Marzo 2004

IL CORSIVO

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Atella? No, Parma!
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

Duro il colpo
accusato, non del tutto sbalorditivo il silenzio tombale di chi fino a poco fa sognava un muro separatista tra le due Italie.

 

«Quel Cragnotti lì, la faccia ce l’ha. Ma Tanzi! Uno che si vede subito qual è, un brav’uomo. Magari raggirato da qualcuno dei suoi. Poca roba, vedrai». Così un carissimo amico, un pontremolese che abita a Parma: un onesto avvocato in pensione, strenuo lavoratore, di sentimenti schietti e di mani pulite. Un altro di quelli cui è crollato il mondo, quando dalle melme padane è emerso il risiko finanziario-familista che ha gettato sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori sparsi in mezzo pianeta e ha ridotto in spazzatura migliaia di miliardi delle nostre vecchie lire figurate in bond.
E’ stato scritto che da almeno dieci anni a questa parte ci sono imprese che emettono obbligazioni senza dover esibire a nessuno il proprio titolo di credito. Praticamente, hanno scoperto il motore ad acqua: prendono i soldi e non devono mettersi in casa nuovi azionisti, che magari farebbero domande inopportune, indiscrete, fastidiose. A rischiare sono le formiche risparmiatrici, che mettono i capitali, ma restano lontano dal tavolo verde sul quale si giocano partite anche truccate.
Perché meravigliarsi, allora, se la stampa estera – americana, inglese, francese, tedesca – tratta l’Italia come una miniera di junk bond? E ci meravigliammo, quando un disonesto per eccellenza, il presidente americano Richard Nixon, cacciato via dall’impeachment per il Watergate, facendo di ogni erba un fascio, sostenne che «il guaio degli italiani è che non ne trovi uno che sia onesto»? Forse, in quegli anni, la nostra vis ironica era in disarmo o in uno stato di dormiveglia. Ma tant’è. Se è vero che non c’è niente di nuovo sotto il sole (Parmalat è in buona compagnia, con Enron, Vivendi, Ahold, World Com, Cirio, Finmatica...), è altrettanto vero che non finiremo mai di stupirci. E non tanto per quel che le cronache raccontano, quanto per quello che tacciono, salvo rarissime eccezioni.
Clamoroso, ad esempio, quel che sta accadendo a latere dello sconquasso globale causato dalla saga di Collecchio, con i coniglieschi rintanamenti di chi fino a qualche giorno prima del crack aveva pensosamente elucubrato sull’ardua convivenza del virtuoso Settentrione con l’incorreggibile Meridione. Auspicando autonomie o vere e proprie indipendenze dall’inferno del Sud, terra, come il destino, cinica e soprattutto bara, nella quale, come splendidamente scrive Gian Antonio Stella, sopravvive la scuola di Totò, che imbrogliava i ristoratori fingendosi un installatore di vespasiani o si vestiva da console del Katanga, inventandosi il mestiere di vivere.
Sempre quelli: i calabresi che si fanno rimborsare i danni causati dal lupo della Sila come se questa povera bestia (che è quasi estinta) potesse mangiarsi in una sola notte ben ventidue tra vacche, pecore e capre, con l’appetito di un branco di tigri siberiane. I campani che imbrogliano le assicurazioni portando davanti ai giudici testimoni come il miracoloso Gerardo Oliva, capace di assistere in un anno a 650 incidenti stradali. I siciliani che scelgono come sindaco il medico che, per fargli ottenere l’assegno di sussistenza, invece di guarire i malati moltiplicava gli storpi, i tisici e i guerci. Ma allora, dal momento che il clima – diciamo – era così favorevole all’inghippo organizzato, al bidone brillante, alla truffa determinata dalle infinite risorse criminogene meridionali, perché la Grande Spoliazione Parmigiana non è stata orchestrata a Napoli, o a Bari, o a Reggio Calabria, o a Palermo? Perché il Padreterno ha consentito che il gigantesco imbroglio fosse opera di Totò di Parma, di Totò di Como, di Totò di Reggio Emilia, di Totò di Brescia, di Totò di Milano, insomma di decine di Totò padani dai confortanti accenti lombardi, veneti, emiliani, e di iperattivi e solidi manager dell’iperattiva e solida imprenditoria vantata dall’iperattiva e solida società padana, che invece ne ha combinato di tutti i colori?

