Marzo 2004

RISCHI DEL DENARO IMMATERIALE

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Scorciatoie finanziarie
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

Ma c’è anche di peggio: c’è l’uso della finanza come scorciatoia per
aggiustare bilanci, quando l’attività industriale
non riesce più
a sostenerli.

 

La finanza è nata e si è evoluta come supporto all’attività produttiva. E’ la funzione attraverso la quale il risparmio generato da chi non è in grado o non è interessato ad impiegarlo direttamente in un’attività produttiva viene indirizzato verso chi un’attività produttiva desidera svolgere, ma non ha il capitale necessario per avviarla o per incrementarla. Il fulcro della produzione di ricchezza era la produzione di beni e servizi: quello e null’altro era lo scopo dell’attività economica, perché quella e nient’altro era necessaria per accrescere il benessere materiale delle popolazioni.
Da alcuni anni, però, questo ordine logico è stato profondamente turbato, e, in numero crescente di casi, invertito. La globalizzazione ha trovato nell’attività finanziaria le manifestazioni più eclatanti e dirompenti, com’è logico che sia per il fatto che l’immaterialità della finanza e delle sue tecniche ben si presta ad avvalersi in tempo reale della possibilità di correre da un qualsiasi punto del globo a qualsiasi altro, attraverso la telefonia, prima, e ora attraverso le reti telematiche.
Su quanto invece postula trasferimento di beni fisici, come nelle attività commerciali, la globalizzazione ha agito più lentamente, e ancora più lentamente agisce sulla dislocazione degli impianti produttivi. Si sono dunque prodotti due ordini di conseguenze. Il primo è che l’attività finanziaria ha avuto una dilatazione epocale, per il fatto che la rapida moltiplicazione delle possibilità che ha offerto ha attratto verso di essa risorse e ingegni che prima si indirizzavano verso altre destinazioni: si pensi agli ultimi anni del decennio passato, quando anche le massaie (e sia detto senza alcuna offesa per loro) disquisivano sulla convenienza ad investire nel Nasdaq piuttosto che in Cina. La seconda, che almeno in parte è un corollario della prima, è che il rendimento delle attività finanziarie ha subìto anch’esso un salto, superando quello che normalmente può essere generato dalla produzione di beni e di servizi. Nella misura in cui prospetta rendimenti più elevati, il rendimento delle attività finanziarie è più rischioso, ma il corretto rapporto tra rischio e rendimento è stato alterato, riducendo il primo ed esaltando il secondo, proprio dall'epocale dilatazione dell’attività finanziaria che ha connotato gli anni recenti in tutto il mondo.

C'è poi un terzo ordine di conseguenze, che è la sintesi finale dei primi due, ed è che la finanza ha prevaricato la produzione di servizi e soprattutto di beni manifatturati, svilendola ad attività superata, faticosa, complessa, rigida, da lasciare dunque ai Paesi emergenti. Gli esempi ormai non si contano: quelli degli industriali che entrano nelle banche sono i più evidenti. Vi investono capitali che certo non possono essere destinati nello stesso tempo ad incrementare e a sviluppare la loro attività industriale; e così il sistema industriale deperisce, e si assottiglia sempre più in modo particolare la grande industria, vale a dire quella che ha la condizione necessaria, seppure non sufficiente, della dimensione per potersi misurare con un mercato globale.
Ma c’è anche di peggio: c’è l’uso della finanza come scorciatoia per aggiustare bilanci, quando l’attività industriale non riesce più a sostenerli. Il caso Parmalat sembra essere uno di questi: per sostenere una redditività che l’attività industriale non riusciva più ad esprimere, anziché investire risorse per accrescere l’efficienza degli stabilimenti, per conquistare nuovi mercati, per cercare nuovi prodotti – tutte soluzioni faticose e lente – sono state impiegate risorse per ottenere reddito da un’attività finanziaria (c’è da presumere) altamente speculativa, che può aver fruttato rapide e cospicue plusvalenze con la stessa facilità con la quale poi può aver fatto svanire centinaia di milioni, o miliardi di euro.
Quando la ferita è aperta, i prati dei vicini sembrano sempre più verdi: e allora forza a vedere quali norme vigono negli altri Paesi, in quelli anglosassoni soprattutto; e forza ad invocare nuove norme, a chiamare in causa la vigilanza della Banca d’Italia, come se vigilare sulle banche significasse dir loro a chi devono concedere il credito e a chi no, o addirittura ad interpretare i rischi che corrono i risparmiatori quando cercano rendimenti più elevati di quelli sui Buoni del Tesoro come un vulnus al dettato costituzionale sulla protezione del risparmio.
In materia, il nostro Paese ha una legislazione riformata nel decennio scorso, moderna, che possiamo considerare efficiente, se venisse applicata più di quanto lo sia. Comunque, il risultato è che da noi le crisi bancarie e finanziarie sono meno frequenti che altrove, il che non è poco. Tutto è perfettibile, certo. Ma rimane il dubbio che in ogni caso si stiano guardando gli alberi piuttosto che la foresta, e che ogni soluzione sia destinata a rimanere parziale fino a quando la finanza sarà lasciata libera di generare tentazioni più attraenti di quella della produzione di beni e di servizi; e fino a quando la cultura diffusa non si libererà della presunzione che la ricchezza finanziaria, quella di carta o stivata nei supporti magnetici di qualche data base, possa avere una propria consistenza senza rappresentare una florida ricchezza reale fatta di beni, servizi, brevetti, impianti, innovazione tecnologica, ricerca.

   
   
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