Marzo 2004

IL RUOLO DEL DOTTORE COMMERCIALISTA IN VISTA DI BASILEA 2

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Un nuovo advisor
per la finanza aziendale
Vittorio Boscia - Pietro Marchetti
 
 

 

 

 

Nello scenario
evolutivo, il dottore commercialista è chiamato a svolgere il ruolo strategico di advisor finanziario, nella progettazione di soluzioni
efficienti in tema di finanza aziendale.

 

Il dibattito sul rapporto banca-impresa ha tradizionalmente coinvolto operatori economici, politici, comunità sociale, consulenti, ricercatori. L’argomento merita ora un particolare approfondimento da parte dei dottori commercialisti non solo per fare il punto sull’attuale configurazione del rapporto, ma soprattutto per delineare gli sviluppi dei radicali mutamenti, di carattere normativo e regolamentare (quali il nuovo diritto societario, il Decreto Legislativo sui ritardi nei pagamenti, la riforma fiscale e quella sul nuovo diritto fallimentare e il Nuovo Accordo sui requisiti patrimoniali delle banche, noto come “Basilea 2”), che andranno a incidere sulla struttura finanziaria delle imprese e sulla politica dei prestiti delle banche.
Il presente contributo ha l’obiettivo di analizzare i principali contenuti tecnici e funzionali di uno di tali provvedimenti, Basilea 2, e le implicazioni professionali che l’Accordo comporterà per i dottori commercialisti.

1. L’attuale configurazione del rapporto banca-impresa

Il rapporto banca-impresa ha assunto configurazioni diverse tra i principali Paesi industrializzati. Ad esempio, in Paesi come Germania e Giappone, la finanza d’impresa è stata gestita con una forte integrazione con il sistema bancario (sistemi banking oriented), mentre nei Paesi anglosassoni le esigenze finanziarie delle imprese sono state soddisfatte prevalentemente nei mercati (sistemi market oriented).
L’Italia ha registrato un’esperienza abbastanza particolare. Pur avendo le imprese come principale interlocutore finanziario le banche, le relazioni con il sistema bancario non sono state in genere stabili e basate su reciproca fiducia. A questo si è aggiunto il fatto che il sistema delle imprese non ha potuto contare, in alternativa, su di un mercato dei capitali ampio, spesso e trasparente. In Italia pertanto la relazione banca-impresa è stata impostata secondo un modello di finanza povera incentrato sulla pratica del multi-credit, collegato a forme di credito a breve termine e al transactional banking. Il ricorso a tale modalità di finanziamento ha comportato per le imprese diversi vantaggi, quali ad esempio mettere all’asta il debito acquisibile, spuntare tassi passivi pro-tempore più bassi, mascherare la propria situazione di illiquidità sottraendosi a valutazioni approfondite del rischio di credito, nonché sostenere gli investimenti con debiti bancari a breve termine riducendo gli impegni di capitale proprio. L’ampio ricorso al multi-credit ha sollevato però anche diversi aspetti critici legati a problemi di instabilità finanziaria che spesso hanno compromesso lo sviluppo degli investimenti, nonché all’onerosità dell’indebitamento, estremamente variabile rispetto alla quantità di rapporti. A livello di sistema, invece, tale prassi ha spinto le banche ad applicare ai rapporti creditizi tassi medi non differenziati rispetto al diverso merito di credito e a fare affidamento sempre più sulle garanzie, piuttosto che sulla qualità effettiva del prenditore, penalizzando le imprese più sane e alimentando fenomeni di selezione avversa e di potenziale fallimento del mercato.
Proprio per superare la prassi del multi-credit, la recente letteratura ha proposto il modello del relationship banking, che implica per la banca l’orientamento dell’offerta al servizio della relazione con il cliente e la ricerca della redditività aziendale sui margini del rapporto nel suo complesso, piuttosto che della singola transazione. Il passaggio ad un approccio basato sul corporate relationship banking si basa sulla fidelizzazione della clientela attraverso un’offerta globale e integrata di servizi creditizi e finanziari che consente economie informative, maggiore trasparenza e un più efficace controllo dei rischi. Poiché la prospettiva del consolidamento della relazione implica che la banca segua costantemente l’impresa nel suo percorso di sviluppo, il corporate banker diventa l’interlocutore privilegiato non solo rispetto alla gestione della finanza ordinaria, ma anche nel sostenere i processi di crescita dell’impresa.

