Marzo 2004

ORIGINI DEL CAPITALISMO

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Al tempo
delle Corporazioni
Ferruccio Delgado  
 
 

 

 

 

 

Tutte le forze
politiche italiane sembrano essere espressione
dell’incapacità
dell’Italia
di predisporre
le condizioni per frenare il declino
e per rilanciare lo sviluppo.

 

Proprio in questa prima metà del 2004, la Commissione europea ha all’esame un Rapporto sullo stato della concorrenza nelle professioni liberali (avvocati, notai, commercialisti, ingegneri, farmacisti e architetti). «Il Rapporto – ha specificato il Commissario Mario Monti – dovrà evidenziare la razionalità economica che deriva dalla concorrenza». E’ possibile, ha poi precisato, che suggerisca «azioni da parte degli Stati membri o delle stesse professioni». Ma la Commissione non proporrà un’armonizzazione delle regole, «anche se il bene pubblico e la competitività in questo settore non mi sembrano garantiti dalle norme attuali».
Dunque, si sta tornando a discutere degli ordini e degli albi professionali, che i liberalizzatori come l’eurocommissario Monti vorrebbero riformare. Impresa nella quale nel nostro Paese non sono riusciti i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni. Si tratta, infatti, di una riforma difficilissima, e non soltanto per le “resistenze” (che vengono normalmente definite “corporative”), che indubbiamente ci sono, ma anche per l’obiettiva complessità della materia.

Ai nostri occhi, le Corporazioni odierne rappresentano le ultime vestigia del Medio Evo: evocano l’immagine di una società soffocata da regole ingombranti. Invero, la loro realtà è piena di luci e di ombre, che si sono infittite con il trascorrere dei secoli, ma che non possono far dimenticare il ruolo positivo svolto all’apice del loro sviluppo.
L’età d’oro delle Corporazioni delle arti e dei mestieri si ebbe, appunto, nel Medio Evo. I loro compiti erano quelli di addestrare gli apprendisti, di regolamentare la qualità delle produzioni, di fissare i prezzi e i salari, di garantire il rispetto degli statuti, di soccorrere i membri bisognosi e di prendere parte attiva alla vita politica, rappresentando gli interessi dei “corporati”.
Sembra il perfetto elenco di quei “lacci e lacciuoli” che vennero giustamente stigmatizzati da Guido Carli. Ma, a ben vedere, nei secoli che videro nascere il capitalismo, quei vincoli non rappresentavano un ostacolo allo sviluppo. Al contrario, assicuravano la trasmissione del sapere in un’epoca in cui non esistevano scuole tecniche e professionali; tutelavano la qualità di tutte le produzioni, anche per muovere alla conquista di nuovi mercati nella Penisola e in Europa; fissavano i prezzi al fine di evitare una rovinosa concorrenza fra imprese che, in tempi di crisi, avrebbe potuto compromettere il fragile equilibrio economico e sociale; offrivano ai ceti emergenti una ribalta prestigiosa per affermare i loro interessi e per partecipare attivamente alla vita pubblica.
E inoltre, in un periodo in cui lo “Stato sociale” si limitava alla carità pubblica e privata, e alla generosità non disinteressata dei ceti abbienti, alimentavano il senso di solidarietà fra i propri aderenti: «Ogni fratello della gilda», si legge negli Statuti della Knuts Gilde di Flensburg, redatti prima del XIII secolo, «deve essere pronto ad aiutare il suo confratello in ogni giusta questione».

