Marzo 2004

A META' LEGISLATURA UNO SGUARDO SULL’ITALIA CHE NON CAMBIA

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Il feticcio
dei sogni di carta
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

 

Siamo di fronte ad un nuovo modello socio-politico che la società civile non può indossare come un capo d’abbigliamento.

 

Scuroveggenti, li chiamano così quelli che azzardano previsioni politiche. I politologi di solito abbaiano alla luna, ma quelli di casa nostra hanno difficoltà a farlo, costretti a ragionare su slogan, interviste e dichiarazioni carichi di simbolismo, ermetismo, fatalismo mistico. Devono lavorare su stati d’animo più che su razionali valutazioni politiche e percorrere itinerari civili tormentati, sospesi tra delusioni e speranze impossibili, tra tensioni dello spirito e pulsioni dell’istinto.
Sul destino degli italiani brillava un tempo il sole dell’avvenire, offrendo idee e sentimenti ad un grande sogno di carta. Adesso prevalgono le brume delle Langhe, ma la linea dell’orizzonte resta sempre segnata da ambiziosi sogni di carta.
Può esserci inadeguatezza nella strategia comunicativa del governo e può essere che i suoi ministri siano costretti a girare a vuoto per l’impiego di regole e procedure sclerotizzate. Ma proprio sul funzionamento delle regole e delle istituzioni interviene ogni giorno il giudizio delle agenzie di rating, delle istituzioni internazionali e dell’opinione pubblica. Un giudizio che attiene al tema cruciale di ogni democrazia liberale, quello dell’accountability, delle responsabilità del buon governo.
Al giro di boa di metà legislatura appare doverosa una riflessione in senso crociano, mettendo sotto lente d’ingrandimento la rosa dei potenti sulla base dell’attività svolta. Non un bilancio economico ma un bilancio sull’esercizio delle funzioni. Adempiendo semplicemente ad un compito di galateo politico e istituzionale.
L’elettorato, in linea con le sue aspettative, aveva ritenuto di dare credito ad un programma di governo centrato sulla modernizzazione. Meno tasse, più dinamismo economico, più uguaglianza sociale, più sicurezza, più innovazione. Ora si trova a fare i conti con un senso della legalità fortemente impoverito, reso precario dai continui strappi istituzionali, con privatizzazioni effettuate senza liberalizzazioni, con un tessuto industriale indebolito dalla flessione della produttività e dalla mancata crescita degli investimenti, con un risparmio tradito da speculazioni finanziarie ad alto rischio e fuori controllo (fino alla drammatica insolvenza Cirio e Parmalat), con l’innovazione impigliata nei grovigli di uno sviluppo inceppato, con un mercato del lavoro che forse perderà spezzoni di rigidità ma non salva i migliori dal destino dell’esilio, non perde il valore “nobile” della raccomandazione, non riduce nel lavoro autonomo il tasso elevato di “ereditarietà”. Lavoro e risparmio restano in sofferenza, gestiti con disinvoltura e scarsa trasparenza, mentre si consolida il dominio della finanza privata sul pubblico interesse e si ampliano le dissonanze cognitive sul concetto di bene comune.
In questo modo si mandano segnali distorti ad una società e ad un mercato che, inseriti nel frenetico dinamismo competitivo della globalizzazione, dovrebbero crescere in senso moderno e non medioevale, guidati dalle stelle polari della concorrenza, della trasparenza, della professionalità, dell’efficienza, della riduzione delle diseguaglianze tra i livelli di reddito.
Lezione numero uno: i risultati non sono pari alle aspettative. Lezione numero due: l’eccessiva competitività tra partiti indebolisce l’esercizio della funzione dirigente e rende evanescenti gli obiettivi di lungo periodo. Dopo il semestre europeo, infarcito di pause di riflessione gridate, lo stato di fibrillazione continua. Il governo è sotto stress per i continui attacchi di fuoco amico (è difficile pensare ad un appeasement tra quadrunviri callosi e biliosi in nome della stabilità). I soci di maggioranza hanno la testa altrove, essendo quotidianamente impegnati a promuovere o a sventare faide politiche. Mentre incidenti che non sono incidenti percorrono tutto l’arco economico e istituzionale.