Tale modello si concretizza in un’assistenza articolata e personalizzata nella soluzione di tutte le esigenze finanziarie delle imprese, sulla base di una relazione consulenziale di lungo periodo che rende possibile una riduzione delle asimmetrie informative tra banche e imprese e dei costi del credito grazie al parallelo decremento dei costi di screening e di monitoring. Benché il relationship banking presupponga teoricamente il ricorso ad una “banca principale”, l’impresa operativamente deve cercare di evitare fenomeni di hold-up o di cattura informativa da parte della banca principale. In tal modo ad essa verrebbe “impedito” di avvalersi, sia pure marginalmente, anche di altre banche, esponendola al rischio di non poter controllare adeguatamente il costo del rapporto con la banca principale.
L’approccio del relationship banking non è però un modello valido in tutte le occasioni. Esso implica preliminarmente una segmentazione delle imprese che tenga conto dei bisogni specifici e della propensione della domanda alla costruzione di una relazione forte con il sistema bancario, che può instaurarsi ad esempio con la clientela corporate, caratterizzata da adeguate dimensioni e un modello di domanda di servizi finanziari complesso. L’approccio del transactional banking, volto invece alla massimizzazione a breve dei ricavi di vendita di ogni operazione, non viene considerato superato, ma circoscritto a particolari segmenti di clientela, retail e small business, caratterizzati da esigenze finanziarie di tipo elementare e, conseguentemente, da una domanda di prodotti di natura semplice e standardizzata.
Nello scenario evolutivo brevemente descritto, il dottore commercialista è chiamato a svolgere il ruolo strategico di advisor finanziario, nella progettazione di soluzioni efficienti in tema di finanza aziendale, attesa la vasta gamma di prodotti-servizi offerti dal corporate banker. Nel rapporto che si instaura tra impresa e consulente aziendale, infatti, la dottrina ha evidenziato che viene a cadere la criticità avanzata dall’analisi teorica in relazione al rapporto principale/agente. Ciò in quanto, con riguardo al modello di corporate governance delle imprese di piccole e medie dimensioni, la relazione tra imprenditore e professionista non può essere descritta come un classico rapporto di agenzia, ma come un rapporto di carattere fiduciario che si sviluppa progressivamente nel lungo periodo. Il dottore commercialista, condividendo una base valoriale comune alle imprese di piccole e medie dimensione e possedendo i requisiti necessari perché gli sia accordata la fiducia nel senso specificato, rappresenta un caso tipico di soggetto esterno che diventa progressivamente insider dell’azienda.