Perché, tanto per navigare nell’oceano del latte, le macchie nere sul bianco virginale di una Padania estranea a furbizie, sotterfugi e inventive truffaldine sono parecchie: le diffusissime ruberie collettive sulle quote che videro ad esempio il signor Giovanni Buzzacconi, immortale esempio di stakanovismo polentone, mungere le sue 36 vacche per otto anni ancora dopo essere morto; e quei contadini valdostani i quali, avendo scoperto che se la vacca veniva rifilata per pigra e stava sotto una certa quota di latte giornaliero, era meglio avere i contributi della Regione per le bestie malate, e in nome del cospicuo contributo infettarono con la Tbc migliaia dei loro animali; o certi allevatori bresciani che figuravano aver comprato quote da inesistenti produttori meridionali, come quelli che prodigiosamente tenevano una mitica stalla in un attico romano, dalle parti di Piazza Navona.
Ma il caso Parmalat è qualcosa di più. Non solo per i documenti falsificati, per i depositi vantati (si starà rivoltando nella tomba Amedeo Giannini, che oltre alla Bank of Italy e alla Banca d’America e d’Italia, aveva fondato la Bank of America), per i bilanci stravolti, per le creature immaginarie messe su nei paradisi fiscali, per le scatole cinesi di società inconsistenti e vuote, per i transiti di denaro in mille rivoli, per i capitali e le cambiali fantasma, per le vendite fittizie, per i computer spaccati a martellate, drammatica immagine di una presunta impresa-gioiello, la settima nel panorama industrial-finanziario italiano, illegittimamente inclusasi nel gotha del Mib30, vale a dire delle trenta società-simbolo dello sviluppo italiano; ma soprattutto perché è la riprova che alcuni pensavano davvero che l’immagine forte di questa parte d’Italia che non si stanca di far sapere che lavora, sgobba, inventa, costruisce, produce, arricchisce e simultaneamente sventaglia lezioni di etica imprenditoriale, potesse essere lo schermo per fare il peggio del peggio, causando poi un orribile sfregio alla nostra credibilità internazionale.
Allora sono spazzati gli stereotipi nazionali, è risultato privo di fondamento lo steccato dei soliti, razzisti ma rassicuranti luoghi comuni del Nord onesto e del Sud ladro. Perché di fronte a quel Nord emblematizzato da Parma sta un Sud emblematizzato da Atella, la città osca di grossolani attori comici: Macco, mangione sciocco; Pappo, vecchio stupido; Bucco, affabulatore da strapazzo; Dossenno, gobbo astuto: tipicizzati in personaggi convenzionali, intervenivano nello scherzo finale, dopo la tragedia, osceni e famelici, protagonisti di vicende “sgarrupate” nel contesto della commedia dell’arte. E pertanto pericolosi né per sé né per gli altri.