Il fatto più allarmante è che i veleni quotidiani seminati in un Tempio ormai privo di Propilei vengono digeriti e archiviati senza conseguenze apparenti. O meglio, con la conseguenza certa di produrre un costante logoramento di leadership lungo tutta la filiera dei pubblici poteri, mettendo a repentaglio l’integrità del tessuto sociale.
Il nodo dei nodi sta nell’assemblaggio delle coalizioni (con vincoli sistemici tra partiti in quotidiana concorrenza di audience), nelle schegge del bipartitismo immaturo che colpiscono indiscriminatamente la squadra attuale e quella potenziale, facendo vittime eccellenti senza necrologio (anche il governo Prodi fu impallinato dall’interno, aprendo la crisi dell’Ulivo nel 1998). Quando una maggioranza è in crisi spuntano i corvi in attesa delle spoglie, ma le “questioni di pelle” restano sempre senza risposta. Nelle chiese laiche la liturgia sopravvive ai dogmi e continua a disegnare con riga e compasso la geometria dei poteri. Allargando il fossato tra pluralismo sociale e democrazia istituzionale, operando sempre in bilico tra fede borbonica e devozione absburgica.
Ragioni oggettive spiegano la linea di galleggiamento che si esprime con l’affabulazione minimal chic della “politica dell’annuncio”. Questa alimenta a sua volta il rituale celebrativo degli schieramenti e crea la “società dello spettacolo”, mobilitando tempo e sentimenti della società civile su castelli di carta che poi è difficile buttar giù. Si pensi alla sindrome cinese con cui si cerca di spiegare la crisi dell’industria tessile nel Nord-Est e nel Mezzogiorno (invocando dazi per bloccare le importazioni), alla radicalizzazione dei ragionamenti d’ufficio sui temi dell’immigrazione, allo stillicidio dei dibattiti sterili sul conflitto d’interessi e sulla crisi della giustizia, alla guerra delle parole sul riformismo costituzionale, ecc. Così anche la voce della piazza finisce per diventare flebile e senza nervo sociale, caratterizzata da uno spirito di crociata populista che mette la sordina alle legittime ragioni del buonsenso.