Una recente indagine condotta su un campione di imprese localizzate in provincia di Milano ha evidenziato la rilevanza del ruolo del commercialista dell’impresa all’interno dei rapporti con il sistema bancario. La quasi totalità delle imprese intervistate (98,56% delle piccole imprese e 95,83% delle medie imprese) ne segnala la funzione di interfaccia con le banche. L’autore della ricerca osserva che l’attività finanziaria dell’impresa è in molti casi coordinata dal commercialista, il complesso delle relazioni con il sistema finanziario non si qualifica, quindi, quale processo di scambio impresa-banca, ma piuttosto come relazione articolata in cui tre attori interagiscono con ruoli, tempi e margini d’azione differenti (Caselli, 2003). La maggiore diversificazione e fungibilità dell’offerta dei servizi di corporate banking crea vieppiù spazi per l’intervento di un advisor terzo, il dottore commercialista, che, facendo perno sulle proprie competenze fiscali e finanziarie si candida come selezionatore delle offerte provenienti dal mondo bancario. Per poter svolgere la funzione di advisor finanziario, il dottore commercialista deve però possedere una serie di competenze tecniche e relazionali, risorse materiali e immateriali e una struttura organizzativa, tradizionalmente rivolte ad altre attività professionali, quali la consulenza amministrativa, contabile e tributaria.
Nell’attuale fase di evoluzione del rapporto banca-impresa, caratterizzato dalle diverse modalità di offerta del transactional e del relationship banking, oltre che da Basilea 2, al dottore commercialista sono infatti richieste competenze particolari non solo per l’attività di presentazione e valutazione dei prodotti-servizi offerti dal corporate banker, ma anche per poter rispondere (o anticipare) le esigenze delle imprese che intendono prepararsi adeguatamente ai nuovi metodi di valutazione del merito creditizio delle banche e ai conseguenti mutamenti nelle procedure di selezione, di monitoraggio e di determinazione del pricing del credito. A tale scopo, il dottore commercialista deve partire dall’esame dei contenuti tecnici dell’Accordo di Basilea 2.


2. I contenuti di Basilea 2

Il tema dell’Accordo di Basilea è tuttora in piena evoluzione. Il terzo documento di consultazione (CP3) è infatti ancora all’esame dei diversi soggetti interessati (autorità di vigilanza, soggetti vigilati, ecc.), prima della pubblicazione della versione definitiva del “Nuovo Accordo” entro fine giugno 2004 (prevista inizialmente entro la fine del 2003) e della successiva entrata in vigore a fine 2006. Parallelamente, la Commissione Europea in luglio 2003 ha emesso il suo Terzo documento di consultazione, che indica come Basilea 2 verrà implementato nell’Unione Europea dalla Direttiva “Risk-based capital requirements”.
L’innovazione regolamentare introdotta da Basilea 2 è finalizzata a creare una maggiore correlazione tra il patrimonio delle banche e i principali elementi di rischio dell’attività bancaria. A questo scopo, l’Accordo si basa su un insieme unitario di tre strumenti di controllo del rischio, definiti pilastri (pillar), per una maggiore tutela della stabilità degli intermediari finanziari. Tali pilastri sono rappresentati: 1) dai requisiti patrimoniali minimi; 2) dal sistema di controllo prudenziale dell’adeguatezza patrimoniale; 3) dai requisiti di trasparenza delle informazioni.
Ai fini dell’attività professionale del dottore commercialista, interessa maggiormente esaminare il contenuto del primo pilastro, con particolare riferimento alle novità introdotte circa le diverse metodologie di determinazione del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, per le notevoli implicazioni che avranno sul rapporto banca-impresa. Le disposizioni dell’Accordo incentivano infatti le banche ad adottare le nuove metodologie di misurazione dei rischi di credito non soltanto per finalità (esterne) di vigilanza, ma anche per finalità (interne) di natura gestionale, implicando, tra l’altro, nuove modalità di affidamento e di pricing dei prestiti alle imprese.
L’attuale normativa di vigilanza sul capitale delle banche (Basilea 1) è fondata sulla determinazione di un coefficiente patrimoniale (non inferiore all’8%), in cui il numeratore è rappresentato dal Patrimonio di Vigilanza (PV) e il denominatore dalle attività ponderate per il rischio (Risk Weighted Asset – RWA) di credito e di mercato.
Con riferimento al rischio di credito, la determinazione del requisito patrimoniale in termini analitici può essere rappresentato dalla nota formula:

