Giugno 2004

La moneta unica

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Odiosamato euro
M.B.  
 
 

 

 

 

Dopo essere stato per un certo
periodo di tempo motivo di
consenso, l’euro è diventato oggetto di scontro politico e sociale.

 

Si tratta di nuvole passeggere oppure di un’incomprensione destinata a durare e magari ad acuirsi nel tempo? Forse è ancora troppo presto per dirlo, ma è sufficientemente chiaro che il rapporto degli italiani con la moneta unica è diventato la storia di un profondo disamore. E’ lontano il tempo in cui nella michelangiolesca Piazza del Campidoglio migliaia di cittadini attendevano sotto una pioggia battente la celebrazione dell’entrata ufficiale della lira nell’euro.
Quel 3 maggio 1998 i loro eroi si chiamavano Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro delle Finanze. Avevano appena strappato, malgrado la rude opposizione degli olandesi, il consenso all’ingresso dell’Italia nella moneta unica.
Quel giorno, la scommessa di rimettere un poco di ordine nei conti pubblici, che soltanto due anni prima sembrava un’impresa semplicemente impossibile, era stata vinta. Gli imprenditori, seguendo l’esempio di Giovanni Agnelli, si felicitavano; i sindacalisti festeggiavano; i cittadini, non senza un certo orgoglio, restavano in attesa delle novità.
«Dopo tante avversità, l’Italia ha l’impressione non solo di entrare in Europa, ma anche di tornare ad essere se stessa, di ritrovarsi», scrivevano i quotidiani. L’euforia sembrava giustificata. Infatti: da allora, l’euro è rimasto stabile. Ma agli occhi di molti (troppi) italiani ha smarrito come d’incanto tutte quante le sue iniziali attrattive.
Non sono solamente i piccoli industriali e gli artigiani del Nord-Est, attivissimi e ricchi di iniziative, ad esprimere la propria rabbia perché vedono le esportazioni locali penalizzate da una moneta forte. L’abitudine alla manovra dei tassi di cambio e alla svalutazione competitiva della lira ha lasciato tracce abbastanza profonde. E molto spesso anche dei rimpianti. Nei negozi, nelle piazze e lungo i viali di Torino, di Roma, di Palermo o di Bari si brontola contro il nuovo strumento monetario e si impreca sempre più ferocemente per il rincaro dei prezzi nella Penisola e in genere in Eurolandia.

A Francoforte la Banca centrale europea aveva fissato il tasso di cambio a 1.936,27 lire per un euro. Ma nel Paese di Pinocchio non pochi commercianti hanno finto di aver capito che mille vecchie lire valevano un euro, e i conti non tornano. Persino la zia del presidente del Consiglio si è lasciata andare, stando a quanto ha raccontato il suo illustre nipote: «Una mia zia ottantenne, che dirige il teatro Manzoni, voleva approfittare del passaggio all’euro per arrotondare il prezzo del biglietto verso l’alto... Ho fatto di tutto per convincerla a fare il contrario. Non ho potuto farci proprio niente. La maggior parte dei commercianti si è comportata alla stessa maniera. La sola àncora di salvezza è stata la grande distribuzione». Avevano dunque ragione gli abitanti dell’isola di Stromboli, quando si opposero con inusitata tenacia all’introduzione della moneta unica europea?

Malgrado quel che si è verificato, l’Istat ha messo in rilievo che l’inflazione italiana resta inferiore al 3 per cento e minimizza l’impatto dell’euro sul rialzo dei prezzi. Ma secondo l’opinione più diffusa, questo non è vero. Le cifre ufficiali continuano ad essere contestate. E in un Paese che non manca d’immaginazione si inventano originali forme di protesta: contro il rincaro dei prezzi attribuito alla moneta unica, “sciopero della spesa”!

