Marzo 2004

“SACROSANCTUM CONCILIUM”: NOTE SUL RINNOVAMENTO LITURGICO

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Reformata reformare?
Giuseppe Tondi
 
 

 

 

La Messa
veniva celebrata con il sacerdote
e i fedeli rivolti verso Oriente
e così è stato
per lunghi secoli fino alla riforma
liturgica: l’Oriente
simboleggia infatti
il luogo dal quale
il Signore
ritornerà.

 

A quarant’anni dall’approvazione della costituzione “Sacrosanctum Concilium” sono state numerose le rievocazioni e le riflessioni su quel documento, che ha segnato l’inizio della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II.
Com’è noto, il rinnovamento liturgico costituì uno degli impegni preminenti della Chiesa cattolica negli anni del dopo-Concilio, in quanto, per dirla proprio con la “Sacrosanctum Concilium” (SC), «anche se la liturgia non esaurisce la totalità dell’agire ecclesiale» (SC n. 9), «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza» (SC n. 10).
Già dai brani riportati si coglie l’importanza che la liturgia ha per la vita stessa della Chiesa. Non a caso, il n. 14 della costituzione sottolinea come sia necessario che tutti i fedeli vengano formati «a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche che è richiesta dalla natura stessa della liturgia».
Sul quaderno n. 3684, 20 dicembre 2003, de La Civiltà Cattolica, padre Cesare Giraudo S.I., in un articolo commemorativo dell’anniversario della “Sacrosanctum Concilium”, richiama alla memoria nella prima parte del suo scritto il vecchio rito preconciliare, perché «tale evocazione consentirà, per contrasto, di porre in evidenza i tratti salienti della riforma liturgica». E così prosegue: «Immaginiamo di entrare, durante la celebrazione della messa, in una chiesa […], poniamo, a metà degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta. La fisionomia celebrativa di questi decenni è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell’intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata “balaustra”, nell’area che chiamano “presbiterio”, durante i riti i laici non possono andare […]. I fedeli risultano rigorosamente divisi in gruppi, per età e per sesso. […] Tutti restano quasi sempre in ginocchio; si siedono soltanto per ascoltare la predica. Pure la comunione, distribuita alla balaustra […], è ricevuta in ginocchio. […] II sacerdote, davanti all’altare, volgendo le spalle ai fedeli, “dice” messa, in latino […]. Non è necessario diffondersi in ulteriori dettagli. Quelli che abbiamo evocato bastano per farci un’idea abbastanza precisa di come i sacerdoti “dicevano” messa e di come i fedeli “ascoltavano” la messa. Si tratta di espressioni assai comuni, tuttora attestate nel linguaggio parlato […]».
Prendendo spunto dalla “evocazione” fatta dal padre gesuita sulla liturgia pre-conciliare, vorrei svolgere qualche considerazione sui tratti essenziali della riforma, almeno quelli immediatamente evidenti agli occhi di quanti si recarono in chiesa il 30 novembre 1969, prima domenica di Avvento, per partecipare alla nuova messa:

a) uso della lingua volgare, in luogo del latino;
b) diverso orientamento del sacerdote e dell’altare;
c) eliminazione, laddove possibile, di balaustre e di quanto altro potesse assumere il significato di separazione fra spazio riservato al sacerdote (presbiterio) e spazio riservato ai fedeli (navata).

a) Introduzione della lingua parlata

Spinto dalle sollecitazioni di padre Giraudo, vado indietro nel tempo (fine anni Cinquanta / primi Sessanta), per riconsiderare quanto ebbi a vivere in quel periodo, quando, da studente, frequentavo a Lecce il Collegio Argento.