PV Ž  RWA * 8%

dove PV = Patrimonio di Vigilanza assorbito dall’attività in prestiti,  RWA = sommatoria delle attività in prestiti ponderate per il rischio; 8% = coefficiente minimo richiesto. In particolare, l’aggregato RWA viene ottenuto dal prodotto della singola esposizione per un coefficiente di ponderazione basato sul teorico rischio di credito delle singole attività, determinato in funzione del settore d’appartenenza e/o del Paese d’origine del debitore.
L'attuale configurazione dei coefficienti patrimoniali ha suscitato numerose critiche, soprattutto con riferimento alle distorsioni che possono sorgere dalle sue applicazioni alla realtà quotidiana. Le debolezze riscontrate sono riassumibili nel modo seguente:

- differenziazione delle categorie di prenditori non basata sul profilo di rischio individuale;
- mancata previsione della struttura a termine del portafoglio crediti (per cui non c’è differenziazione tra un credito della durata di un giorno rispetto ad un credito di 10 anni);
- scarsa considerazione del valore delle garanzie e delle operazioni di copertura;
- riconoscimento del beneficio della diversificazione inadeguato rispetto al potenziale di riduzione del rischio complessivo (per cui il capitale necessario a fronte di 100 crediti da un milione è lo stesso richiesto per un credito da 100 milioni);
- limitata possibilità di compensazione tra le prestazioni attive e passive della stessa controparte;
- visione complessiva del rischio di credito che spinge a tenere separati il banking book dal trading book, incoraggiando fenomeni di arbitraggio regolamentare.

Basilea 2 prevede di modificare la determinazione dell’attuale coefficiente minimo, sia mutando la metodologia di stima del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito che inserendo, sempre al denominatore del coefficiente, un nuovo requisito a fronte del rischio operativo.
Con riferimento al rischio di credito, vengono definite tre diverse metodologie per calcolare l’aggregato RWA in modo da renderlo più coerente all’effettivo grado di rischio della controparte. I metodi tra i quali le banche possono optare sono quello standard e quello dei rating interni; quest’ultimo si distingue ulteriormente in metodo base e avanzato, a seconda delle modalità con cui vengono determinate le diverse componenti del RWA. Altre novità sostanziali sulla determinazione del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito riguardano una nuova e più stringente definizione di default (90 giorni di ritardo nei pagamenti, con una specifica deroga per l’Italia sino a 180 giorni) nonché il riconoscimento, anche ai fini regolamentari, di una gamma più ampia di tecniche generalmente utilizzate dalle banche per mitigare i rischi di credito (garanzie reali, garanzie personali e derivati su crediti, disallineamenti di scadenza, strumenti compositi, compensazioni di posizioni di bilancio e accantonamenti), che consentono alle banche una sensibile riduzione dei requisiti patrimoniali regolamentari.
Il Metodo standard definito da Basilea 2 stima l’aggregato RWA moltiplicando l’esposizione (al netto di eventuali accantonamenti specifici) per un coefficiente di ponderazione che è più sensibile al grado di rischio effettivo della controparte. Nel caso di imprese, a ciascuna esposizione viene assegnato un coefficiente di ponderazione (20%, 50%, 100% e 150%) basato sul rating (da AAA a CCC) ricevuto da agenzie di rating indipendenti. Le esposizioni verso imprese che invece non sono dotate di rating esterno (in Italia, la quasi totalità) sono ponderate per un coefficiente standard del 100%; per quelle invece che, per determinate caratteristiche, rientrano nelle esposizioni definite al dettaglio (retail) è previsto invece un coefficiente di ponderazione del 75%. Un’esposizione viene considerata retail se concessa nei confronti di individui e piccole imprese; se di importo inferiore a € 1 Mln; se utilizzata mediante forme tecniche non sofisticate; se granulare rispetto alle altre esposizioni retail.

