Giugno 2004

Le venticinque europe

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La scommessa
Jean Pierre Vandras  
 
 

 

 

Dietro le diffidenze nei confronti
di un’Europa
a geometria
variabile si
nasconde il timore che Francia
e Germania
riprendano un ruolo egemone in Europa.

 

Ci sono stati anni in cui all’unità dell’Europa si dava credito per una speranza. Poi, anni in cui l’entusiasmo dettava il passo e tutto sembrava possibile, e addirittura inevitabile. Oggi, credere che l’Unione europea, così come è stata portata avanti, abbia ancora un futuro vero, da solida e affidabile risposta a sfide sempre più impegnative e globali, pare quasi più una scommessa che non una scelta. Colpa della Costituzione non approvata, dei veti e dei contro-veti che a Bruxelles hanno rovesciato il tavolo del semestre italiano, e che obbligheranno attualmente l’Irlanda e subito dopo l’Olanda a un difficile lavoro di ricucitura.
Certo, il braccio di ferro inscenato da Francia e Germania contro Spagna e Polonia sembra destinato a lasciare qualche strascico. Uno lo si è già visto: le Cancellerie di Parigi e Berlino, insieme con quelle di Gran Bretagna, Austria, Olanda e Svezia, propongono di congelare all’1 per cento del Prodotto interno lordo il bilancio Ue. Il che vorrebbe dire tagli secchi ai contributi per le regioni depresse e un colpo di clava, appunto, a Spagna e Polonia, (ma anche al Mezzogiorno d’Italia, alla Grecia e al Portogallo), che di zone ancora poco sviluppate abbondano.

Ma bastano i numeri, sempre diversi, a chiarire che qualche meccanismo si è inceppato. Ultima è stata la Lettera dei Sei, meno di un anno prima ci fu l’appello degli Otto, in mezzo c’era stato l’appello dei Dieci. L’Europa sembra dare i numeri e sulla ruota delle polemiche non escono quelli giusti: i recenti Quindici, o i nuovi Venticinque. Non è necessario neppure elencare i Sei, gli Otto o i Dieci di turno. Perché cambiano come cambiano gli interessi, chi litigava per la guerra in Iraq fila d’amore e d’accordo quando si tratta di mitigare i Patti di Stabilità, o chi si allineava con gli Stati Uniti poi ha preso le distanze, e chi, come Londra, lodava la Polonia subito dopo ha minacciato di tagliarle i fondi, prima ancora che entrasse nell’Ue.

Non è solo mal di Costituzione. C’è una crisi di cornice messa su dai grandi Paesi d’Europa quando sono stati costretti a confrontarsi con la crisi economica mondiale e, insieme, con la prospettiva dell’allargamento. Da una parte mancavano i quattrini, dall’altra bisognava spendere per un progetto che portasse aria fresca alla stagnante economia continentale, ma che nell’immediato richiedeva sacrifici e fiducia. Ciascuno ha risposto secondo storia e inclinazione. Francia e Germania facendo blocco, cercando di imporre agli altri decisioni motivate soprattutto con il peso della posizione geografica, della massa economica e di una straordinaria intesa politica. Realizzando in parte, cioè, quella “Europa a due velocità” di cui ogni tanto tornano a parlare con toni sempre meno vagamente minacciosi.

