Marzo 2004

LA VITICOLTURA TRA LEGGENDA E STORIA

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Oro rosso di Puglia
Tonino Caputo - Ada Provenzano - Cesare Carabellese
 
 

 

 

Dalla foresta
garganica fino al faro di Santa Maria di Leuca e alle estreme scogliere,
i vigneti proiettano
i crepuscoli delle leggende e le più
sicure ombre
della storia di una Terra illuminata
dai riverberi
dell’Oriente.

 

Tre Puglie, per la Puglia maggiore, l’augustea “Regio secunda”, dopo quella laziale, ben più vasta della regione disegnata per fini amministrativi dalla burocrazia savoiarda. L’antica Puglia raggiungeva in Molise un confine sul fiume Tiferno; esondava in Basilicata fin sotto i contrafforti di Matera; si allargava in Campania verso il territorio telesino; con città che ancora oggi si chiamano San Giuliano di Puglia (in Molise), o Puglisi, Pugliano, Puglianello (in Campania). Tre puglie, più l’anfiteatro tarantino, per la precisione. Con una civiltà agricola che preesisteva alle migrazioni greche, dunque con un’identità che, a dare ascolto almeno alla leggenda, fu abbastanza uniforme nel popolo che sarebbe stato inizialmente e diffusamente “Iapigio”. E che solo in seguito avrebbe dato luogo alle tre “patrie”, più una: vale a dire alla Daunia, alla Peucezia, alla Messapia, e alla laconia Taras.

Precedente rispetto alla colonizzazione greca l’agricoltura, fiorente la viticoltura. Si riteneva che fossero stati i Greci a trasferire in territorio pugliese le viti, tra il VII e il VI secolo a.C. Ma un giorno venne alla luce un vaso votivo, che conteneva semi di uva non ancora adatta alla vinificazione, e il carbonio 14 stabilì che risalivano al secondo millennio a.C.: la storia della coltivazione della vite apula precipitò indietro di un millennio e mezzo circa, stravolgendo tutti gli studi in materia. Con ogni probabilità, i colonizzatori greci avevano portato nella regione solo nuove tecniche di coltivazione e di vinificazione, non i tralci di vigne di uve nere, del tutto autoctone. E tuttavia, è sempre dalla leggenda che dobbiamo partire, per dare un nome alle differenti patrie e alle diverse vigne che le hanno storicamente caratterizzate nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Infatti, com’è stato notato, nella Puglia troviamo una distribuzione genetica del materiale viticolo che corrisponde strettamente agli insediamenti delle antiche civiltà locali (ne parlò Polibio, riecheggiando autori di rilievo, da Erodoto a Tucidide). Sta di fatto che nel VI secolo le aree erano già ben definite: la Iapigia o Messapia includeva la penisola salentina, fino alla linea ideale di confine Brindisi-Taranto e, ad ovest, fino al corso del Bradano; la Peucezia si estendeva da qui fino al corso dell’Ofanto; la Daunia copriva il resto del territorio, fino al limite della terra dei Liburni, a nord, e degli osco-sanniti a Occidente.
In Messapia si erano fermati almeno dal XIV secolo a.C. i Cretesi che, di ritorno dalla spedizione in Sicilia, furono sorpresi da una tempesta presso Leuca. Anche Virgilio ricorda che «nei Salentini / i suoi Cretesi Idomeneo condusse». E su questa presenza i Greci hanno alimentato un flusso di storie e leggende, anche contraddittorie, ma tutte riferite a ondate di migrazioni guidate da re (Italo, Morgete, Ausono) ai quali vennero attribuite costruzioni di città: Hyria, forse da identificare con la Veretum di età romana; Hydruntum; e, ad opera di un gruppo originario di Cnosso, la stessa Brindisi. In ogni caso, la Messapia sembra essere stata l’area che più ha beneficiato degli apporti della cultura greca.
Tra le numerose fonti che parlano della Peucezia, una narra dei figli di Licaone – Enotro e Peuceio – che avrebbero dato origine al popolo che occupava le terre tra il confine Brindisi-Taranto e il corso dell’Ofanto, con alcuni epicentri molto attivi: Monte Sannace, Ruvo, Conversano, Noicattaro, Rutigliano..., centri indigeni che nel VII, ma soprattutto nel VI secolo a.C., registrarono una forte presenza di Corinti e di Cnidi, popoli costantemente interessati ai traffici nell’Adriatico, fra le sponde di Puglia e d'Illiria.