Secondo i promotori, il 47 per cento degli italiani, vale a dire ventisei milioni e mezzo di consumatori, avrebbero preso parte a questa eccentrica forma di protesta. Ma con scarsi risultati, se ancora oggi sei italiani su dieci chiedono semplicemente l’abbandono dell’euro e il ritorno alla buona vecchia lira. E ciò perché l’impoverimento reale delle famiglie, con un tasso di indebitamento del 15 per cento rispetto al 2003, e con un risparmio finanziario pressoché dimezzato nel giro di un anno, è essenzialmente attribuito alla moneta unica.
Secondo una recentissima indagine, fra l’altro, è cresciuto in misura preoccupante il ricorso delle famiglie ai prestiti personali, perché molti salari e stipendi non consentono di giungere alla fine del mese. Fino a quando potrà durare questo stato di cose non è dato saperlo. Quel che si paventa è in modo particolare la prospettiva del passo successivo: quando le banche o le finanziarie chiuderanno per questi bisognosi i rubinetti dei prestiti, i soggetti deboli potranno essere costretti a fare ricorso al micidiale pianeta dell’usura, cioè a quella finanza nera e da nodo scorsoio che potrà determinare forti scompensi sociali, umani ed economici, con un prevedibile sconvolgimento delle regole civili e con la moltiplicazione delle situazioni di disagio nella società italiana.
In conclusione. Dopo essere stato per un certo periodo di tempo motivo di consenso, l’euro è diventato anche oggetto di scontro politico e sociale. «Perché i prezzi sono aumentati soltanto in Italia?», si è chiesto il presidente della Commissione europea in aperta polemica con il presidente del Consiglio italiano. «E’ ora di finirla con le menzogne», ha aggiunto, rincarando la dose e accusando il governo di Roma di non aver controllato efficacemente il rialzo dei prezzi. «La prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo», ha replicato il ministro dell’Economia, parlando del “disastro euro”, che sembra un modo di ammettere che i prezzi, nel nostro Paese, con l’ingresso della moneta unica sono praticamente raddoppiati.
Di qui, la diffusa opinione che gli italiani pagano in euro, mentre continuano ad essere salariati e stipendiati in lire. E di qui, anche, il sordo conflitto, lo scontro permanente sul tema, che finisce per influenzare anche il confronto politico, spaccando il Paese.
Oltre tutto, emerge con prepotente gravità il problema dei pensionati, o, per meglio dire, dei differenti trattamenti economici riservati ai pensionati. Secondo le più recenti rilevazioni, un pensionato del Sud prende circa 1.500 euro in meno rispetto a quello che smette di lavorare al Nord. Nelle regioni meridionali, infatti, l’importo medio della pensione non supera i 7.500 euro all’anno: una cifra ben lontana dai 9.000 euro della media dei pensionati del Nord e dagli 8.800 di quelli del Centro.

Le cifre emergono dal Rapporto annuale del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (Dps) del ministero dell’Economia e delle Finanze. Lo studio dimostra, infatti, come il diverso livello “storico” di sviluppo economico e di occupazione nelle singole aree del Paese sia ricaduto anche sulla distribuzione territoriale del numero di pensioni e, soprattutto, sulle differenze di importi. «Si crea così in un’area rimasta a lungo arretrata un circolo vizioso per cui la scarsa ricchezza del passato genera pensioni basse in futuro. Per superarlo, lo Stato deve intervenire con politiche di perequazione».
Mentre al Nord e al Centro l’assegno, calcolato per tutte le tipologie di prestazione, è decisamente superiore alla media nazionale, al Sud l’importo si riduce notevolmente. Fatta 100 la media italiana, infatti, nelle regioni del Settentrione l’indice tocca il 106 per cento; al Centro il valore scende al 104 per cento, restando comunque superiore alla media; mentre al Sud crolla al livello dell’88 per cento.

Anche la distribuzione territoriale della spesa previdenziale conferma la maggiore consistenza delle pensioni del Nord. Oltre la metà del totale di questa voce va, infatti, alle regioni settentrionali (51,7 per cento); il 27,1 per cento è destinato al Mezzogiorno, mentre la quota più bassa (21,2 per cento) spetta al Centro.
Nel Sud, inoltre, il rapporto tra il valore delle pensioni e il numero dei pensionati si ribalta. Se al Nord e al Centro l’importo supera, in termini percentuali, i beneficiari delle prestazioni, al Sud si verifica il contrario. In altri termini, al Nord ci sono meno della metà del totale dei pensionati, mentre la spesa previdenziale è ben al di sopra del 50 per cento. Nelle regioni settentrionali, infatti, vive il 48,7 per cento dei pensionati, che però percepiscono complessivamente il 51,7 per cento della spesa previdenziale. Il rapporto si mantiene anche al Centro, dove risiede il 20,5 per cento dei pensionati, che assorbono il 21,5 per cento del totale.
Viceversa, al 30,8 per cento dei pensionati meridionali è destinato non più del 27,1 per cento della spesa complessiva.
I redditi da pensione nel 2002 (ultimi dati a disposizione) sono stati pari a 189,3 miliardi di euro, con una crescita del 4,6 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il numero dei pensionati è diminuito di 16.000 unità, passando a 16 milioni 345 mila. Ma questo non ha portato alcun vantaggio nelle loro tasche. Semmai, i rialzi impunemente prodotti nel costo dei beni di consumo ha aggravato i problemi dei ceti sociali meno protetti.
Si torna così al discorso iniziale, con una domanda d’obbligo: basterà emettere biglietti da uno e da due euro per dare consapevolezza di spesa ai consumatori? E i prezzi al dettaglio saranno calmierati da una spinta spontanea? Oppure, giunti dove siamo giunti, è semplicemente inutile farsi illusioni?

   
   
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