Duro il colpo accusato, non del tutto sbalorditivo il silenzio tombale di chi fino a poco fa sognava un muro separatista tra le due Italie. Sicché oggi suona doppiamente spregevole il linguaggio di chi reclama «negri e terroni / fuori dai...» (ci risparmiamo il disgusto di completare la rima); o di chi li vorrebbe non uomini ma lepri, per poterli prendere a fucilate in apposite partite di caccia.
Siamo al nocciolo del problema. “Terroni e negri”: vale a dire, coloro i quali contribuiscono a fare la ricchezza anche di questi squadroni della volgarità, che con le loro indecenze e le loro sguaiataggini si muovono sul filo dell’eversione.
Del resto, l’immensità della loro ignoranza e della loro velenosa violenza, in nome della quale gli immigrati sarebbero «da prendere a cannonate», l’Europa è «Forcolandia», i tedeschi «vengono in Italia a fare gare di rutti nelle birrerie», Roma è «capitale corrotta e ladrona» da sostituire con vicecapitali o con capitali «da creare tra Venezia e Milano», il Capo dello Stato è da insolentire, e arabi, maghrebini, meridionali e detenuti sono da eliminare, quell’immensa ignoranza, dicevo, e la brutalità che ne discende, possono essere giudicate persino sottoponendo chi le esprime ad un esame elementare di grammatica, di lingua, di educazione civica e politica, come attestato minimo, ma proprio minimo, preliminare all’accesso alle istituzioni. C’è da scommettere che nessuno di costoro lo supererebbe. E meno che mai l’intrepido condottiero, l’adoratore del “dio Po” (?!), il quale, è stato scritto, non è un ministro degenerato in cafone, ma piuttosto un cafone promosso ministro: «Insomma, il bossismo, pur sconfitto alle elezioni e con un consenso ridotto ai minimi termini, è la cosa più sconcia della politica italiana. E legittimare Bossi è stato, in Italia, il più grave delitto commesso contro la politica, contro la cultura, contro la grammatica, contro l’educazione». Ed è insopportabile che si continui a legittimarlo, pur sapendo che gli italiani hanno ormai smascherato l’idea, propalata da esponenti della maggioranza governativa, ma anche – quando c’è stata convenienza – dell’opposizione, che il leader leghista sia magari un po’ folcloristico ma di solida cultura popolare, accreditando l’idea che dietro la volgarità si nasconda un animale politico di talento, che si riallaccia alla più schietta tradizione italiana, e al quale sono dunque consentiti il linguaggio rozzo, la licenza d’insulto, la latitanza del pensiero organizzato ed elegantemente espresso, la sozzura del razzismo. Tutto questo non gratifica una democrazia. La squalifica.

