Marzo 2004

INDUSTRIA ITALIANA: COLLASSO EVITABILE?

Indietro
Antologia di
un capitalismo canaglia
M. B.  
 
 

 

 

 

 

Sul piano morale
e professionale, siamo di fronte a una nuova débacle di un intero gruppo
di imprenditori, manager, consulenti di una diffusa
concezione
di fare economia
e di fare impresa.

 

1989: Parmalat, da poco quotata in Borsa, entra in una grave crisi finanziaria per eccesso di debiti dovuti a cattiva gestione industriale. E’ salvata da una brillante operazione della Akros, che mobilita capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato. In una delle principali merchant bank del tempo, alcuni amministratori, autorevoli e onesti, direttori generali di banche azioniste, propongono con vigore di assumere una quota importante in Parmalat. Il presidente e il consigliere delegato si battono contro la proposta. Motivazioni: la società è opaca, la natura dei nuovi capitali è ambigua, la fiducia in Tanzi, continuamente colluso con la politica, è bassa. La battaglia è vinta.

2003: lo stesso presidente è a capo di una società di fondi di investimento, una ventina, che nell’insieme gestiscono oltre 17 miliardi di euro. Nessuno di questi fondi ha investito un solo euro in azioni o in obbligazioni Parmalat: i gestori hanno giudicato che il gruppo è oscuro e che è stato montato in quel modo per non far capire nulla.

2002: gli interventi americani post-Enron sono stati forti ed efficaci sul piano repressivo, con l’aggravamento delle pene per il falso in bilancio (legge Sarbanes-Oxley). Ma fatta saltare qualche testa e comminata qualche multa alle colluse investment bank, l’iniziativa ha lasciato irrisolti i grandi nodi. Lo strapotere dei Ceo (Chief executive officer) e la coincidenza nella stessa persona del presidente e dell’amministratore delegato restano intatti (come nel caso Parmalat); il conflitto di interessi delle grandi banche d’investimento universali, colossale e plateale, resta imperturbato (come nel caso Parmalat); la totale e ormai incurabile inaffidabilità – perché basata su concezioni anche teoricamente distorte del loro mestiere – degli “auditors” e del loro oligopolio collusivo rimane immutata (come nel caso Parmalat); l’inutilità del costosissimo “rating” resta comprovata (come nel caso Parmalat); la struttura sostanzialmente truffaldina delle società off shore e dei finti fondi di investimento nei paradisi fiscali (ce ne sono 4.000 solo nelle isole Cayman) è intoccata (come nel caso Parmalat).

Chi pensa al caso Parmalat come a un caso da strapaese e invoca il modello americano, non ha capito e non fa capire niente. E chi invoca per la Consob i poteri della Sec («così tutto andrà a posto»), inganna l’opinione pubblica e non ha letto le 127 pagine di fuoco che la Commissione Affari Governativi del Senato americano ha inviato proprio alla Sec, dopo il caso Enron. Vi scrive il presidente della Commissione: noi abbiamo visto con il caso Enron una rottura fondamentale del sistema; abbiamo trovato un fallimento sistematico e catastrofico del ruolo della Sec. Se per l’Italia il caso Parmalat è un disastro, per il sistema finanziario internazionale è solo un anello di una lunga catena di malversazioni e di crisi, i cui principali protagonisti sono sempre sulla cresta dell’onda, potenti e irridenti, tracotanti e incancellabili dagli scenari economici e finanziari anche internazionali.
Dov’era la Consob quando, nel 1998, Parmalat deliberò un aumento di capitale di mille miliardi di lire in azioni di risparmio? Che domande formulò? Non aveva niente da chiedere di fronte alla raffica di emissioni di bond su piazza italiana (206 milioni di euro nel 1997; 342 nel 1998; 350 nel 2000; 600 fino al 2002)? Non era il caso di domandare dove andava a finire tutto quel denaro? E il rapporto tra debito finanziario e capitale netto, passato da 2,5 a 3,8, sei volte superiore alla media del settore, non legittimava qualche indagine? Nel settembre 2003 R&S, l’ufficio studi di Mediobanca, riclassificò due poste dei bilanci Parmalat, per un totale di 554 milioni di euro, da patrimonio di terzi a debito. Con questa classificazione, che forse la Consob poteva anticipare, il debito consolidato esplicato di Parmalat saliva a 6,6 miliardi, con un’incidenza sul patrimonio netto del 441 per cento.

