Marzo 2004

 

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Ritorni. Non ritorni
D.P.  
 
 

 

 

Un libro e una rivista settimanale riportano in primo piano vicende e tragedie della nostra emigrazione verso quel pozzo senza fondo che erano gli Stati Uniti d’America, raggiunti dalle “bare galleggianti” partite dai porti di Genova e di Napoli (quante inghiottite dalle tempeste atlantiche?) e approdate in un’isola-ingresso verso New York e gli States.
Il libro, intanto. Scritto tra il 1986 e il 1987, dato alle stampe probabilmente nel 1992, famoso anno delle celebrazioni colombiane, ma diffuso solo tre anni più tardi, “Astoria”, di Robert Viscusi, ha riscosso un grande favore di critica negli Usa non solo come esempio aggiornato di una classica forma di narrativa italo-americana grondante di ricordi immigratori, dallo sbarco ad Ellis Island, alle navi, all’antica povertà, ai nuovi lavori, alle comunità etniche e ai loro mille linguaggi, ma anche per la prospettiva colta e a tratti sofisticata con cui l’autore guarda ad Astoria, il quartiere del Queens dove Viscusi è nato, e alla storia di alcune generazioni di italiani trapiantati nel Nuovo Continente.
Il libro ha finito anche per proporsi come romanzo-saggio di forte e voluta contaminazione. Racconta, infatti, un complesso itinerario di rivisitazioni e illuminazioni che Viscusi ha modo di azzardare in una zona solo apparentemente “franca”, cioè Parigi, dove si è trasferito come “visiting professor” del Brooklyn College, e dove scopre una sua personale visione della “sindrome di Stendhal”, relativa, qui, all’irrisolto nodo dei processi di formazione identitaria generati dall’emigrazione o sorti a ridosso delle sue conseguenze, demografiche, mentali e culturali, in America.

Scelte stilistiche a parte, come i lunghi periodi che possono svilupparsi senza interpunzioni né soste d’alcun genere per più pagine, il testo si propone come autobiografia, ma anche come memoria collettiva di un’intera nazione che, «uscita dal Medioevo», avrebbe «dormito attraversando l’oceano», e si sarebbe poi risvegliata «a New York nel ventesimo secolo».
Vi è dichiarata la matrice decisamente filosofico-letteraria, con ampie concessioni a una sorta di lirismo in prosa, degli intendimenti e della scrittura di Viscusi. Il quale, del resto, pratica da anni la sperimentazione poetica e ha in mente sia l’Europa e la sua civiltà sia l’Italia contadina, ma anche colta, con tutti i loro retaggi. Luogo di emigrazione, perdita, esilio, naufragio, il quartiere etnico di Astoria è dunque «la forma fisica che assume la storia, il modellarsi di una realtà italiana in un ricordo inglese», dove l’italiano rimane la “lingua degli dei» e dove ritornano, dopo essersene ripartite, quasi tutte le circonvoluzioni cerebrali e la mole avvolgente delle citazioni eruditissime e raffinate che l’autore assembla, forte anche di ulteriori passaggi compiuti nella terra dei padri fra la provincia di Benevento e un Veneto “asolano”, in omaggio a Bembo e a Browning, ma colto anche nel momento della sua massima espansione industriale da piccola impresa.
La «gloria degli emigranti» sta «in ciò che essi fecero e che nessuno sa come menzionare». Si consuma e appaga infine il debito filiale di Viscusi nell’evidente ribollire di speranze e di voti tesi a salvare l’essenza di un passato fatto di sacrifici e di lavoro, ma anche di ricordi orgogliosi e umanissimi di tante persone che contribuirono a costruire negli Stati Uniti un futuro diventato poi il presente dell’autore e dei suoi connazionali.
La rivista, poi: “Gente d’Italia”. E la memoria ritrovata di una tragedia rimasta senza nome. Per trent’anni era tornata in miniera a scavare anche con le mani, alla ricerca del corpo del marito. Quando è morta, dietro casa sua hanno trovato una montagnola di carbone alta sei metri: non si era mai rassegnata, questa giovane donna rimasta vedova a Monongah, West Virginia, il 6 dicembre 1907, quando una fuga di gas aveva fatto saltare in aria una grossa miniera di carbone. I morti ufficiali erano stati 361, di cui 171 italiani. Era la più grande sciagura mineraria della storia, che vedeva coinvolti i nostri connazionali. Molto più grande di Marcinelle, in Belgio, dove nel 1956 morirono 136 minatori emigranti dalla Penisola. Una tragedia forse ancora maggiore di quella ufficialmente registrata negli annali del dolore: perché, secondo il settimanale degli italiani all’estero, “Gente d’Italia”, appunto, che ha ricostruito l’intera vicenda, in realtà i morti sarebbero stati 900, di cui almeno 500 italiani.
Morti in gran parte occultate? Approssimazione del drammatico elenco dovuta a scarsa conoscenza dei numeri reali? Una cosa e l’altra insieme. I nostri minatori non venivano pagati a giornata, ma in base alla quantità di carbone estratto. Quindi, ognuno si portava giù i figli maschi o anche degli amici, per cercare di guadagnare il più possibile. Per tutti questi anni sono rimasti sepolti in una striscia di terra di Monongah, senza neanche una croce. Ma di recente il settimanale degli italiani all’estero e i sindaci di 25 paesi del Sud, da dove provenivano gli emigrati, hanno finalmente depositato delle croci: 171 avranno un nome e un cognome; 329 formeranno un gran recinto, e ciascuna porterà incisa la frase: “Un emigrante del Sud d’Italia”.

   
   
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