In alternativa, le banche possono optare per l’innovativo metodo dei rating interni (IRB). In tal caso, l’aggregato RWA viene calcolato seguendo una metodologia più sofisticata, idonea a garantire una misurazione del rischio di credito più precisa e più coerente con le caratteristiche individuali di solvibilità di ciascun prenditore. Tale metodologia deve comunque essere approvata e validata sia a livello interno, dal management, che esternamente, dalle autorità di vigilanza. In particolare, nel metodo IRB, la determinazione dell’aggregato RWA si basa su quattro componenti del rischio di credito: l’esposizione al momento dell’inadempienza (Exposure at Default - EAD), la probabilità di inadempienza entro un anno (Probability of Default - PD), la perdita in caso di inadempienza (Loss Given Default - LGD) e, in alcuni casi, la durata effettiva (Maturity - M). In particolare, all’“esposizione” del metodo Standard, si sostituisce l’EAD; alla classe discreta dei coefficienti di ponderazione stabiliti dalle autorità nel metodo Standard, si sostituisce una classe continua di coefficienti stimati sulla base di una specifica funzione di ponderazione che converte i tre componenti di costo PD, LGD e M in coefficienti regolamentari. Come già evidenziato, il metodo IRB a sua volta si distingue in due varianti, una versione base e una versione avanzata, proprio sulla base delle diverse modalità (endogene della banca o esogene delle autorità) con cui vengono stimati le componenti del rischio di credito indicate in precedenza. In particolare:

b1) il metodo base (foundation) prevede che la banca utilizzi stime endogene della PD, calcolate per ciascun grado interno di merito o ciascun pool di esposizioni sulla base della propria esperienza ed evidenza empirica; le altre componenti (EAD, LGD e M,) sono invece stimate dall’Autorità di vigilanza;

b2) il metodo avanzato (advanced), invece, prevede una stima endogena alla banca di tutte le quattro componenti del rischio di credito; si tratta di un’opzione certamente più sofisticata della precedente, che implica ingenti investimenti (in tecnologia e in competenze) e un ampio database sulle singole esposizioni.
Anche nell’IRB sono previsti infine specifici aggiustamenti per ridurre, a parità di rischio, il requisito patrimoniale previsto per esposizioni verso imprese di dimensioni minori. In tal caso, per quelle imprese con esposizioni superiori a € 1 Mln, ma con fatturato inferiore ai € 50 Mln, è prevista l’applicazione alla funzione di ponderazione di correttivi che riducono i requisiti fino al 20%; per le imprese considerate retail (esposizioni inferiori a € 1 Mln) sono previste specifiche funzioni di ponderazione per pool di esposizioni simili.
Come si è osservato, i tre metodi per la determinazione dei requisiti patrimoniali per il rischio di credito sono caratterizzati da un crescente livello di sensibilità. Conseguentemente le banche avranno elementi via via più risk-sensitive per fare le proprie scelte di selezione, di pricing e di gestione dei prestiti delle imprese.