Stupisce che si stupiscano di suscitare resistenza e qualche ostilità. Polonia e Spagna difendono vantaggi non ancora meritati. Ma ad assegnarglieli è stato un Trattato, quello siglato a Nizza nel 2000, che non può essere abolito solo perché ad alcuni non piace più. Vale tuttora, inoltre, la ragione di fondo dell’allargamento: i Paesi più ricchi mettano i quattrini, i Paesi entranti portano in dote l’opportunità di fare dell’Europa un punto di riferimento planetario in campo politico ed economico. Cosa che senza di loro difficilmente avverrebbe. Possibile che a Parigi e a Berlino sembri tanto poco?
Qualcuno poteva essere persino tentato di crocifiggere l’allargamento, imputandogli la responsabilità del fallimento del vertice di Bruxelles e della crisi senza precedenti in cui era caduta l’Unione ancor prima di ampliarsi ad Est. Magari poteva esser tentato di farlo passare per un alibi quasi perfetto. Ma sarebbe stata un’operazione sporca. Perché, se a breve il traguardo della Costituzione europea è saltato, non è stato per l’ingovernabilità di un negoziato con Venticinque protagonisti, tutti muniti di diritto di veto, ma perché a un certo punto nella partita sono spuntate alcune carte truccate. In altre parole: c’era chi negoziava, più o meno duramente e più o meno spinto dalla difesa di interessi nazionali, (ancora una volta, Spagna e Polonia), alla ricerca di un accordo generale europeo. E chi, invece, (ancora una volta, Francia e Germania), si era seduto al tavolo con in testa già un’altra Europa da affiancare a quella dei Venticinque e perciò disposto a trattare, si fa per dire, solo alle proprie condizioni: cioè, solo se gli altri erano disposti ad accettarle. La presidenza italiana, dunque, è stata presa nella tenaglia degli estremismi, e alla fine ha dovuto arrendersi all’evidenza del fallimento, determinato dalle insidie del doppiogiochismo scaturite tutte e soltanto dall’Europa dei Quindici.

Per ritrovare un vertice di svolta per la storia europea analogo a quello di Bruxelles è necessario ritornare a Maastricht. All’epoca, l’intesa franco-tedesca produsse un clamoroso successo: il progetto dell’euro aperto a chi, avendone i requisiti, volesse parteciparvi nel quadro di un Trattato europeo. A Bruxelles, invece, la medesima accoppiata ha silurato un disegno ancora più ambizioso, ma indispensabile per tenere insieme l’Europa allargata, quello della Costituzione, semplicemente perché non riusciva a imporre a tutti la propria equazione sulla redistribuzione del potere nella nuova Unione. Lo ha fatto con una manovra meno scoperta, ma molto simile a quella con la quale aveva orchestrato soltanto qualche settimana prima il “golpe” contro le regole del Patto di Stabilità.
Nessuno nega che il criterio della doppia maggioranza, che rifletta quella degli Stati e delle rispettive popolazioni, sia il più chiaro, trasparente e comprensibile. Nessuno però può nemmeno negare che il ritocco della formula avanzata nella bozza della Convenzione (50 per cento degli Stati, 60 per cento della popolazione) o il rinvio della sua applicazione non sarebbe stato uno scandalo. Tanto più, quando si pretendeva che, accettando il nuovo sistema, Spagna e Polonia rinunciassero al rispettivo “super-potere” conquistato tre anni prima con un Trattato legittimo, quello di Nizza, appunto, approvato all’unanimità dai Quindici proprio in vista dell’allargamento e proprio sotto la presidenza europea della Francia, che poi lo ha rinnegato come superato dalla storia (?), poco dopo ratificato da tutti i Venticinque, utilizzato come base per negoziare i Trattati di adesione dei nuovi Dieci, e infine non ancora in vigore, perché lo sarà solo dal novembre 2004.