Tutto questo non poteva suscitare qualche preoccupazione? E non poteva la Consob, pur con i limitati poteri che dice di avere, fare un semplice calcolo aritmetico, mettendo a raffronto il limitato cash flow del gruppo con l’abnorme livello di indebitamento, e domandarsi quando e come lo avrebbe rimborsato? E’ vero che fior di banche internazionali non si sono fatte le stesse domande, come avrebbero dovuto. Ma almeno queste erano colluse, oscurate da conflitti di interessi e ansiose di accaparrarsi lucrose provvigioni.

La verità è che non è la quantità dei poteri che conta, ma la volontà di esercitarli: correttamente, tempestivamente, liberamente e imparzialmente. A meno che la Consob, come ogni rispettabile organismo burocratico italiano, non sia sempre forte con i deboli e debole con i forti.

Siamo di fronte al collasso di un’altra grande impresa italiana, una delle poche industrie alimentari di nostra proprietà, di dimensioni internazionali. Non può certo far piacere ciò, in un Paese che conta le imprese internazionali sulle dita, al massimo, di un paio di mani, e che ha visto sparire, o quasi, interi settori industriali in una insensata corsa alla deindustrializzazione, e altri li ha visti, sempre per mismanagement, ripiegare da posizioni di leadership europea a posizioni di seconda linea.
Questo aspetto è tanto più doloroso, in quanto Parmalat si inserisce in un ruolo centrale della catena agro-alimentare, e interagisce con settori a monte (allevatori) e a valle (formaggi, altri derivati del latte), dove negli ultimi dieci anni è stato realizzato, nonostante le multe europee sulle quote latte e le follie e le violenze dei Cobas del latte, dai produttori e allevatori seri un grande processo di modernizzazione, con punte di assoluta eccellenza produttiva e qualitativa.

Sul piano morale e professionale, non vi è dubbio che siamo di fronte a una nuova débacle di un intero gruppo rilevante di imprenditori, manager, professionisti banchieri, consulenti di un’intera concezione di fare economia e di fare impresa. E, dunque, soprattutto venendo dopo le grandi difficoltà della Fiat, i bond argentini, la Cirio, Finmatica, (ma c’è ancora qualcuno che si ricordi del crack Ferruzzi, della voragine Olivetti, dei buchi di Gemina?) è una nuova manifestazione di una vera e propria crisi sistematica. L’Italia come Paese deve farsi carico interamente e fino in fondo di questa débacle. Soprattutto vigilando e prevenendo, ed estromettendo senza tentennamenti i protagonisti di un capitalismo-canaglia (lo hanno definito “Casinò Capitalism”) che non onora una nazione.

L'Observer del 28 dicembre 2003 sosteneva: a prima vista Parmalat sembrerebbe una tipica impresa familiare italiana, costruita intorno a prodotti alimentari e al prosciutto. Ma non si tratta di ciò... Wall Street si è incontrata col capitalismo italiano per produrre una Enron italiana.
Quello di Parmalat è un caso italiano soltanto nelle sue origini. Nel suo sviluppo è un caso anche americano e internazionale. E’ un altro brutto capitolo del disastro morale e operativo della finanza internazionale. Le banche d’affari che hanno consigliato Parmalat sono le stesse delle varie Enron & Co. I revisori sono gli stessi. Le società di rating sono le stesse. I trucchi e i meccanismi finanziari legali e societari applicabili sono gli stessi e sono stati inventati da loro. Tra l’altro, i dirigenti e i consulenti finanziari del gruppo italiano venivano da quelle parti. Persino l’avvocato architetto di tali marchingegni, il rappresentante italiano del Fondo Epicurum, non proveniva da Collecchio, ma da ovattate stanze di un celebre studio legale di matrice statunitense. E coloro che hanno sostenuto Parmalat nei programmi di acquisizioni e di sviluppo forsennato appartengono a grandi banche italiane, ma anche a formidabili banche straniere, che continuavano a consigliare acquisti di bond persino nel mese di novembre dell’anno di grazia 2003 dopo Cristo.

Sbagliano dimensione e prospettiva quei commentatori che parlano di un disastro tipicamente italiano e delle imprese familiari in particolare, dunque. La Parmalat non è rappresentativa del capitalismo familiare italiano, ma di quell’imprenditoria sempre a cavallo tra politica e impresa, e che ha imparato a cavalcare la finanza internazionale, che già tanti danni ha fatto al nostro Paese.
L’economia italiana è debole, ma in questo Paese esistono centinaia di imprese, di tutte le dimensioni, alcune anche internazionali, che con i metodi Parmalat e dei suoi consulenti e banchieri internazionali non hanno proprio nulla da spartire.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2004