Inoltre, si va diffondendo nel lessico politico l’uso di una cortina linguistica di stretta pertinenza economica, con scarsa aderenza alla realtà. Si pensi al project financing, pubblicizzato per accelerare la realizzazione delle grandi opere, difficilmente praticabile per il groviglio di veti locali e vincoli normativi, al marketing urbano, collegato ad un astratto fabbisogno estetico di massa.
L’informazione a sua volta dà eco a questa realtà ovattata e surreale, proponendo una lettura degli eventi “pedagogicamente corretta”. Quella televisiva, in particolare, cerca di accreditare un’Italia spensierata, affascinata dal culto dell’intrattenimento (con un po’ di fortuna si può sfuggire a proiettili e bombe, ma non si può sfuggire alla retorica e ai quotidiani cocktail di melassa).
Purtroppo gli incantesimi prodotti da un’atmosfera inamidata non aiutano ad uscire dalla classifica dei Paesi “gambero”. Gli economisti di casa non amano la parola “declino”. Per le difficoltà attuali puntano l’indice sull’avvento dell’euro, sul problema demografico, sulla piccola dimensione aziendale. Tutte ipotesi plausibili, se riferite al breve periodo. In realtà, il “declino di sistema” era già evidente negli anni Settanta, quando una forte instabilità sociale aveva posto freno agli indici della crescita e aveva iniziato a privilegiare la gestione della finanza rispetto alla gestione dei prodotti.
Questo trend negativo è arrivato sino a noi, passando indenne tutti gli esami della politica economica e della politica aziendale. Ha motivazioni serie e profonde, riconducibili alle difficoltà (forse crisi) di due culture complementari: del capitalismo familistico (ampiamente presente nella realtà italiana) e delle scelte di governo neo-liberiste.
L'idea di “fare impresa” intrattenendo rapporti privilegiati con il potere politico, oltre a creare compromessi imprinted, rende difficilmente difendibili le posizioni acquisite sul mercato (si legga la cronaca dei casi Cirio e Parmalat). Anche per la lentezza dei tempi politici (subordinati sempre più al benestare della tecnocrazia europea) di fronte alla rapidità imposta al processo decisionale delle imprese dalle spinte competitive dei mercati globalizzati. E’ ormai obsoleta l’idea di un “mercato-circuito” in cui vince chi ha le frequentazioni giuste nei salotti buoni. Come è pericolosa la tendenza a separare nella gestione d’impresa il comparto della produzione dal comparto della finanza, soprattutto quando quest’ultimo è supportato da una forte dipendenza banco-centrica.
La realtà economica contemporanea è dominata dai fattori internazionali più che dalle decisioni interne di apparato (politico-governativo-bancario). Altra cosa sono le difficoltà nate dall’improvvisa convergenza su ricette di governo neo-liberiste, impostesi all’attenzione del mondo politico dopo il collasso del sistema comunista e il crollo dei vecchi organigrammi di partito. Un’idea buona in sé, che in Italia marcia su gambe anchilosate. Siamo di fronte ad un nuovo modello socio-politico che la società civile non può indossare come un capo d’abbigliamento simil-british. Non possiamo improvvisamente convertirci ad un modello neo-liberista dopo aver avuto una capillare formazione statalista, che ha permeato la vita associativa sin dai primi passi della storia unitaria. I contraccolpi più evidenti si avvertono sul versante macro-economico e istituzionale. In questo senso, il Paese attraversa una fase di transizione epocale e ha bisogno di una forte partecipazione collettiva e di un senso elevato di responsabilità individuale.
Il nostro disagio è fotografato dai giudizi impietosi delle istituzioni internazionali. Nell’ultima classifica sulla competitività elaborata dal World Economic Forum l’Italia è scesa dal 33° al 41° posto. Un complesso di giudizi negativi vengono anche dalla lettura dell’IMD World Competitiveness Yearbook: il prodotto interno lordo perde un punto, l’indice demografico cinque punti, il consumo di energia due punti, il tasso di disoccupazione undici punti, l’efficienza del settore pubblico cinque punti, ecc. L’unico dato positivo riguarda l’impennata della telefonia mobile, che guadagna quattordici posizioni. Tanti indizi faranno pure una prova. E’ vero che sono variazioni quinquennali, poco significative per qualcuno, poiché evidenziano una retrocessione annunciata, in linea con la crisi economico-finanziaria della comunità internazionale. Va ricordato tuttavia che mentre l’Italia arretra, altri Paesi vanno avanti, in costanza di ciclo recessivo. Non a caso la Banca d’Italia ha visto ridurre la sua partecipazione azionaria alla Bce, perdendo il terzo posto a vantaggio della Gran Bretagna (partecipa al capitale Bce ma resta fuori dall’eurozona). Un’altra classifica poco edificante vede l’Italia al primo posto tra i Paesi inadempienti alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (Strasburgo). Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha un dossier con 3.500 casi. Di questi, 2.424 riguardano l’Italia (segue la Turchia con 317, la Francia, la Polonia, ecc.). Le sentenze disapplicate si riferiscono in maggioranza all’eccessiva durata dei processi, ma vi sono anche violazioni per l’affidamento di minori, per il trattamento delle minoranze, per la carcerazione preventiva. Emerge un quadro preoccupante di violazioni di diritti umani, con critiche di sistema rivolte da tempo a governo e magistratura. Per un soggetto politico che intende avere un ruolo di primo piano nell’elaborazione della politica europea non è un biglietto da visita encomiabile.