Oltre l'Ofanto, la Daunia, terra di approdo di tutto ciò che spirava da Oriente. La civiltà micenea, innanzitutto. Con la tradizione omerica. Vuole la leggenda che Diomede, di ritorno dalla guerra troiana, ritrovando in Argo una moglie infedele e un palazzo in rivolta, avesse richiamato i compagni e avesse ripreso il mare, diretto a Occidente. Ma, giunto all’altezza di Leuca, colto da una tempesta, fu costretto a risalire l’Adriatico. Dopo tre giorni di inenarrabili pericoli, adirato, oltre che con gli uomini, anche con gli dei, scagliò contro il mare un pugno di sassi. Mosso a pietà, Nettuno li trasformò in isole, le Diomedee, appunto, poi chiamate Tremiti. Da numerose spedizioni nell’area garganica, nacquero Argyrippa-Arpi, Canosa, Siponto. E qui l’eroe greco venne ucciso dal re Dauno. La sua anima, dice ancora la leggenda, fu trasformata in un uccello, la berta maggiore (e in berte minori le anime dei suoi compagni): alati lamentosi, a ricordare la sfortuna che tutti incalzò finché furono in vita.

L'epos omerico ha una sua ragion d’essere. Qui, fra intere e in frammenti, sono state raccolte un migliaio di stele incise, con tracce di colori, grazie alle quali oggi possiamo sapere che foggia avessero i vestimenti, le armi, i gioielli persino, dell’età troiana, documenti unici al mondo, felicemente raccolti nel museo sipontino.
E sempre qui sopravvisse il culto di Calcante, mitica figura proveniente dall’Asia Minore, mago, guaritore, aruspice, ritenuto un dio; e ancora qui ritroviamo (sulle rive dell’Ofanto) Cassandra, non più indovina non creduta, ma al contrario, ritenuta profetessa veritiera e saggia semidea. C’è il segno e il senso del passaggio di una moderna civiltà dall’Oriente verso l’Occidente, in tutto questo fiorire di ampie leggende? Fu il Gargano il punto d’incontro e, simultaneamente, di irradiazione? Sta di fatto che Gargan significava roccia; che qui si adorava un dio Gargan; che un altro dio Gargan si adorava nell’area nord della Bretagna, ove le rocce scendevano a picco sul mare, con promontori dorati e spuntoni rosa: e resta un mistero, questo straordinario collegamento tra due regioni separate da migliaia di chilometri, in un continente ancora coperto da foreste vergini, e forse in qualche modo comunicante per viaggi avventurosi, al modo di quello dell’affascinante uomo di Similaun.
«Là dove il toro s’inginocchia»: e il toro si inginocchiò, sempre sulla pelle della roccia garganica, a Monte Sant’Angelo, dove il vescovo Maiorano volle trasformare una gran caverna in uno dei più celebri santuari dell’universo cristiano, dedicandolo a quel Michele (che significa: chi più forte di lui?) che capeggiò le schiere di angeli che combatterono Satana e i suoi ribelli. Passaggio, anche in questo caso, dell’idea cristiana verso l’Europa, o terra del tramonto? E allora, le tre Puglie fissano nella storia ciò che veniva prima da tutto quello che è accaduto dopo? Sono state il lievito della moderna civiltà italiota e italica?

Dicevamo delle vigne di uve nere, oro delle Puglie e della loro lunga, ininterrotta civiltà neolitica. Partiamo dalla natura geopedologica dei terreni: profondi, ricchi di corsi d’acqua, a volte paludosi, quelli dauni, con andamenti ondulari, gibbosi, inadatti all’abitazione, caratterizzati dalle transumanze su piste tufacee; murgiosi, più aspri, con stratificazioni calcaree cristalline, selvosi e aridi, quelli peuceti, così in confidenza con la pietra da esprimere la “civiltà delle specchie”, poi evoluta nelle case a tholos, i trulli, e infine nelle cattedrali e nei castelli; ingrati quelli messapici, di scarso manto poggiato sui tufi poi utilizzati con straordinarie intuizioni artistiche, sconosciute alle altre due Puglie, e incentrate sul capriccio estetico del barocco; e quella «Puglia a parte» che fu Taranto, di non grande influenza sul resto del territorio regionale: potenza a sé, come del resto richiedeva la posizione geografica, insieme con le difese naturali (le acque paludose del Tara e della Stornara) e con la presenza preziosa dell’acqua (il Galeso, il fiume “albus” per Marziale, “niger” per Virgilio, “umbrosus” per Properzio).
Fondamentali, tre Puglie. Con tre differenti individualità viticole: a nord, in Daunia, l’ “Uva di Troia”, ampiamente diffusa, fino a raggiungere quasi lo stesso territorio barese; al centro, in Peucezia, il “Primitivo”, allargato con colture fino alle terre settentrionali brindisine e tarantine; a sud, in Messapia, il “Negroamaro”: tre tipi di vigne di uve nere che coincidono quasi perfettamente con le tre aree storiche della regione pugliese; tre tipi di colture che sembrano affondare le radici nella protostoria, oltre che nella pura leggenda. Con alcune enclaves riconoscibili: San Severo, con influenze picene e con i vitigni neri Montepulciano e Sangiovese, e bianchi Trebbiano, estesi fino a Rutigliano e Ostuni e punte estreme a Martina Franca e Locorotondo; e Gravina, con influenze sabellico-sannitiche, forse di derivazione etrusca, ma più probabilmente di derivazione messapica, per uno straordinario fenomeno che è registrato in Salento, e che interessò immediatamente anche il territorio di Egnazia. Parliamo del miracoloso vitigno “Bianco di Alessano”.