L’istituto è retto dai padri gesuiti. Torno con la memoria alla mia III elementare, insegnante la signorina Rosa de Secly.
In quell’anno mi preparavo, assieme ai compagni di classe, a ricevere per la prima volta Gesù. Affiora ancora l’emozione con cui ci apprestavamo a incontrarLo, finalmente!, dopo averne sentito parlare dai preti e aver “studiato” il catechismo di San Pio X – Dio, Gesù, lo Spirito Santo; chi è il cristiano, quello che egli deve credere (Credo), sperare e chiedere (Padre nostro), fare o non fare (Comandamenti), i mezzi per salvarsi (Sacramenti) – e alcuni rudimenti di storia sacra.
Arriva il grande giorno. Dieci minuti-un quarto d’ora prima dell’inizio della messa siamo già tutti in chiesa ai nostri posti. Ciascuno di noi in silenzio recita le orazioni che precedono il rito. Il sacerdote sta facendo altrettanto in sacrestia.
Comincia la messa, ovviamente in latino..., ma siamo “preparati”. Abbiamo ricevuto un messalino nuovo di zecca. Ogni facciata è divisa in due parti: una con il testo della messa in latino, l’altra in italiano. Sul rito e la sua struttura siamo stati adeguatamente istruiti, specialmente sulla parte centrale, quando sull’altare, grazie al sacerdote (che agisce “in persona Christi” – “alter Christus”), si rinnova (ancora una volta) l’unico e grande Sacrificio... la Parola diventa Carne... “il cibo di cui si nutre il cristiano”.
L’altare non lo si chiama ancora mensa; il termine “banchetto”, se usato, è seguito dall’aggettivo “sacrificale”; l’altare non è il luogo del convivio, ma del sacrificio incruento, memoriale di quello cruento di Gesù sulla croce; del Figlio che si offre liberamente al Padre per liberarci, con la Sua morte e risurrezione, dalla schiavitù del peccato e ridarci la dignità di figli di Dio.
Ci inginocchiamo spesso durante la liturgia, è vero, specie alla balaustra per ricevere (“con timore e tremore”) Gesù, ma quella posizione del corpo non la sentiamo né come limite né come “deminutio”.
Come stare, d’altronde, dinanzi a Colui che è tutto? Nella vita di ogni giorno tanti si prostrano dinanzi a re, presidenti e altre autorità terrene, perché non dovremmo farlo noi cristiani dinanzi a Colui che fece tutto dal nulla; a Colui che tutto può; a Colui che ci ha donato Suo figlio per salvarci? Come esprimere con il corpo, se non in ginocchio, l’atteggiamento di chi interiormente sta adorando stupefatto la Maestà divina; di chi ha la consapevolezza di essere creatura dinanzi al creatore; di chi affida le proprie miserie nelle mani misericordiose di Dio?
Come si vede, era possibile anche ad un ragazzino di 8-9 anni “sentire” e “capire” (per quanto possibile alla sua età) ciò che il prete “diceva” in latino e quanto il popolo “rispondeva”, sempre in latino.

Questo è il mio ricordo della messa preconciliare. Senza voler assolutizzare e generalizzare un’esperienza personale, mi pare che «l’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma inesorabilmente carica di mistero per i più» (Giraudo) non costituisse, almeno in quegli anni, un limite insormontabile. Basti pensare ai numerosi programmi di alfabetizzazione di massa che molti Stati avevano avviato proprio in quel periodo.
Ma se il latino era un limite (già superabile, almeno in parte, con il messalino e gli altri libretti bilingue), era un limite che, in un certo senso, nemmeno gli stessi padri conciliari avevano mai pensato di “eliminare” del tutto: «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa sia nell’amministrazione dei Sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua volgare può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti» (Sacrosanctum Concilium n. 36). La questione della lingua liturgica ritorna al n. 54 della costituzione, che recita: «Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nell’orazione comune […]. Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi».
Come e perché poi, in nome del Concilio e in attuazione del Concilio, si sia andati oltre lo stesso dettato conciliare, questo non lo so. Ma come cattolico del terzo millennio avverto che il problema non è costituito (tanto) dal cambiamento di lingua, ma (soprattutto) dal cambiamento di prospettiva liturgica, come si vedrà più avanti.