«Meglio nessun accordo che uno al ribasso», la parola d’ordine imperante e ineccepibile, perché apparentemente militava per un’Europa alta e nobile, efficiente e coesa, quindi protagonista sugli scenari mondiali. In realtà, la formula 50/60 piaceva tanto e soprattutto alla Francia per due ragioni: perché regalava ai Grandi un ruolo praticamente ineludibile nelle coalizioni di voto, favorendo di fatto e di diritto il “direttorio” in Europa; e perché le permetteva di mantenere un rapporto di potere non troppo sbilanciato con la Germania (sebbene sia molto più popolosa). Piaceva alla Francia perché comunque, in un modo o nell’altro, consentiva di creare l’Europa delle avanguardie, cui Parigi aveva sciolto un’elegia: «E’ una buona soluzione perché darà un motore e l’esempio permetterà all’Europa di andare più presto, più lontano e meglio».
«L’Europe est la France», amava ripetere François Mitterrand. Che con il tedesco Helmut Kohl a Maastricht fece l’euro non per dividere, ma per unire l’Europa. Invece ora Parigi e Berlino sembrano ansiose di tirar dritto, liberandosi di tutte le zavorre, reali o presunte, che ne intralcino la strada: regole, Trattati come quello di Nizza, peso dell’allargamento presente e futuro compreso. Il progetto è ripartire dalla vecchia Europa dei Fondatori senza rompere con la Grande Unione, preziosa per il suo mercato unico. Un progetto che potrebbe essere anche inevitabile e condivisibile se fosse gestito in modo più europeo: non con l’arroganza di chi vuole asserirsi anche al di sopra della legge, sopra i propri Trattati e sopra le proprie scelte a favore di un allargamento “destrutturato”, già divenuto scomodo. Brutta Europa, quella che sembra attenderci, con o senza Costituzione.

Il solo dato certo emerso da Bruxelles era che l’interesse generale dell’Europa si trovava messo in discussione. Il Progetto di Trattato Costituzionale elaborato dalla Convenzione era stato un compromesso, e come tale non aveva raccolto il consenso pieno e convinto di nessuno. Ma il compromesso era necessario e il fatto che non abbia avuto successo ha posto l’Ue in una condizione d’incertezza dalla quale è necessario venir fuori al più presto.
Vi sono pochi dubbi che la conclusione negativa conferma le critiche che erano state a suo tempo espresse riguardo al modo con il quale la Convenzione aveva deciso di procedere. Il mandato affidatole non era stato quello di preparare un nuovo Trattato o addirittura una vera e propria Costituzione, ma un testo che una successiva conferenza intergovernativa avrebbe avuto il compito di ratificare “en bloc”, o comunque apportandovi correzioni molto limitate. La Convenzione non era un’assemblea costituente. Il potere costituente rimaneva, e rimane, nelle mani degli Stati membri, dei loro Parlamenti e dei loro governi. Considerazioni di legittimità democratica e di realismo politico avrebbero dovuto rendere chiaro che le decisioni sul futuro dell’Europa dovevano essere effettivamente prese, e non meramente recepite, da chi ha questo potere, legittimato dalla tradizione e dalla democrazia.