Il termine “arti” deriva dal latino “ars”, e significa “attività umana, occupazione”. Le Arti, o Corporazioni, erano associazioni riconosciute dallo Stato anche in epoche remote. Fin dai tempi degli Egizi si ha notizia della presenza di Corporazioni, ma solo in Roma queste assunsero un vero e proprio valore politico. Erano dette “Collegia opificum” (Corporazioni delle arti), e godettero di privilegi, come l’esenzione dalle tasse straordinarie e dal servizio militare. Avevano loro rappresentanti legali per eventuali conflitti giudiziari e una casa in comune dov’era custodita la cassa con i contributi degli associati.
Anche dopo il crollo dell’Impero d’Occidente le Corporazioni continuarono a funzionare nelle città, dove ancora le istituzioni romane resistevano: al seguito delle popolazioni germaniche, si affermarono nell’Europa del Nord, appunto, le Gilde, associazioni che avevano inizialmente un compito di difesa degli associati e di vendetta in caso di torti subìti, ma che in seguito (nel secolo XII) si dedicarono agli interessi di artigiani e mercanti. Le Gilde avevano un carattere democratico ed erano rette da un’assemblea convocata più volte nel corso dell’anno: in queste circostanze venivano riveduti i conti e si impartivano le direttive per il futuro.
Con l’affermarsi del fenomeno comunale, le Corporazioni divennero numerosissime, fino a coprire tutte le attività lavorative. Nel secolo XIII, Venezia ne annoverava ben 142, ma Firenze fu la città in cui le Arti raggiunsero la massima diffusione. A seconda delle categorie rappresentate, le Corporazioni erano distinte in maggiori e minori. Maggiori erano quelle dei potenti mercanti di seta e di oro, dei fabbricanti di tessuti preziosi, degli intellettuali, dei giudici, dei notai e dei medici. Minori erano le Arti che raggruppavano i lavoratori di basso livello sociale e che non avevano alcun peso politico ed economico. Nei Comuni più potenti, come Venezia, le Arti erano strettamente subordinate allo Stato, ma altrove riuscirono a formare un vero e proprio movimento politico volto alla conquista del potere, oppure alla costruzione di un potere parallelo a quello delle istituzioni comunali. In quest’ultimo caso, non riuscendo a ottenere una rappresentanza politica ufficiale, le Corporazioni formarono delle comunità, che furono dette “Comune del popolo” e furono poste sotto la guida di un capitano del popolo.
In non poche città, per favorire la concordia sociale, furono attribuiti alle Arti o Corporazioni compiti di amministrazione della giustizia in settori specifici che riguardavano controversie di lavoro tra rappresentanti dello stesso mestiere o della stessa professione. In sostanza, i capi delle Corporazioni venivano considerati come “esperti” in grado, proprio perché del mestiere, di dirimere conflitti di ogni tipo nel settore di propria competenza.
A Genova, nel 1257, e a Firenze, nel 1282, il Comune del popolo prevalse sulle istituzioni comunali ed escluse i nobili dal governo della città: venne stabilito infatti che, per essere eletto agli alti gradi del governo, era necessario appartenere ad un’Arte e ad esercitarla. Quando però le Signorie riuscirono ad affermarsi definitivamente, le Corporazioni perdettero quasi del tutto importanza nella conduzione politica delle città.
In altri termini: poiché col passare del tempo ogni organizzazione tende ad irrigidirsi e ad essere meno flessibile e meno permeabile alle novità, anche le Corporazioni restarono vittime dell’ossificazione. Regole troppo rigide finirono per frenare l’innovazione; la pretesa di controllare sia le manifatture urbane sia la produzione delle aree circostanti ostacolava la nascita di nuovi poli; la fissazione dei salari si scontrava con la crescente mobilità del lavoro; la dialettica politica spesso degenerò in aperto scontro tra corporazioni. Per queste e altre ragioni, a partire dal Cinquecento, le organizzazioni iniziarono a declinare, e quando la Rivoluzioni francese le spazzò via, erano ormai ridotte a scatole vuote.
Nel 1856 Alexis de Tocqueville lamentava che dalle rovine di quella Rivoluzione e dalla fine delle Corporazioni era «nato un potere centrale immenso, che ha attratto e inghiottito nella sua unità tutte le parcelle d’autorità e di prestigio prima diffuse in una moltitudine di poteri secondari, di ordini, di classi, di professioni, di famiglie, di individui, e come sparpagliate in tutto il corpo sociale». L’intellettuale transalpino aveva un’invincibile nostalgia dell’Ancien Régime, ma metteva il dito su una piaga reale: l’eccesso di accentramento che tendeva a impoverire la vita sociale. Era il prezzo da pagare per l’ingresso nell’età industriale.

Oggi le parti sono invertite. La difesa a oltranza degli interessi particolari si ritorce contro i cittadini che non possono beneficiare per intero del progresso tecnologico. Se i liberalizzatori come l’eurocommissario Monti riusciranno a vincere la loro battaglia, col tempo i monopoli si attenueranno e, sulla loro scia, forse verranno riformati anche gli ordini professionali.
Impresa quanto mai difficoltosa. Attualmente, infatti, tutte le forze politiche italiane, di maggioranza e d’opposizione, sembrano essere espressione della stessa sindrome dell’incapacità dell’Italia di predisporre le condizioni per frenare il declino e per rilanciare lo sviluppo. Perché? Risponde Angelo Panebianco: gli uni vennero sconfitti perché, riusciti nell’impresa dell’euro, non realizzarono gli interventi strutturali che ne derivavano: non potevano tradire la fiducia delle corporazioni che componevano il loro blocco elettorale, dunque non potevano liberare da un eccesso di pressione fiscale quelle classi medie indipendenti che sono l’unico possibile motore, da noi e ovunque nel mondo, della crescita economica, né potevano generare risorse con riforme del sistema pubblico da investire nella ricerca scientifica e nell’istruzione, perché ciò avrebbe destabilizzato le corporazioni di cui erano i rappresentanti; gli altri vinsero perché sembrarono più convincenti come possibili riformatori, con promesse però fino a questo momento disattese, anche, ma non solo, per la congiuntura economica internazionale negativa, per l'11 settembre, per due guerre, per la crisi Fiat, per le tegole Parmalat, Cirio, Finmatica e altro ancora, per le quali non hanno alcuna colpa o responsabilità: anche se hanno fatto cose buone, dalla riforma del mercato del lavoro a quella della scuola, a dispetto della guerra scatenata dalle irriducibili corporazioni di riferimento e dei pochi soldi disponibili, resta l’incapacità di ridurre i vincoli (fiscali e burocratici) sempre sulle classi medie indipendenti che avevano dato loro fiducia.

La ragione principale di questa seconda delusione è nel fatto che si è sottovalutato lo stesso fenomeno del primo fallimento: gli uni e gli altri portavano dentro di sé interessi più favorevoli al mantenimento dello status quo e alla difesa delle corporazioni esistenti, che al suo superamento. E il sistema-Paese procede, più o meno vischiosamente, verso quel declino al quale sembriamo votati ormai da molti anni. Sapremo mai venirne fuori?

   
   
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