Siamo in piena epoca di civiltà della comunicazione. E’ il linguaggio a farla da padrone. Eppure, resta viva la necessità di ridefinire il peso specifico delle parole, se non altro, per interpretare correttamente la potenza creativa o distruttiva del lessico. Qualcosa del genere aveva tentato Rabelais quando, in un intero capitolo del “Gargantua”, aveva immaginato che in un remoto spicchio del pianeta le parole prima si ghiacciavano, e poi, al primo tepore del sole, si scioglievano nell’acqua, depurate, cioè rese inservibili a discorsi disonesti. E un’operazione analoga aveva suggerito Flaubert nel suo dizionario.
Qualche esempio. Prendiamo il termine “cortigiano”, che dal Cinquecento ad oggi ha subìto una profonda degradazione semantica. Eppure, il Castiglione gli attribuì un significato propositivo quando dettò regole ferree per il comportamento intellettuale, per il codice dell’eleganza e della finezza del pensiero, per la grammatica della vita pubblica; o il termine “galateo”, che Monsignor Della Casa concepì non solo come pratica di buone creanze, ma anche come rapporto tra quella pratica e la legge morale, di fronte alla quale nessuno può restare indifferente.
Ma vai a raccontare qualcosa del genere a chi, mentre deambula in canotta, sbraita contro «Roma ladrona», capitale rinnegata da una inesistente Padania o Padanìa che dir si dovrebbe, e che separare dal resto della plebea Penisola si vorrebbe; e che per cronica latitanza di letture ignora, ad esempio, che i due Plinio, il Vecchio e il nipote e affiliato Giovane, erano di Como; che Virgilio ebbe natali mantovani; che Plauto era forlivese di Sarsina; che Catullo vide la luce a Verona: quasi tutti galli cisalpini, eppure pilastri della romanità e della cultura europea; e che non a caso la passione dell’Imperium scaldò il cuore e la mente del fiorentino Dante ancora un migliaio di anni dopo che era caduto. «Mala mens, malus animus», scrisse il negro-libico e per di più schiavo affrancato Terenzio, che pure avrebbe ispirato Molière e Wilder, ma che non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno i celebratori di una presunta “heimat” celtica si arrogassero il diritto di emarginarlo in nome della latitudine e del colore della pelle.
Se le parole restano in libertà incondizionata, a proposito di identità nazionale, il discorso si complica e lo stesso concetto di “italiani” sfugge di mano. Secondo una recente indagine conoscitiva, abbiamo una forte tradizione cristiana, ma c’è anche un Paese ateo, anarchico, libertario e anticlericale; la nostra storia letteraria e artistica è fra le più antiche e nobili d’Europa, ma siamo tuttora la nazione più “dialettale” e frammentata del Vecchio Continente; abbiamo grandi tradizioni pacifiste e umanitarie, ma siamo capaci di una straordinaria violenza politica e criminale; siamo inclini alla retorica emotiva e ai buoni sentimenti, ma spesso e volentieri sappiamo essere brutalmente egoisti; siamo familisti e corporativi, ma riusciamo ad esprimere forti generosità e solidarietà collettive. E siamo infine separati da una diversa lettura della nostra storia, pur avendo attraversato le stesse prove e condiviso le stesse memorie.
Certo, le “identità nazionali” non restano sempre uguali a se stesse. Per molto tempo gli Stati Uniti d’America si definirono orgogliosamente Wasp, cioè un Paese “bianco, anglosassone, protestante”, che trattava con diffidenza, se non con disprezzo, italiani, polacchi, slavi, ebrei. Oggi quel Paese è anche afro-americano, latino, giudaico-cristiano, asiatico, con i vecchi e i nuovi immigrati che rispettano le regole civili, istituzionali, economiche, prefissate dai costruttori della Repubblica Federale. Fenomeno pressoché analogo nel Regno Unito, dove accanto alla Old England convive un’Inghilterra indiana, musulmana, africana, caraibica.
Dunque: è il sentimento della continuità che scandisce i tempi politici e culturali degli Usa e della Gran Bretagna. Mentre da noi, coesi territorialmente da poco, ma soprattutto con storia nazionale controversa, con forti separazioni vernacolari, con migliaia di campanili che non confinano ma si fronteggiano e con spiccate peculiarità locali, le forze centrifughe sono compensate da una malintesa “autosufficienza etnica” che non sa federare differenze e contrasti, semmai li accentua, perché non sa o non vuole capire che multiculturalismo non significa Italia senza volto, o con volto sfregiato, espressione solo geografica, arcipelago con esiziali derive anti-terrone, anti-negro, anti-romano. In una parola, anti-unitario.
La democrazia può sottendere, per complicità, per neghittosità, per omissioni, una cleptocrazia? Lo può, soprattutto quando vengono meno, o si riducono a mera esteriorità, i valori fondamentali che presiedono alla convivenza civile. Lo aveva sottolineato, già all’inizio del ‘900, Max Weber, quando collegò lo sviluppo del capitalismo all’etica protestante che richiedeva trasparenza, rigore, onestà intellettuale al servizio simultaneamente dell’individuo e della società. Da noi, il termine “capitalismo” non si è ghiacciato-e-sciolto, dunque non sempre è stato indirizzato sul versante del progresso economico e sociale. E’ rimasto familistico, è sempre stato un “capitalismo parastatale”, protetto, colluso col “milieu” politico e affaristico, spesso e volentieri macchiato da scandali e fallimenti.
Eppure, è stato proprio questo pseudo-capitalismo a condizionare il futuro dell’Italia. In passato, impedendo la nascita di una classe dirigente liberal-conservatrice, voluta da Sonnino, o la continuità politica di una forza centrista creata da De Gasperi, o la moralizzazione pubblica inutilmente predicata da Einaudi. E nel presente, con la mutazione di pelle, e di significato concreto, di un altro termine, “industriale”.
Essere un industriale, fino a due o tre decenni fa, significava poter esibire la carta da visita del successo per chi, impegnandosi a fondo e senza risparmiarsi, ce l’aveva fatta, mettendo su la ciminiera, creando occupazione, contribuendo al benessere reale del Paese. Poi significato e valore del termine sono degenerati. Oggi essere un industriale è titolo in via di estinzione, bisogna essere imprenditore, e l’imprenditore realizza il minimo di prodotto industriale che gli consenta di ampliare i reticoli finanziari, i circuiti cartacei e informatici che consentono giri vorticosi di denaro potenziale, indebitamenti macroscopici, operazioni di finanziamento oscure, rovina di risparmiatori, crolli di fiducia nelle istituzioni, caduta verticale dell’immagine del nostro Paese.
Tutti così? Non tutti, ma troppi perché possano essere sopportati dalla fragilità del sistema-Italia. Mai come in questi momenti siamo stati così in basso nella considerazione dell’Europa e del mondo. Mai il rischio-Italia è stato enfatizzato, a torto o a ragione, dagli opinionisti della stampa planetaria. Mai il confine semantico tra gli antichi elogi e l’attuale disistima dei nostri industriali-imprenditori è stato così netto, tattile.
No, non tutti così. Alcuni la lezione weberiana l’avevano appresa, e malgrado lo scetticismo connaturato nella loro indole, l’avevano anche predicata. Tempo fa, ricordavo su queste pagine la figura del Governatore Menichella (foggiano), il quale aveva indirizzato ai propri figli una lettera-testamento, nella quale chiariva: «Perché non siete diventati ricchi». Qui mi piace ricordare la figura di Baldassarre Molossi, direttore della “Gazzetta di Parma”, il più antico quotidiano d’Italia. Molossi è scomparso di recente, dopo aver percorso il cursus honorum tutto nel giornale della sua città, oggi emblematicamente travolta da uno scandalo di dimensioni mondiali. Ebbene, tra le sue carte è riemersa una “Lettera al figlio”, pubblicata sulla prima pagina di quella “Gazzetta” in occasione della nascita del figlio Filiberto, il 21 aprile 1969. Testualmente: «Mio caro figlio, non eri atteso (dovrei dire, con la terminologia di moda, che non eri stato programmato), ma sei ugualmente arrivato: sii dunque il benvenuto, nel nome del Signore che ti ha mandato quaggiù. Sei nato in un Paese meraviglioso. L’Italia è una grande Nazione e non lo sa (o fa finta di non saperlo). Troppo spesso noi italiani scambiamo la grandezza con la pompa magna e con lo sfoggio della magnificenza e della sontuosità: ma questa è vanagloria, è ostentazione, mentre la vera grandezza di un Paese è nella sua umana dignità, nel suo decoro civile, nella sua rettitudine. Questo Paese è oggi tribolato e infelice. E’ un Paese giovane, cresciuto in fretta e che pertanto denuncia taluni difetti e qualche squilibrio. Ma, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte, da oggi in poi l’Italia sarà la tua Patria e tu dovrai essere devoto alle sue leggi.