3. Le implicazioni di Basilea 2 sul rapporto banca-impresa

I principali elementi tecnico-operativi di Basilea 2 – delineati sulla base delle best-practice a livello internazionale – lasciano ipotizzare un notevole impatto sulla tradizionale prassi bancaria della gestione del rischio di credito. Ad essere coinvolte non saranno soltanto le aree responsabili delle segnalazioni di vigilanza, ma più in generale le funzioni strategiche, operative e organizzative relative all’attività in prestiti: dai processi di concessione/revisione dei fidi, a quelli di diversificazione e quindi alle condizioni di pricing.
Il grado di pervasività della norma sul sistema imprese dipenderà comunque dalle scelte di ciascuna banca in ordine alle modalità di segmentazione della clientela e ai metodi di determinazione dei requisiti patrimoniali sulla base di precise opzioni strategiche (influenzate, tra l’altro, anche da variabili interne quali la dimensione, la localizzazione, ecc). Si potrà verificare, ad esempio, che una stessa impresa venga considerata small e trattata con il metodo standard da una banca e, allo stesso tempo, essere considerata, da un’altra banca, sempre nel segmento small ma trattata con un metodo IRB. L’impresa, se sana e affidabile, appartenendo a classi di rating migliori, sarà più avvantaggiata scegliendo la banca che la tratta con una metodologia IRB, in quanto sarà valutata con un metodo più preciso e sofisticato che farà emergere più chiaramente il suo minor grado di rischio, potendo contare su volumi e condizioni di prestito migliori rispetto al metodo standard.
In ogni caso, nell’ultima versione dell’Accordo, i pericoli di un potenziale overpricing e/o razionamento del credito erogato a favore del mercato retail si sono ridotti considerevolmente. Con riferimento al metodo standard, ad esempio, il requisito di capitale per lo small business è pari al 6% (75% * 8%) contro l’attuale 8% (100% * 8%). La riduzione a favore di tale segmento è dovuta al fatto che il portafoglio di crediti di piccola dimensione presenta, a parità di perdita attesa, perdite inattese inferiori a quelle di un portafoglio con imprese di medie e grandi dimensioni, in ragione del maggiore impatto della congiuntura economica negativa su queste ultime realtà. Per le banche che utilizzano, viceversa, l’approccio IRB avanzato, recenti indagini hanno confermato che il costo del credito alle PMI è ancora più basso in tutte le ipotesi in cui la funzione regolamentare rispetti le seguenti condizioni:

• PD  2%; LGD  45% · requisito IRB 5,5%
• PD  0,4%; LGD  85% · requisito IRB 4,9%.

In sintesi, il nuovo approccio produrrà un impatto certamente positivo sulle imprese più solide e solvibili, nonché su quelle in grado di fare un corretto uso delle garanzie: tali imprese riusciranno ad ottenere giudizi favorevoli, rating bassi e quindi tassi più convenienti. Le imprese con standing creditizi peggiori, invece, saranno penalizzate perché subiranno un rialzo dei costi della provvista o addirittura una riduzione dei volumi dei prestiti; a tali imprese converrà quindi migrare verso le banche che opteranno per una metodologia standard. Il sistema delle imprese deve comunque saper rispondere adeguatamente alle nuove logiche delle banche, a vantaggio di un nuovo modello di partnership banca-impresa. Verranno premiate quelle imprese che sapranno ridurre i tradizionali comportamenti “opportunistici” e aumentare il livello di trasparenza nei confronti delle banche.
A tal fine, le imprese dovranno produrre un maggior flusso di informazioni e di dati, non soltanto contenute nei tradizionali documenti pubblici (es. statuti e bilanci), ma anche nei documenti interni (budget, report, business plan, ecc.) – peraltro non sempre formalizzati esplicitamente dalle imprese per finalità interne di gestione – in modo da poter dare informazioni esaurienti sul complessivo “progetto di impresa”.
Certamente lo sviluppo della funzione finanza diventerà la leva del cambiamento. Essa dovrà accrescere la propria importanza rispetto alle altre funzioni aziendali e dovrà essere integrata nell’ambito del processo di pianificazione strategica. In particolare, la funzione finanza dovrà ridisegnare la struttura finanziaria dell’impresa per adeguarla alle nuove modalità di valutazione del merito creditizio delle banche; dovrà periodicamente verificare le condizioni di equilibrio dell’impresa al fine di correggere eventuali situazioni problematiche, senza subire passivante il giudizio/rating delle banche. Questo nuovo atteggiamento spingerà le imprese ad arricchire la funzione della domanda nei confronti delle banche con servizi finanziari più complessi e a maggior valore aggiunto. In prospettiva, l’impresa, ormai rafforzata nella struttura, potrebbe anche ricorrere direttamente al mercato mediante l’emissione di titoli, con sensibili vantaggi economici e di immagine.

