Marzo 2004

UNA POLEMICA D’ALTRI TEMPI

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Fil-dis-armonici
Sergio Bello
 
 

 

 

C’era chi difendeva le ragioni dell’arte dei suoni e chi
si rifugiava nella
distinzione tra la “nobiltà” della
musica teorica
e la “viltà” della musica pratica.

 

Poco più di due secoli fa (nel 1785, per l’esattezza), il mondo intellettuale partenopeo fu messo a soqquadro da una vivacissima polemica che si tradusse in un fitto scambio di pamphlet dai titoli insoliti e bizzarri.
A dare avvio alla polemica fu una causa legale intentata da un poco noto compositore napoletano e discussa nelle aule di giustizia della capitale del Sud: dal contrasto forense (a dir la verità non eccessivamente significativo, e per certi versi addirittura banale) scaturì tuttavia un ampio dibattito che giunse a toccare le spinose questioni della collocazione socio-professionale dei musicisti e dello stesso statuto della musica.
Un saggio di Rosa Cafiero, apparso negli atti del convegno “Civiltà musicale calabrese nel Settecento”, (Lamezia Terme, 1994), aveva già contribuito a richiamare alla memoria e all’attenzione degli specialisti questo interessante episodio, noto da tempo, ma mai sistematicamente studiato, provvedendo all’esatta identificazione del “maestro di cappella” che aveva scatenato involontariamente la polemica, e scovando gli autori celati dietro l’anonimato o la pseudonimia di alcuni dei libelli. Ora, un altro studio, di Andrea Luppi, torna brillantemente sullo stesso argomento, per fornire sia una dettagliata ricostruzione dell’intera vicenda sia una cospicua antologia di brani estratti dagli otto pamphlet che ne tramandano il ricordo. Questo saggio, infatti, è diviso in due parti: la prima, “Filarmonici e disarmonici”, analizza antefatti e fatti verificatisi all’epoca; la seconda, “I testi”, sceglie fior da fiore i brani più significativi degli autori che intervennero nella querelle su fronti opposti.

Le motivazioni intorno alle quali si era accesa la gran tempesta polemica si può riassumere in poche parole: nel 1784 il maestro Cordella si era rivolto al tribunale ordinario, allo scopo di ottenere un supplemento di compenso per la prestazione fornita al priore di una congregazione cittadina, ma il giudice preposto al processo aveva respinto la sua richiesta, dal momento che era stata avanzata oltre i termini di tempo consentiti. Il casus belli era determinato dal fatto che gli ordinamenti vigenti prevedevano tempi diversi per il passaggio in prescrizione a seconda della categoria professionale del richiedente; e la sentenza del magistrato aveva assimilato implicitamente Cordella alla classe dei semplici artigiani.
Ad assumere la difesa del musicista in occasione del ricorso in appello fu Saverio Mattei, interessante figura della cultura musicale napoletana della seconda metà del Settecento, il quale mise a frutto tutte le sue vaste conoscenze classiche e veterotestamentarie per sostenere l’altissima funzione educatrice e civilizzatrice della musica e il suo inalienabile diritto di cittadinanza tra le arti liberali. Utilizzando argomentazioni enfatiche, il difensore elevò vibrate proteste contro il verdetto sfavorevole inflitto al Cordella in primo grado, verdetto che, secondo la versione proposta dal forbitissimo difensore, offendeva e mortificava l’intera categoria dei musicisti, alla quale andavano invece riconosciuti un’elevata caratura e un altrettanto alto livello professionale.

Attratti da tanta profusione di dottrina, ma anche di retorica, scesero in campo uomini di legge e di cultura (Francesco Pepe, Giuseppe Maria Carobelli, Luigi Serio, Ferdinando Galiani, Felice Parrilli, Michelangelo Grisolia, Francesco Pellegrini Barone), i quali intrecciarono un serrato dialogo costantemente sospeso tra il serio e il faceto, nel quale la riflessione giuridica si alternava all’ironia, e spesso anche al sarcasmo, senza che questo escludesse l’esibizione di una specifica erudizione. Così, com’è stato notato con sorridente spirito critico, la controversia legale, dalla quale pure tutti prendevano le mosse, passava di frequente in secondo piano, e c’era chi difendeva le ragioni dell’arte dei suoni senza tuttavia ritenere fondate le richieste avanzate dal Cordella, e chi si rifugiava nella distinzione tra la “nobiltà” della musica teorica e la “viltà” della musica pratica; chi si aggirava trasognato nelle remote regioni del mito in compagnia di Orfeo e di Anfione, e chi guardava con occhio disincantato alla realtà contemporanea delle professioni; chi denunciava l’altrui ipocrisia, e chi tentava un’ecumenica mediazione; chi dava sfogo ad antichi rancori personali, e chi preferiva lo svolazzo dichiaratamente beffardo; chi si irrigidiva su posizioni moralistiche, e chi escogitava la scappatoia di un tertium genus hominum nel quale relegare i musicisti come in una sorta di limbo rassicurante.
Il saggio rappresenta una guida perfetta per attraversare i meandri della polemica, consentendo di attingere in presa diretta alle fonti scorrendo i brani selezionati. Fra i vari passi prescelti, gustosissimo il “Guazzabuglio filosarmonico” di Ferdinando Galiani, splendido esempio di quell’umorismo che tanto fece prima amare e poi rimpiangere il petit abbé nei salotti parigini.
E comunque è possibile fare qualche riflessione sulla polemica partenopea, che alla fine si impantanò e si esaurì senza approdare ad una soluzione univoca, ma che proprio nel suo girare a vuoto fece emergere con immediatezza e prepotenza alcuni problemi scottanti. Spogliati dagli eccessi eruditi, dai cavilli legali e dai divertenti dileggi, gli otto opuscoli del 1785 restituiscono il senso del disagio, (condiviso dalla maggior parte degli esponenti della cultura italiana dell’epoca), di fronte alla necessità di ripensare l’importanza e il ruolo della musica e dei musicisti, la prima acerbamente protesa verso il riconoscimento di una piena dignità estetica, i secondi ancora poco consapevoli e spesso noncuranti della propria condizione professionale.
Il problema fondamentale era che gli autori impegnati nella querelle utilizzavano strumenti concettuali impropri, arrugginiti, finendo per arrampicarsi su specchi, quasi tutti opachi, di superate tassonomie, incapaci di regimentare la sempre più veloce evoluzione del loro stesso presente. Come è stato sottolineato, il ricorso agli exempla della potenza della musica presso gli antichi e alle astrazioni della retorica altro non erano se non il segno palese, tattile quasi, della mancanza di categorizzazioni adeguate alla realtà contemporanea, cui gli stessi ordinamenti giuridici facevano fatica a star dietro. Sotto altri cieli e sull’onda di altre sollecitazioni intellettuali, la musica verrà di lì a poco celebrata come espressione sublime dello spirito umano.

Nella capitale del Mezzogiorno, nell’anno di grazia 1785, una cultura più legata alla tradizione e all’erudizione che non incline e propensa allo slancio fantastico riusciva a denunciare il problema, ma subito dopo si arenava tra le secche del quesito «se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani». E un (ilare?) magistrato li annovera indiscriminatamente fra gli uomini di braccio e di fisica fatica, falegnami, scalpellini, fabbri ferrai, carradori, sartori, calzonai, maestri muratori, e quant’altro annoverabile fra questa complessiva e pur meritoria categoria di lavoratori. Infinita scaturigine delle risorse immaginifiche partenopee: forse culla del diritto, probabilmente tomba della giustizia!

   
   
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