L'indole degli italiani è buona. Essi sono piuttosto individualisti, un po’ impulsivi e generalmente privi di realismo politico; ma sono anche generosi, magnanimi e capaci di nobili imprese. Per natura non sono cattivi, ma talvolta la miseria, le privazioni e le ingiustizie sociali li hanno resi scettici e ribelli. Spetta a te e alla tua generazione fare ciò che noi non siamo stati capaci di fare: risvegliare nel popolo italiano l’entusiasmo per ogni degna azione in nome di onesti e limpidi ideali; e stimolare i governanti al dovere dell’umana solidarietà nei confronti di tutte le infinite miserie che l’egoismo umano ha accumulato sulla terra.

L'augurio che ti faccio, mio caro figlio, è di crescere e di vivere in un mondo migliore di quello che ha conosciuto tuo padre. Nel 1989, quando tu avrai vent’anni, io spero che la tua Patria sarà l’Europa e che i tuoi occhi non debbano mai vedere gli orrori che hanno sconvolto la vita e turbato lo spirito della mia generazione e di quella precedente. L’Italia sarà poi sempre la tua piccola Patria, e di essa tu sarai orgoglioso, oltre che cittadino fedele, ligio al dovere. Sii fermo e caparbio nella tua fede, ma anche benevolo e tollerante verso le convinzioni altrui; sii benigno agli umili e fiero con i potenti; ripudia la violenza come mezzo per risolvere le controversie e credi nella forza mitica e irresistibile della ragione. Che Dio ti benedica».

Che Dio benedica, e gli uomini non dimentichino, questi preziosi maestri.

   
   
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