Giugno 2004

La grande unione

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Frontiere socchiuse
d.m.b.  
 
 

 

 

Sono state
la Germania
e l’Austria ad
annunciare per prime l’intenzione di mantenere
la chiusura delle frontiere per
l’intero periodo
di sette anni.

 

Per i mercati del lavoro europei succederà poco o niente, visto che resteranno sostanzialmente inaccessibili ai cittadini della nuova Europa. La prevista libertà di circolazione per i lavoratori cittadini dei Dieci Stati membri (75 milioni di persone, complessivamente) non è riuscita a sopravvivere all’approssimarsi della data del primo maggio. Le promesse di mantenere aperte le frontiere fatte in fase di negoziato sono progressivamente svanite nel corso dei primi mesi del 2004, innescando una fulminea “corsa alla chiusura” per la quale la decisione in senso restrittivo di un Paese ha spinto gli altri a muoversi nella stessa direzione.
Cioè: nonostante la previsione teorica della libertà di movimento dei lavoratori con la cittadinanza europea, gli accordi prevedono che gli Stati già membri possano optare per periodi di transizione – della durata massima di sette anni, (due anni più cinque) – nel corso dei quali è possibile limitare gli ingressi di lavoratori provenienti dai nuovi Stati. In caso di mancata decisione in merito, inoltre, vanno mantenute le legislazioni nazionali e le conseguenti restrizioni, (in Italia la moratoria prevista è di due anni, salvo accordi diversi in itinere o a scadenza dei tempi).

Sono state la Germania e l’Austria – i Paesi con la più alta percentuale di cittadini residenti e provenienti dai nuovi Stati membri, nonché quelli “geograficamente più esposti” – ad annunciare per prime l’intenzione di mantenere la chiusura delle frontiere per l’intero periodo di sette anni.

Un altro gruppo di Paesi membri – Danimarca, Finlandia, Svezia e Regno Unito – ha scelto di unire le restrizioni all’accesso lavorativo alla possibilità di usufruire delle prestazioni dello Stato sociale. Un altro folto gruppo, infine, composto da Belgio, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Olanda e Spagna, ha previsto restrizioni per i primi due anni, o non ha preso ancora alcuna decisione definitiva, mantenendo di fatto le normative nazionali vigenti. L’unica eccezione, in questo panorama, è costituita dall’Irlanda, che, nonostante qualche dichiarazione d’incertezza, è intenzionata a mantenere spalancate le proprie frontiere.
Il timore degli effetti dell’allargamento e la conseguente “ortodossia restrittiva” che hanno prevalso nell’Unione sono stati naturalmente oggetto di risentite critiche da parte dei governi dei Dieci e hanno destato preoccupazione nella Commissione europea. Queste scelte, infatti, si scontrano palesemente con l’esperienza passata dell’allargamento che coinvolse Spagna e Portogallo e dell’unificazione della Germania, quando flussi effettivi di lavoratori risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quanto temuto alla vigilia. Fra l’altro, non tengono conto dei numerosi studi economici che hanno quantificato flussi futuri di ingresso in meno di 400 mila unità lavorative all’anno per l’intera Unione europea, circa l’1 per cento della popolazione in età di lavoro dei nuovi Stati membri. Altrettanto trascurate, infine, sono le caratteristiche individuali – in termini di giovane età e di elevato grado di istruzione – dei potenziali migranti che, secondo quanto emerge da un recente sondaggio, costituirebbero un importante apporto di capitale umano alle economie europee.

Resta aperta la possibilità della stipulazione di accordi bilaterali – come quello possibile tra Italia e Polonia – che dovrebbero perlomeno accelerare il processo di apertura. Nel frattempo, l’Italia insisterà nel mantenere un sistema di quote che non pochi considerano inadeguato rispetto a quelle che sono le dimensioni e le esigenze economiche del nostro Paese. Secondo una recente indagine, infatti, vi sarebbero circa quattro richieste nominative di lavoratori stranieri per ogni posto previsto dal decreto flussi per il 2004. Un’apertura immediata avrebbe probabilmente costituito una buona occasione per ricondurre nell’ambito della legalità parte di quei percorsi migratori e di quel lavoro che altrimenti continuano a ricadere nel sommerso e nelle pratiche irregolari, abbastanza diffuse nel nostro Paese.

   
   
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