Un altro momento di riflessione lo offre l’Ufficio internazionale del lavoro, che registra da tempo il declino del nostro sindacalismo, mentre cresce il ruolo anomalo di istituzione pubblica, con annesso potere “politico”, assunto dai sindacati (si pensi al finanziamento pubblico dei patronati e dei Caf, alla presidenza Inps, alle cariche pubbliche riservate ai sindacalisti, all’aspettativa e ai permessi retribuiti accordati nel settore pubblico). Cresce nel sindacato la crisi di rappresentanza e la cultura del ribellismo ad un sistema di relazioni industriali fortemente centralizzato (Piero Ostellino parla di «Gosplan all’italiana», in una fase politica, aggiungiamo noi, fortemente caratterizzata da spinte federaliste). C’è il rischio concreto di vedere i sindacati confederali sconfessati e scavalcati dalla base. La recente protesta nel settore dei trasporti e gli spazi di autonomia cercati dai metalmeccanici della Fiom s’inquadrano in questo clima pericoloso, dagli effetti-sistema dirompenti.
Il percorso delle riforme coinvolge istituti decotti e istituzioni delegittimate ma si continua a recitare un rosario con molte paternità progettuali, affidate ancora all’agenda delle speranze prossime venture. Per dirla con Claudio Magris, manca «una stazione meteorologica delle grandi trasformazioni». Con il rischio di assistere inermi ad una tarda serialità amministrativa, senza governance effettiva.
Sui temi di civiltà giuridica, del mercato del lavoro e della qualità della vita (riforma costituzionale, riforma dell’ordinamento giudiziario, riforma degli ordini professionali, riforma fiscale, riforma degli ammortizzatori sociali, riforma della formazione, approvvigionamento energetico, difesa del territorio, acqua, stoccaggio delle scorie radioattive) ci sono divisioni politiche profonde. Ma ciò non è sufficiente a spiegare l’immobilismo attuale.
E’ noto che la riforma costituzionale (bozza dei “Saggi” per la maggioranza, bozza “Amato” per l’opposizione) ha costi proibitivi per il bilancio pubblico. Ed è anche noto che una riforma fiscale che voglia ridurre la pressione tributaria può essere praticata solo in fase di sviluppo (dunque non nell’attuale congiuntura di stagnazione).
In questo scorcio di legislatura, affollato da scadenze elettorali, sarebbe più opportuno costruire tasselli: per elevare l’indice di gradimento interno verso un progetto globale di riforme da introdurre dopo il 2006, per attenuare i contraccolpi negativi che i recenti dissesti finanziari producono sul mercato internazionale (l’internazionalizzazione dell’economia italiana è tra le più basse dell’area Ocse), per creare in breve un clima costituente affidabile.
L’era della pietra non è finita perché finirono le pietre. Fu semplicemente sostituita da nuove tecnologie e nuove aggregazioni sociali. Anche l’era polista ha bisogno di un corposo tagliando di collaudo. Così com’è appare ispirata da un forte talento scismatico e afflitta da un eccesso di bricomania (do it yourself - home improvement). Queste qualità, esercitate su dimensione nazionale, portano linfa all’eterna giovinezza dell’anima giacobina producendo un sistema chiuso, autoreferenziale.
Non fa storia il miracolo laico dell’unità nelle elezioni e della trinità nel governo (siamo ottimisti per vocazione!).
Per lavorare sul reale superamento dei blocchi interni (quelli esterni sono caduti da tempo) bisogna liberarsi dai guasti della cultura cavouriana e mazziniana che caricando di ideologia la dialettica politica tanto ha dato al percorso storico dell’unificazione nazionale. Purtroppo quel metodo ha varcato i dopoguerra ed è arrivato sino a noi, creando steccati e clonando semi di odio di massa ancora attivi. Un lugubre vizietto che ha insidiato dalle origini il Dna della “scuola” repubblicana.