Tutte le colture viticole dell’Italia meridionale (Magna Grecia e Sicilia) riguardavano vigne di uve nere. Ed è stata a lungo diffusa l’opinione – come abbiamo detto – che fossero stati i colonizzatori greci a introdurle. Tant’è che, per il vino prodotto, si parlava di “ellenico”, poi corrotto in “aglianico”, denominazione infine data ad uno dei più nobili vini del Sud. Per incontrare vigne di uve bianche, era necessario trasferirsi in terre etrusche, o colonizzate dagli Etruschi, estese fino ai territori di Ferrara e di Ravenna. Si diceva, infatti, che dietro ogni grappolo di uva bianca baluginasse il sorriso arcano, enigmatico di un Etrusco.

Questo popolo, le cui origini sono misteriose quanto quelle dei Messapi, aveva esteso la propria influenza sempre più a sud, lungo la costa tirrenica, giungendo fino a Pitecusa (l’isola d’Ischia), e sbarcando poi sulla riva continentale, in terra salernitana, in direzione di Tufo e di Solopaca, portando con sé i tralci delle vigne di uve bianche, che avrebbero dato origine ai vini denominati Greco di Tufo.
Sul versante opposto, quello adriatico, porto etrusco per antonomasia era Ravenna (che già nel nome conteneva la doppia radice di “racemo” e di “Rhasenna”, nome con cui gli etruschi chiamavano se stessi), che probabilmente era collegato da commerci via mare con Egnazia.
Sui sistemi di commercio, i più attivi navigatori mediterranei avevano comportamenti diversi. I Fenici (e i Cartaginesi) erano soliti insediarsi su una piccola isola (a Mozia, ad esempio, di fronte alla Sicilia; o di fronte alla sarda Tharros; o di fronte a Marsiglia), e da lì muovevano con le loro merci e per i loro scambi. I Greci in genere creavano un “fondaco”: restavano a bordo delle navi, dopo aver lasciato le proprie merci su una breve striscia di terraferma; al sorgere del sole, gli abitanti del luogo osservavano i prodotti, decidendo se acquistarli con denaro o per baratto con altri prodotti, lasciati vicino al manufatto prescelto; la notte successiva i Greci sbarcavano e decidevano se accettare o meno le offerte degli indigeni: la storia si ripeteva fino a quando le trattative erano considerate concluse; se i locali facevano i furbi e si impossessavano delle merci, alle armi della dialettica seguiva la dialettica delle armi: i mercanti assalivano e depredavano a loro volta gli incauti abitanti locali. Infine, gli Etruschi: costoro creavano degli “emporia”, luoghi di attracco e di sbarco delle merci, in perfetto accordo con gli autoctoni. Allora: Egnazia era un emporium etrusco? Ed è da lì che sono state trasferite nell’area di Alessano le vigne di uve bianche? Oppure i tralci hanno seguito una strada diversa? Dal momento che in Messapia ci sono paesi dai nomi emblematici (Santa Maria al Bagno, dove probabilmente vigeva l’uso pastorale di bagnare le greggi in mare o tra le acque sorgive delle Quattro Colonne attuali, prima di iniziare la tosatura; Cenate, di radice greca, col significato di “pubblico”, forse luogo di raduno delle greggi; Merine, dove si separavano nel gregge le madri dai figli, le fattrici dalle giovani, le improduttive dalle produttive), c’è da chiedersi se qui non si trattava di punti di transito della “Via dei mercanti”, che univa, forse grazie a tratturi erbosi, l’antica civiltà appenninica con quella delle tre aree pugliesi, passando appunto per le enclaves di Gravina e di San Severo, da una parte, e delle aree sannitiche dall’altra. Se le vigne di uve bianche sono pervenute alle enclaves attraverso questo percorso, da Pitecusa ad Alessano e alle successive diramazioni, si è avuto uno sviluppo “discendente”; se, al contrario, giunte ad Alessano da Ravenna o da Egnazia, le viti di uve bianche sono poi risalite verso le stesse enclaves, lo sviluppo è definito “ascendente”. Quale dei due si sia affermato in epoca protostorica è difficile, se non impossibile dire. Anche perché, a complicare la vicenda, sono intervenute le scoperte archeologiche della prima metà del secolo scorso.