4. Il ruolo del dottore commercialista nel nuovo accordo

Non tutte le imprese hanno però le risorse per sviluppare al proprio interno la funzione finanza. Le PMI, ad esempio, sono penalizzate dalle proprie caratteristiche strutturali (modello di proprietà chiusa, sottocapitalizzazione, eccessivo indebitamento, mancanza di una struttura organizzativa, esiguità delle garanzie patrimoniali, assenza di adeguata cultura finanziaria, ecc.) e soprattutto dalle ridotte dimensioni che non consentono di sfruttare le economie di scala e rendere convenienti la creazione di una funzione finanza interna. Gli small business dovranno quindi rivolgersi all’esterno, con preferenza per i propri consulenti.
In tale contesto, il dottore commercialista assumerà il ruolo cruciale di catalizzatore del nuovo modello di partnership banca-impresa in quanto insider dell’impresa, dotato delle necessarie competenze aziendali in tema di finanza aziendale e delle conoscenze tecniche legate all’accordo di Basilea, che gli consentono di comprendere compiutamente le nuove logiche con cui la banca si muove.
Tra le diverse opportunità e spazi economici dischiusi dalle recenti innovazioni regolamentari, il commercialista potrà svolgere ad esempio la nuova funzione di “rater aziendale”. Atteso che i rating sintetizzano tutte le informazioni disponibili sull’azienda su una scala ordinale di valori (da AAA a CCC), a ciascuno dei quali associare una probabilità di default, il dottore commercialista potrà divenire un efficace rater aziendale se riuscirà a governare l’informazione quantitativa contenuta nei dati economico-finanziari espressi nei valori e negli indici di bilancio, l’informazione qualitativa sull’andamento del settore e sulle pressioni competitive, sulla capacità ed abilità del management aziendale, ma anche l’informazione derivante dalla disponibilità di accesso, da parte dei soggetti censiti, all’importante collateral reputazionale definito dall’anagrafe della Centrale dei rischi (analisi andamentale).
La catena del valore nell’attività di rater aziendale potrebbe quindi essere rappresentata attraverso le seguenti fasi ordinate cronologicamente:
Fase I - Acquisizione della logica di funzionamento dei modelli di rating.

Fase II - Predisposizione di una scheda di contatto per avviare un processo di valutazione del profilo di rischio dell’impresa.
Fase III - Valutazione e controllo degli indicatori gestionali con valenza sul rating.
Fase IV- Definizione della strategia di impatto di strumenti e tecniche finanziarie evolute.
Fase V - Comunicazione del credit standing.
L’area a più elevato valore aggiunto per l’impresa, che potrebbe peraltro qualificare maggiormente l’attività del commercialista, sarebbe la IV. Partendo da un iniziale giudizio simulato di rating, il commercialista consentirebbe all’impresa attraverso interventi di ristrutturazione finanziaria di migliorare tale giudizio. Nel seguito si indicano alcuni esempi di carattere innovativo virtuosi ai fini di Basilea 2.

• I finanziamenti partecipativi (mezzanine finance). Sono strumenti finanziari finalizzati al mutamento genetico del debito in capitale proprio e a collegare il costo del finanziamento alla redditività aziendale.
• Restrictive covenants. Sono micro-innovazioni metodologiche riferite alla best practice bancaria operanti negli schemi contrattuali relativi al mercato del credito a medio/lungo termine. L’utilizzo di restrictive covenants, il cui valore viene assunto come clausola modificativa o risolutiva del rapporto creditizio, consente di disporre di un sistema di segnali tempestivi sul deterioramento della situazione economico-finanziaria dell’impresa, di ridurre il peso delle garanzie reali e di adeguare il costo del finanziamento all’effettiva rischiosità aziendale, lungo l’intero arco di ammortamento del prestito. Ad esempio, un covenant finanziario potrebbe prevedere che il rapporto debt-equity dell’azienda non debba superare in ogni anno di ammortamento del prestito, il valore soglia dell’1,2. In caso contrario lo spread inizialmente deliberato dalla banca sarebbe maggiorato di una percentuale pari all’X% (clausola di step up). Se l’azienda, adottando un comportamento virtuoso, riducesse invece il proprio livello di indebitamento in modo da far diminuire il summenzionato rapporto debt-equity al di sotto dell’1,2, lo spread deliberato dalla banca sarebbe ridotto di una percentuale pari a y% (clausola di step down). Da questo esempio emerge chiaramente come sia sufficiente un’innovazione nella predisposizione dei contratti di finanziamento per implicare un forte impatto sul costo del credito.