Il Papa da tempo ha avviato un tormentato processo di “purificazione della memoria”. Ad esso ha fatto seguito, sul versante laico, un’accelerazione delle mode revisioniste. A noi sembra che questi percorsi siano utili per liberare la storiografia dai “pregiudizi di congrega”, ma rendono servizi pochi o nulli ai percorsi della politica. Non intendiamo proporre una congiura dell’indifferenza. Siamo semplicemente convinti che per fare movimentismo politico sia più proficuo un approccio pragmatico con la radiografia dei sogni e dei bisogni collettivi. Per rendere praticabili strategie e percorsi progettuali “decontaminati”.
E’ attesa una forte semplificazione del quadro politico che si ottiene lavorando sul metodo, sugli assetti interni delle coalizioni. Al momento ci sono progetti pensati in solitudine, c’è un mosaico che si degrada consumando riti tribali tra un distillato berlusconiano e una maionese dalemiana, confezionando enigmi che talvolta entrano di soppiatto in prove di dialogo.
L’approccio ad una nuova identità politica parte dall’abbandono dei dogmatismi che non fanno vedere ciò che accade nella società, dall’abiura dei duopoli storici: comunisti/anticomunisti, fascisti/antifascisti, laici/cattolici (lasciamo agli storici togati questo patrimonio di ricerca). Non è casuale che i cittadini si appassionino sempre più ai dibattiti di filosofia (si guardi al successo dei convegni di Modena, Milano, Bari, Lecce). Cercano in questa scienza un sapere di nuovo conio. Cercano risposte che la politica degli schieramenti non riesce più a dare.
Per la dimensione virtuale in cui opera la società dell’informazione il futuro diventa l’unica realtà paradigmatica, per cui occorre fare attenzione a tutti i fenomeni sociali di tendenza, nell’era grigia dei consumi di massa globalizzati. Inoltre il processo di disintegrazione europea se per un verso produce appannamento della sovranità nazionale, per un altro verso valorizza l’impegno per la creazione di nuove euroregioni. Tutto ciò apre nuove frontiere di dialogo alle infrastrutture politiche che, influenzate dai processi di internazionalizzazione, sono costrette a cambiare orizzonte agli spazi di potere e al raggio dell’azione politica. Un esempio pratico è dato dal nuovo fronte conflittuale tra garanzie del cittadino ed esigenze di sicurezza sotto la pressione del terrorismo globale.
C’è ormai una lista di questioni urgenti che per essere trattata seriamente dev’essere depurata dai parallelismi istintivi tra passato e presente, dal gioco al massacro tra riforma e controriforma. Il riformismo “utile” non può nutrirsi di grida di dolore e della demonizzazione dell’altro. Occorre intraprendere una via italiana alla modernizzazione che non sia un viaggio ulteriore in fuga dalla logica e dal buonsenso.
Il termine modernizzazione, sdoganato dal sociologismo che ancora lo pervade (si legga il recente “Rapporto Italia 2004” dell’Eurispes), implica una religione della democrazia impegnata a far emergere l’individuo, non l’apparato. Con tutto ciò che ne consegue per la formazione e la selezione della classe dirigente; per la definizione di diritti, garanzie e libertà costituzionali; per l’incidenza dei cittadini sui processi decisionali e sulla gestione della cosa pubblica; per una definizione “intimista” del rapporto etica-finanza-politica senza querule litanie savonaroliane. Forse un totem. Per noi il desiderio “pagano” di seguire rotte di navigazione guidate da sentimenti unitari senza smagliature. Disincagliandosi dai lidi incantati del capitalismo di cerniera, con retrogusto di sòla.

   
   
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