b) L’orientamento dell’altare e del celebrante

Dopo aver fatto presente nella seconda parte dell’articolo ciò che ha significato e significa per la Chiesa di oggi la costituzione “Sacrosanctum Concilium” e la riforma liturgica che ne seguì, padre Giraudo constata, nell’ultima parte, intitolata “A quarant’anni dalla ‘Sacrosanctum Concilium’: il punto sulla situazione”, che «qualcosa non ha funzionato» e richiama l’enciclica Ecclesia de Eucharistia in cui il Santo Padre «segnala l’esistenza di “ombre” e perfino di “abusi”». Giraudo precisa, subito dopo, che si tratta di «sbavature che hanno offuscato e purtroppo continuano ad offuscare la liturgia».
Pur non volendomi addentrare nella differenza qualitativa fra le parole “abuso” (utilizzata dal Papa) e “sbavatura” (usata dal gesuita), credo che una “sbavatura” sia molto meno di un “abuso” e che l’abuso di per sé, anche in campo liturgico, può sfociare in un atto invalido o in un errore dottrinale, come d’altronde precisa lo stesso Pontefice (che l’Autore richiama in nota): «Si aggiungono, nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale, abusi che contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento» (“Ecclesia De Eucharistia”, n.10).
Dinanzi al lungo elenco di “sbavature”, steso da Padre Giraudo, ma altre se ne potrebbero aggiungere, qualcuno potrebbe essere indotto a fare, più o meno, questo ragionamento: la riforma liturgica era non solo opportuna, ma anche indispensabile. Se oggi, a quarant’anni dalla Sacrosanctum Concilium, constatiamo che vi sono, assieme alle “luci”, anche “sbavature” (per dirla con Giraudo) o “abusi” (secondo il Papa)… pazienza, è lo “scotto” che bisogna pagare! D’altronde, prima della riforma le cose andavano comunque male (in quanto la gente entrava nelle chiese per “sentire” una messa che non capiva, perché “detta” in latino da un prete che voltava le spalle al popolo, in una struttura in cui c’era uno spazio, delimitato dalla balaustra, inaccessibile ai fedeli).
Un ragionamento del genere sarebbe, perlomeno, “scorretto”. Non sarebbe corretto, infatti, tentare di salvare la mediocrità del presente (se di questo si tratta), “oscurando” un passato, che va, invece, inquadrato nella giusta luce, non per riproporlo meccanicamente, ma per meglio conoscerlo e, così facendo, per cercare di trovare, partendo da esso, spunti utili per comprendere i problemi di oggi.
Investigare il passato con serenità e senza pregiudizi è quello che da alcuni anni stanno facendo studiosi e uomini di Chiesa. Uno per tutti, il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, che, con i suoi Introduzione allo spirito della liturgia (da cui sono tratte le citazioni che seguono) e Il Dio vicino, offre al lettore la possibilità di “riconsiderare” taluni “luoghi comuni”, che ad un esame più approfondito mostrano la loro inconsistenza.
E’ il caso, ad esempio, dell’orientamento del celebrante e dell’altare. Dopo aver ricordato che, partendo da una «presunta posizione del celebrante» sull’altare della Basilica di San Pietro, gli autori della riforma liturgica stabilirono che «l’Eucarestia deve essere celebrata versus populum (in direzione del popolo). L’altare [...] deve essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a vicenda», il cardinale contesta che questa norma corrisponda all’immagine dell’Ultima Cena: «In nessun pasto all’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, e distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma o di ferro di cavallo».
La Messa veniva, dunque, celebrata con il sacerdote e i fedeli rivolti verso Oriente e l’Est simboleggia il luogo dal quale ritornerà il Signore e così è stato per lunghi secoli fino alla riforma liturgica: «Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a Oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia». L’Oriente significava infatti l’annuncio del «ritorno del Signore».
«La conseguenza più visibile» della riforma post-conciliare è quella di «una nuova idea dell’essenza della liturgia come pasto comunitario». Nel vecchio rito tridentino, rimasto in vigore fino all’ultima riforma, la Messa era, invece, essenzialmente il riaccadere del sacrificio della Croce, non un “pasto” o un “convito” come nella tradizione protestante. Per Ratzinger, l’Eucarestia non può essere «descritta adeguatamente dai termini “pasto” e “convivio”».
Il cardinale continua poi a valutare il risultato della riforma liturgica: «Ora il sacerdote – o il “presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. E’ lui che bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione». «L’attenzione – commenta con amarezza il cardinale – è sempre meno rivolta a Dio [...]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso». 
Ma quella di Ratzinger non è una mera «nostalgia per il passato». Dopo aver chiarito che sarebbe «un errore rifiutare in blocco le nuove forme» della liturgia, il cardinale insiste nel dire che l’orientamento dell’altare, del sacerdote e dei fedeli verso Est, verso il Sole che sorge, «durante la preghiera eucaristica» non è «qualcosa di casuale» ma di «essenziale».
Rigirare, allora, gli altari verso Oriente? In linea di principio la cosa non dispiacerebbe al cardinale, anche se si rende conto che «niente è più dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra».

