumentata dell’1,2 per cento l’anno, mentre quella di Eurolandia di meno della metà: 0,5 per cento.
Un guaio destinato a crescere. Per il prossimo decennio, l’Eurostat calcola che la crescita della forza lavoro europea sarà sostanzialmente uguale a zero. Su queste basi – al netto di riduzioni nell’orario di lavoro e considerando una crescita della produttività costante – il Pil della zona euro aumenterà in media del 2 per cento annuo per tutti i prossimi dieci anni. In questo quadro, l’Italia è nelle posizioni peggiori sia per i trend demografici sia per l’occupazione.

Sulla base di queste analisi, c’è pochissima possibilità che Eurolandia raggiunga il tasso di crescita medio del 3 per cento l’anno nel prossimo decennio, a meno che non ci sia un cambio significativo nei trend demografici. La stessa analisi sottolinea però che «questo richiederebbe un grande cambiamento nel pensiero politico europeo per incoraggiare un’immigrazione molto maggiore». Succede, infatti, che, con l’eccezione dell’Irlanda e della Gran Bretagna, i membri Ue stanno applicando gli “accordi transitori” previsti con i nuovi Dieci entrati, cioè ricorrono a limitazioni al libero movimento dei lavoratori dei nuovi Paesi membri, restrizioni applicabili in diverso grado, in teoria, fino al 2011. Senza entrare nel merito di scelte che non sono solo economiche, ma anche sociali e politiche, questa chiusura toglie per molti anni all’Ue uno dei benefici (anche questi, comunque, in teoria) maggiori dell’allargamento: la possibilità di attrarre lavoratori giovani e di frequente ad alta scolarizzazione – come in media sono quelli polacchi, cechi, ungheresi, baltici – che potrebbero «aiutare ad affrontare i problemi associati con l’invecchiamento della popolazione di Eurolandia». Opportunità invece colta dall’Irlanda, che nei confronti dell’immigrazione dai Dieci Paesi ha scelto la politica della porta aperta.
La conclusione degli economisti – e della nuova “dottrina della demografia” – è piuttosto radicale e ribalta le certezze dominanti da anni nelle Cancellerie europee: le riforme strutturali sono importanti, ma non avranno il risultato di creare una crescita di stile americano, come è stato suggerito dall’Agenda di Lisbona.

   
   
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