Giugno 2004

Venticinque, e oltre

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Quali confini
per quale Europa
Aldo Bello  
 
 

Oggi i Venticinque possono servire come modello
di ricostruzione di nazioni minacciate dall’arretratezza,
dall’anarchia
istituzionale, dai conflitti etnici
e religiosi e dal
terrorismo.

 

Quella che nel 1951 creò la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, è ormai un’Europa preistorica. Ma è proprio da quella che si deve partire per capire che Europa è, oggi, quella dei Venticinque, e che fra alcuni anni potrà essere dei Ventotto, e magari dei Trenta.
Si era venuti fuori dal secondo sterminio mondiale, e raso al suolo, dissanguato, affamato, il Vecchio Continente chiese e ottenne dall’America prestiti a lungo termine e farina, navi mercantili e latte in polvere, carne congelata e sulfamidici, cardati di lana e zucchero. Il presidente del Consiglio italiano che si recò negli Stati Uniti per ottenere gli aiuti dell’Unrra, sapendosi «ritenuto da tutti un nemico», Alcide De Gasperi, indossava un cappotto rivoltato, che oggi sarebbe gettato alle ortiche anche dal più scalcinato dei disoccupati cronici. Ma rappresentava emblematicamente l’Italia dell’epoca.
Ebbe disco verde. In cambio, dovette promettere l’impegno in un’opera di riconciliazione volta a cancellare il secolare muro di odio che aveva separato in particolare la Germania e la Francia, determinando la “lunga guerra civile” che aveva trascinato nell’abisso l’Europa. Era la premessa decisiva per la nascita della Comunità europea: un’Europa con un “destino introspettivo”, concentrato nella ricostruzione della democrazia nella pace e nella libertà.
Poco più di mezzo secolo dopo, i Sei sono più che quadruplicati e l’Unione è votata a un destino più vasto, determinato dalla fine della Guerra Fredda, dalla globalizzazione dell’economia, da un diverso rapporto con l’America. I vecchi, grandi valori sono sempre validi, l’eredità dell’antica cultura è ancora essenziale, ma ora l’Europa ha la forza numerica e la statura per diventare un continente strategico, direttamente partecipe degli avvenimenti del pianeta e responsabile dei loro esiti. Cinquant’anni fa i Sei servirono come modello di riavvicinamento e di pacificazione di Stati che la storia e la cultura avevano diviso e contrapposto. Oggi i Venticinque possono servire come modello di ricostruzione di nazioni minacciate dall’arretratezza economica, dall’anarchia istituzionale, dai conflitti etnici e religiosi, dal terrorismo, dalla corruzione delle classi dirigenti. Soltanto un’Europa siffatta, con l’esempio e con le armi della dialettica politica, può esportare democrazia.

Ma soggetto mondiale ancora quest’Europa non è. Ha nuove dimensioni, prevede nuovi compiti, deve darsi nuove regole istituzionali, deve crearsi una moderna cultura politica, deve attrezzarsi con maggiori mezzi finanziari, per essere al passo con i tempi attuali e con più complesse esigenze. E’ di fronte a un campo di lavoro sterminato, e questo genera apprensione e persino paura. Perciò c’è in giro molto scetticismo, e l’alibi è dato dal rincorrersi e sovrapporsi di analisi sui vantaggi e sugli svantaggi esclusivamente economici dell’allargamento. Intanto, al di là dell’Atlantico cresce la diffidenza. Ha scritto la rivista americana Newsweek: l’ampliamento metterà fine al progetto di un’Europa politica. La fine di un’Europa politica fa parte del Sogno Americano. Perché gli Stati Uniti sanno che un’Europa del genere prima o poi si dovrà guardare intorno, e dovrà guardare in grande, occupandosi direttamente di quel che accade sulla soglia di casa, in un immediato retroterra che dopo l’ingresso dei Dieci è in bilico o è in subbuglio. Ad Oriente l’Unione confina con Stati in recupero, come la Romania e la Bulgaria, e con Stati pericolanti, come l’Ucraina e la Bielorussia, e con una Russia che è nello stesso tempo una potenza militare e uno Stato debole, con in più la spina cecena nel fianco. A Sud-Est confina con la Turchia, che è considerata “parte dell’Europa” fin dal 1963. Attraverso Cipro e Malta è contigua al Mediterraneo e al Vicino Oriente.
Di questi retroterra ci occupavamo anche prima, ma eravamo un’Europa sotto pressione per la Guerra Fredda, con tutela difensiva americana. Allora ci federava anche la paura di uno scontro mortale Est-Ovest. Una paura che ora non esiste più. Dunque: non è finito il sogno di un’Europa politica, è finita una strategia americana. Sta a noi soltanto, in questi giorni, saperci trasformare nel soggetto politico globale che ancora non siamo, e che dovremo diventare per necessità e per opportunità.
Unificarsi politicamente e contare nel mondo vuol dire innanzitutto riflettere su quali debbano essere, e di che natura, i confini continentali. Conosciamo le condizioni imprescindibili per far parte dell’Unione: Stato di diritto, economia di mercato, appartenenza alla storia europea. Altrettanto indispensabile è la rinuncia a crescenti quote della propria sovranità da parte dei singoli Stati: adesso, nel commercio e nella moneta; nell’immediato futuro, nella politica estera e in quella della difesa. Si tratta di rinunce da regolare con la Costituzione, che fisserà le sovranità della federazione, delle nazioni e delle regioni. Una Costituzione non immobile, tolemaica, perché altre cessioni di sovranità si imporranno in avvenire.
Dunque: quelli del Continente Europeo sono confini costituzionali, oltre che «frontiere che s’incarnano in valori condivisi»; sono confini disegnati innanzitutto da regole di decisione efficaci e potenti, senza diritti di veto, perché l’assenza delle regole e l’eccessivo uso del veto hanno paralizzato i Quindici, così come potranno paralizzare i Venticinque. Entrare in quest'Europa vuol dire accettare che questo confine tracciato dalle regole si rafforzi di anno in anno e somatizzare di buon animo i limiti posti agli Stati-nazione.
Gli scenari futuribili sono chiari, anche se di almeno medio periodo. Per quanto tempo ancora la sterlina potrà resistere all’ingresso nella moneta unica? E per quanto tempo la Norvegia potrà restar fuori, sconsideratamente solitaria, dall’Unione? Per parlare meglio all’Est, è fuor di dubbio che sarà necessario includere Sofia e Bucarest nel concerto continentale. Per parlare più direttamente con il mondo musulmano l’Europa ha bisogno della Turchia, che con la Tracia ha da secoli un piede nel Vecchio Continente, al quale ha guardato dalla rivoluzione kemalista in poi.
Oltre, non è lecito andare. E sarebbe innaturale andare, se non si vuole realizzare solo e semplicemente una vasta area di libero scambio, (che comunque può nascere con forme di partenariato al modo di quelle già esistenti con altri Paesi del bacino mediterraneo), lasciando tramontare il sogno per cui nacque, a metà del terribile secolo breve, l’aureo conio dell’Europa dei Sei.

   
   
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