Forse una soluzione può essere costituita dal riposizionare al centro dell’altare almeno la Croce, perché essa sia «il punto in cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante». «Tra i fenomeni veramente assurdi degli ultimi decenni – conclude il prefetto – io annovero il fatto che la Croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la Croce, durante l’Eucarestia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile».

c) Eliminazione, laddove possibile, di balaustre e di quanto altro possa assumere il significato di separazione fra spazio riservato al sacerdote (presbiterio) e spazio riservato ai fedeli (navata)

Riprendiamo ora il pensiero di padre Giraudo, secondo cui: «La fisionomia celebrativa di questi decenni [preconciliari] è sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella dell’intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata “balaustra”, nell’area che chiamano “presbiterio”, durante i riti i laici non possono andare…».
Il richiamo all’«intero millennio» lascia intendere che in quello precedente (il primo), le “cose” stessero diversamente.
Infatti, per Giraudo basta considerare che «quei liturgisti e pastori illuminati che hanno dato vita al movimento liturgico del XX secolo [...] insoddisfatti degli usi ai quali ci si era affezionati, hanno scoperto che questi corrispondevano spesso alla prassi radicatasi nel secondo millennio, ma divergevano molte volte dalla Tradizione (con la “T” maiuscola) che, maggiormente modellata sull’insegnamento dei Padri della Chiesa, aveva governato le celebrazioni nel primo millennio. Allora le cose non andavano così. Allora i fedeli partecipavano attivamente alla messa. Allora “celebravano” la messa con il loro sacerdote: lui in forza del sacerdozio ordinato, essi in forza del comune sacerdozio battesimale».
In altre parole: secondo taluni, la liturgia preconciliare (e, sostanzialmente, medioevale) si era sovrapposta, stravolgendola, alla liturgia del primo millennio e in particolare a quella dei tempi apostolici. Ma è proprio così? Le tesi possono essere diverse, resta il fatto, però, che la divisione tra “presbiterio” e “navata” risale non al Medioevo, ma ai primi tempi della Chiesa, quando il senso di “spazio sacro” era molto più accentuato rispetto ad oggi.
Lo spazio riservato al rinnovamento del Sacrificio della Croce non poteva essere confuso con lo spazio rimanente. Anzi, tutto lo spazio occupato dalla chiesa aveva il suo punto focale nel presbiterio, o, per meglio dire, nell’altare.
Come si è visto, la chiesa era orientata in modo che il luogo della celebrazione liturgica fosse verso Oriente, avendo cura che lo spazio delimitato dalle mura avesse la forma della croce, o quasi. In tal modo, su questa croce disposta orizzontalmente, il presbiterio e in particolare l’altare si venivano a collocare all’incrocio dei bracci della croce.
Ancora più a Oriente vi era l’abside, mentre verso Occidente vi era la navata. I bracci Sud e Nord della croce erano posti all’altezza del presbiterio.
In tal modo l’altare corrispondeva al cuore del Crocefisso, l’abside alla testa del Crocefisso, la navata al corpo del Crocefisso, i bracci del transetto alle braccia del Crocefisso.
Seguendo questa distribuzione, il posto del successore degli Apostoli era nell’abside, in corrispondenza della testa; il posto dell’altare, e quindi del celebrante e dei ministri, era al centro del presbiterio, in corrispondenza del cuore; il posto dei fedeli era nella navata, in corrispondenza del corpo. 
Per di più, in questa navata, fin dai primi tempi della chiesa, vi erano due zone distinte: la parte centrale riservata agli uomini e le parti laterali riservate alle donne e perciò detti “matronei”.
L’abside, oltre a delle raffigurazioni relative a Cristo in gloria, giudicante o benedicente, aveva una precisa forma circolare e, in particolare, aveva delle finestre da cui entrava la luce del sole al suo nascere e si riversava sull’altare. In seguito, questa funzione venne svolta dalla cupola che, mantenendo sempre la forma circolare, veniva posta in corrispondenza del centro della croce, esattamente sopra l’altare.
Circa, invece, la supposta partecipazione piena dei fedeli alla liturgia, da Giraudo intesa come una “concelebrazione” («Allora “celebravano” la messa con il loro sacerdote»), si fa appello a San Giovanni Crisostomo per concludere che «Allora i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello che il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera eucaristica».