• Le garanzie pubbliche e consortili private (confidi) associate ad operazioni di cartolarizzazione degli attivi bancari. Quando ad esempio un portafoglio prestiti a medio termine garantito da un confidi dovesse raggiungere un’adeguata massa critica, la banca potrebbe cederlo con una tecnica di true sale ad una società veicolo, che, secondo lo schema classico, finanzierebbe l’acquisto di tale portafoglio attraverso l’emissione sul mercato dei capitali di una o più classi di Asset Backed Securities (ABS) sottoscritte dagli investitori istituzionali e di una tranche Equity garantita dal confidi, che si sarebbe nel frattempo munito di una contro-garanzia di natura primaria da parte di un fondo pubblico di garanzia. Tale tecnica di ingegneria finanziaria consentirebbe alle PMI di accedere a finanziamenti di medio periodo ad un costo contenuto del funding.

Conclusioni

Pur cruciale ai fini di un impatto “controllato” dei nuovi requisiti patrimoniali di Basilea 2 sul sistema impresa, il dottore commercialista è comunque soltanto uno degli attori del cambiamento.
E’ necessario il concorrente impegno di altre componenti del mondo politico, economico e sociale. Un ruolo centrale potrà essere svolto dagli organismi di categoria di banche e imprese. Questi dovranno diffondere la conoscenza sui contenuti dell’innovazione normativa e sul suo potenziale impatto a livello aziendale; stimolare i soggetti coinvolti ad operare gli investimenti necessari per poter implementare i nuovi modelli anche a fini operativi; promuovere e coordinare, a livello centrale, progetti e iniziative comuni per consentire anche agli operatori marginali e di minori dimensioni di operare i dovuti investimenti. Altri interventi saranno necessari per ridurre il livello dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio di credito.
A tal fine, si dovrà stimolare il ricorso alle garanzie pubbliche e ai confidi, quali strumenti di mitigazione dei rischi di credito. Ai fini di un loro riconoscimento da parte delle autorità, è necessario adeguare le strutture operative e le modalità di intervento di questi organismi ai requisiti richiesti.

Un ulteriore vantaggio potrebbe derivare da altri progetti di riforma in atto: quello della legge fallimentare, nella parte che prevede una riduzione dei tempi di recupero delle posizioni in default; quello del diritto societario che, se da un lato prevede per le imprese una maggiore flessibilità nel ricorso al mercato finanziario, dall’altro appesantisce il processo di valutazione delle banche e “complica” la disciplina sulle responsabilità patrimoniali dei soci e delle società; quello fiscale, che ridisegna la convenienza fiscale all’indebitamento delle imprese.
Un’ulteriore leva è rappresentata dal sistema degli incentivi (comunitari, nazionali e regionali). Con modalità diverse, questi strumenti di intervento pubblico potrebbero, ad esempio: consentire a categorie marginali di operatori (imprese operanti in regioni svantaggiate, imprese di minori dimensioni, ecc.) di operare i dovuti investimenti sfruttando specifiche forme di agevolazioni o di contributi; perseguire, a livello di sistema, finalità particolari come ad esempio l’aumento della trasparenza dei mercati, riducendo l’incidenza di determinate tipologie di costi per le imprese (ad esempio, costi di rating o di certificazione di bilancio); migliorare le condizioni di accesso al credito, concedendo specifiche forme di garanzie alle imprese.

   
   
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