Il mandato di Laken poneva la Convenzione di fronte a quesiti ai quali essa doveva dare risposte non necessariamente univoche. Vi erano buone ragioni per dubitare che la decisione di produrre un testo compiuto e chiuso da parte della Convenzione fosse la maniera più efficace per ottenere in tempi rapidi un nuovo Trattato fondamentale. Come pure vi erano buone ragioni per immaginare che gli Stati che non avessero visto riflesse nel testo preparato esigenze da essi ritenute primarie, non si sarebbero piegati a votarlo in nome dell’opportunità di non mettere in discussione un progetto compiuto. L’esperienza della formazione delle istituzioni europee mostrava che questo non era mai avvenuto. I progressi erano stati ottenuti con la negoziazione, non attraverso l’imposizione di modelli precostituiti, seppure elaborati con grande competenza tecnica.
Nel vuoto lasciato da un non riuscito tentativo di un momento “costituzionale”, che avrebbe dovuto trovare l’accordo unanime degli Stati membri, sono in molti a ritenere che il futuro prossimo dell’Unione vedrà il prevalere di un’Europa “a geometria variabile”, nella quale alcuni – e solo alcuni – Paesi procederanno verso «un’Unione sempre più stretta». Questa ipotesi dell’Europa a due velocità ha suscitato, e non da un tempo recente, diversi timori. Si teme in particolare che essa introduca un elemento di divisione che non potrà essere riassorbito in futuro. Di fatto, che essa creerebbe nel nostro Continente due diverse realtà politiche e istituzionali, potenzialmente divergenti e non convergenti. Si tratta di timori legittimi, ma da alcuni ritenuti eccessivi.
Là dove alcuni Stati membri decidano di cooperare in modo più stretto, il compito dell’Unione è di controllare che la creazione di più forti aree di azione collettiva tra alcuni degli Stati membri avvenga nel rispetto dei princìpi generali dei Trattati. Ad esempio, che essa non comporti delle barriere, di fatto o di diritto, alla libera circolazione delle persone, dei beni, dei capitali o dei servizi, o che essa non comporti forme di sovvenzione, dirette o indirette, alle imprese dei singoli Stati.
Se queste condizioni saranno soddisfatte, la creazione di più forti aree di azione collettiva tra singoli Paesi non genererà effetti negativi, ma contribuirà fortemente all’integrazione generale dell’Unione. Sarà un’ottima base per un momento autenticamente costituzionale, non un ostacolo.
Ma attualmente, dietro le diffidenze nei confronti di un’Europa a geometria variabile, si nascondono timori che sono di tipo più strettamente politico. Si nasconde il timore che, messo da parte il momento costituzionale, Francia e Germania riprendano un ruolo egemone in Europa. Del resto, i due Paesi hanno fatto ben poco per fugarlo. Tanto più che erano in parecchi a ritenere che la rigidità francese e tedesca sul numero di voti da attribuire a Madrid e a Varsavia non sia stata estranea alla preoccupazione delle due sponde del Reno di vedere diluito il loro ruolo centrale nell’Europa a Venticinque. Una preoccupazione che avrebbe finito con il prevalere rispetto al dato – inoppugnabile – che il Progetto di Trattato costituzionale rifletteva in modo fondamentale la cultura costituzionale e quella amministrativa della Germania e della Francia, marginalizzando le tradizioni non soltanto dell’Inghilterra, ma anche dei Paesi dell’Europa latina.
Messo da parte il testo della Convenzione, si è tornati dunque alle regole di Nizza, che alcuni non ritengono una prospettiva soddisfacente. L’Unione aveva bisogno di un’evoluzione in senso costituzionale, anche senza la prospettiva di dover accogliere dieci nuovi membri. Con Venticinque membri, la struttura istituzionale dell’Unione è ancor meno adeguata a produrre tutti quei “beni pubblici” europei che sono oggi necessari e condivisi, a partire dalla difesa militare.
Vi è un ulteriore elemento importante che deve essere tenuto presente. La conclusione negativa di Bruxelles equivale a un fallimento della politica europea. Inevitabilmente, nell’equilibrio tra politica e burocrazia che da sempre ha caratterizzato le istituzioni europee, ciò significherà un aumento del peso della seconda rispetto alla prima. Un evento del tutto non desiderabile, perché gli aspetti negativi dell’Europa, a partire da un eccesso di regolamentazione e di armonizzazione, sono stati proprio la conseguenza della mancanza di chiare scelte politiche, alle quali la burocrazia ha dovuto sopperire secondo i propri strumenti e le proprie logiche.
Il percorso dell’unità europea non è stato mai lineare. Si compone da sempre di successi e di insuccessi. Se i primi hanno fatto aggio sui secondi, è perché nessun insuccesso è mai stato veramente e completamente tale, ma è stato la premessa di un risultato positivo futuro. Bruxelles è stato un insuccesso, ma non si devono trarne conclusioni eccessivamente negative per il futuro dell’Unione. Ciò che sarà necessario evitare saranno le rigidità, del tutto incomprensibili, che troppo spazio hanno avuto all’interno della Convenzione. Come sempre nella storia dell’unità europea, basta un poco di buona volontà in più per volgere i problemi in soluzioni.

   
   
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