Sono un semplice fedele e non un liturgista, mi pare, però, che non sia possibile sostenere che «i fedeli, allora, capivano quello che il sacerdote diceva nella preghiera eucaristica», semmai si può dire che la conoscessero a memoria, ma certo non potevano neanche sentirla; e non perché il celebrante la recitasse a bassa voce (come nella liturgia preconciliare), ma perché la consacrazione avveniva lontano dagli occhi dei fedeli. Al momento della celebrazione dei Misteri il presbiterio veniva chiuso con una tenda e la consacrazione avveniva nel mistero, appunto.
Altro che balaustra che separa, la parte piú importante della Messa si svolgeva di nascosto, in perfetta coerenza con ciò che realmente accade: il Mistero si svolgeva nascostamente, misteriosamente. Ora, quest’uso era diffuso in tutta la Chiesa, d’Occidente e d’Oriente. In Occidente, l’uso della tenda che separava il presbiterio dalla navata andò perdendosi e venne sostituito da altre pratiche corrispondenti, come il silenzio assoluto che si doveva mantenere nel corso del Canone insieme alla postura dei fedeli, in ginocchio e col capo chino, mentre della tenda rimase solo un ricordo nella velatura del tabernacolo al centro dell’altare.In Oriente, invece, l’uso si è mantenuto fino ad oggi, anzi, una delle componenti essenziali della Chiesa orientale è proprio l’iconostasi, e cioè la separazione netta tra presbiterio e navata, realizzata addirittura con un’intera parete colma di icone, con ai lati due porticine che, al momento opportuno, vengono chiuse.

Concludendo: se non si può dire che prima del Vaticano II tutto fosse perfetto e dovesse rimanere immutato in campo liturgico, mi pare che sarebbe altrettanto errato tentare di “coprire” certe incongruenze di oggi, dipingendo a tinte fosche la vita liturgica preconciliare. Non va dimenticato, infatti, che da quella Chiesa e con quella liturgia sono scaturiti tante vocazioni, tanti martiri, tanti santi.
Questo è quello che anche il Padre Giraudo credo voglia dire quando scrive: «E’ comunque doveroso riconoscere che allora i sacerdoti “dicevano” messa con grande devozione e i cristiani “ascoltavano” la messa con sincera pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce affatto l’ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere verso quanti ci hanno trasmesso la fede».
Nel chiedere anticipatamente scusa al padre Giraudo per eventuali inesattezze in cui posso essere incorso, mi piace, da impertinente ex alunno dell’Argento, dissentire garbatamente da lui: piuttosto che “abbozzare un sorriso” verso quanti si nutrirono della liturgia preconciliare, voglio aumentare il senso di gratitudine e di ammirazione nei confronti di chi, per dirla con San Paolo, ci ha trasmesso (fedelmente) ciò che ha ricevuto.

   
   
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