Nel 1930, il professor Antonio Santoro rese nota un’importante scoperta: in località “Chiazzodda”, al confine fra i territori di Gravina e di Altamura, lungo la strada per Corato, aveva riportato alla luce una necropoli arcaica a incinerazione. Fatto straordinario in sé, dal momento che la necropoli si trovava in piena area di inumazione. Per di più, si trattava di una conferma di quanto scoperto in un’altra area, quella di Timmari, nelle immediate vicinanze di Matera: anche qui, una necropoli arcaica a incinerazione. Il professor Orsi, paleontologo dell’Università di Genova, colpito da queste scoperte, invitò il professor Santoro a proseguire negli scavi. Ma quelli erano tempi in cui tutto doveva essere “romano”; intervenne il Soprintendente, che troncò ogni iniziativa. Le necropoli furono risotterrate, e la storia dell’uso etrusco dell’incinerazione in Puglia finì lì. Le domande (comunità villanoviane d’Etruria attive nella Regio secunda? Venute da Pitecusa o da Ravenna-Egnazia? Ascendenti o discendenti? E i vitigni erano collegati con la cultura villanoviana dell’incinerazione, e ne avevano seguito gli spostamenti da nord a sud, o da ovest ad est?) rimasero ancora una volta senza risposta.

L'aspetto più esaltante di tutta la vicenda consiste nel fatto che, a così grande distanza di tempo, ancora oggi è manifesta la differenza fra le diverse Puglie, il nord con i suoi Micenei, il centro con i Peuceti, il sud con i Cretesi; e, speculare alla leggenda, è evidente la diversificazione delle viticolture praticate, con la gran frezza delle viti di Alessano diramata verso la fascia dei trulli e delle cattedrali romaniche. Così come pare debba distinguersi il vino di Puglia, rosso troiano, primitivo o negroamaro che sia, da tutti gli altri della Penisola, come glottologia vuole, definendolo non “vinum”, ma “merum”. E non a caso.

Nei vari dialetti regionali, è “mir”, “mier”, “miir”, “mieru”. Merus latino si traduce “schietto, forte, sincero”. Tale era dunque ritenuto il vino pugliese già allora, a differenza del vinum di derivazione greca o etrusca, che era tutt’altra cosa. E “vinum” è termine rimasto in tutte le lingue indoeuropee, mentre “merum” persiste esclusivamente nei vernacoli diffusi dal Gargano al Salento. Si tratta, dunque, di una questione linguistica, molto probabilmente legata ai rapporti di frequentazione pugliese delle coste illiriche nelle epoche proto e preistoriche.
In Albania, infatti, ancora oggi si usa l’aggettivo “mir” come “bello, fatto bene, buono”, eccetera. Il che, se da una parte alimenta l’orgoglio dei pugliesi, dall’altra concretizza in qualche modo, sia pure suggestivo, l’ipotesi che da mir sia stato mutato il termine merum, il vino forte e sincero che il pugliese presidente del Consiglio, Salandra, qualificò come «mal lavorato» rispetto al prodotto francese, che tuttavia proprio dal Mezzogiorno e dalla Puglia riceveva la materia prima per dare stoffa, nerbo e carattere ai propri vini; fino ai tempi in cui i pugliesi hanno imparato a “lavorar bene” i loro mosti, creando anche prodotti di nicchia di altissima qualità e conquistando i mercati interni ed esteri. Con l’oro rosso, ma anche con quello bianco, con le uve da tavola che identificano una qualità pressoché esclusiva, proveniente non soltanto dalle enclaves storiche, ma anche dai territori di Martina Franca e Locorotondo, da quelli delle direttrici Conversano-Noicattaro, Lucera-Canosa-Siponto, Ostuni-Egnazia e Gioia del Colle-Noci. Radici trebbiane, con le loro varianti genetiche e con influenze romagnole, marchigiane, umbre, persino sarde, ma tutte confluenti nell’espressione generalizzata di “uva baresana”. Osservare gli ipermarket del Centro e del Nord, per credere.
Dalla foresta garganica e dall’imperiale corona di Castel del Monte, fino al faro di Santa Maria di Leuca e alle estreme scogliere che vedono fondersi due mari mediterranei e i loro colori e le loro storie, i vigneti proiettano i crepuscoli delle leggende e le più sicure ombre delle pietre miliari della storia delle Puglie che formano una Puglia: terra ritrosa eppure affabile, «siticulosa» eppure verdeggiante, lunga da scoraggiare eppure multiforme per l’intrigante scoperta. Illuminata dai riverberi dell’Oriente, come a ricordarci che con il corso del sole trasvolarono i segni della civiltà, sostando qui, a far da ponte per sempre nel Mediterraneo baricentro del mondo.

   
   
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