Marzo 2004

L’INCHIESTA

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La nuova emigrazione
Daniele Puppo  
 
 

 

 

 

E'evidente che nel lungo periodo il Sud si depaupererà ulteriormente. Perde capitale umano,
che difficilmente
torna indietro.

 

I poveri hanno storie diverse, ma una geografia precisa. Nel Sud, ad esempio, a dover fare i conti con pochissimi soldi sono due famiglie su dieci, mentre al Nord è una su venti, e al Centro poco meno. Secondo una radiografia di chi vive al di sotto della cosiddetta “soglia della povertà” effettuata dall’Istat con la ricerca su La povertà e l’esclusione sociale nelle regioni italiane, sono complessivamente due milioni e 456 mila le famiglie alle prese con l’indigenza: sette milioni e 140 mila persone, pari al 12,4 per cento della popolazione italiana.
Si tratta della solita “media”. Scendendo nei dettagli, infatti, vediamo che la regione col minore numero di famiglie povere è la Lombardia, con appena il 3,7 per cento, seguita dal Veneto con il 3,9 per cento. Invece la Calabria, con il 29,8 per cento, è la regione con la percentuale più alta di povertà, prima della Basilicata (26,9 per cento), del Molise (26,2 per cento) e della Campania (23,5 per cento).
Al Nord, i valori più alti sono in Trentino (9,9 per cento), in Friuli (9,8 per cento) e nel Piemonte (7 per cento). Al Centro, sola differenza significativa è quella tra il Lazio (7,8 per cento) e le Marche (4,9 per cento).

Infine, nel Mezzogiorno, la migliore situazione è quella della Sardegna, che con il suo 17,1 per cento mostra una diffusione della povertà assai minore rispetto alla Campania, al Molise, alla Basilicata e alla Calabria. In ultima analisi: nel Sud l’intensità della povertà supera sempre il 22 per cento, ad esclusione della Puglia (20,2 per cento). Per capire e per capirci: è in piena soglia della povertà la famiglia che può spendere al massimo 500 euro al mese, poco meno di un milione delle vecchie lire.
Dati importanti, questi, perché a quarant’anni dai grandi flussi migratori, diretti allora verso il “triangolo” Torino-Milano-Genova, i meridionali hanno tirato fuori le valige e continuano a prendere i treni che li trasferiscono al Nord, questa volta verso un poligono che include le aree di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Bologna, Modena, Reggio Emilia.

La storia si ripete: i meridionali risalgono lo Stivale. Non solo uomini, ma anche donne (55 e 45 per cento, rispettivamente). I dati segnalano la ripresa del fenomeno a partire dal 1997, e da allora la crescita sembra inesorabile. Per quantificare la novità, si deve partire anche questa volta dai rilevamenti Istat sui cambi di residenza. L’ultimo è stupefacente: nel solo 2002, più di un milione e 200 mila italiani l’ha cambiata. Molti sono andati via dalle grandi città per abitare in campagna o nei piccoli comuni limitrofi, altri hanno lasciato i piccoli centri per i capoluoghi di provincia, ma il fenomeno più consistente è il trasferimento dalle regioni meridionali verso quelle del Nord e del Centro. La regione che subisce la maggiore emorragia è la Calabria, mentre l’Emilia-Romagna è l’approdo più attrattivo.
Quanti sono ogni anno i nuovi immigrati? I ricercatori della Svimez, depurando i dati sui cambi di residenza, sono arrivati a calcolare che nel 2000 ben 147 mila persone hanno abbandonato il Sud, trasferendosi al Nord. Non esistono ancora dati certi per gli anni successivi, ma alla Svimez sono convinti che il trend sia continuato e che si possano stimare in 180 mila i nuovi immigrati del 2002: come se un’intera città come Reggio Calabria o Foggia si svuotasse e si trasferisse nel giro di dodici mesi. Forse il fenomeno di per sé non è negativo, ma è evidente che nel lungo periodo il Sud si depaupererà ulteriormente. Perde capitale umano, che difficilmente torna indietro.

Ci si muove perché Modena, Bologna, Reggio, come le province più attrattive del Veneto, hanno tassi di disoccupazione bassissimi, tra i migliori del pianeta. Per avere un termine di paragone, è bene ricordare che il tasso medio di disoccupazione nelle regioni meridionali è mediamente del 18 per cento.
Chiariscono alla Svimez: «Nel Sud sono venute meno alcune reti di protezione statale, come i fondi statali e le politiche di intervento straordinario, e per di più nelle grandi città meridionali il costo della vita è salito, mentre la qualità dei servizi è rimasta scadente.
L’11 per cento dei nuovi emigranti meridionali, secondo le elaborazioni della Svimez, è laureato; il 37 per cento è diplomato; oltre la metà (52 per cento) porta con sé al massimo una licenza media o elementare. Che lavoro vanno a svolgere? Una larga fetta va a finire nel terziario, diventando infermiere, addetto alla ristorazione collettiva, impiegato nelle piccole e medie imprese, agente fieristico. A Reggio Emilia i conducenti di autobus sono quasi tutti meridionali, per lo più campani. Nel Veneto i meridionali un giorno facevano gli insegnanti e gli impiegati dello Stato, mentre oggi forniscono quadri intermedi alle piccole e medie imprese.
Ma c’è una sorpresa: nelle province lombarde i nuovi emigranti vanno a fare il lavoro di coloro che li avevano preceduti quarant’anni fa, vanno nelle fabbriche. A Bergamo e a Brescia gli immigrati dal Sud diventati tute blu superano in numero gli extracomunitari. Sopravvivono, infine, tutti i problemi di socializzazione, cioè di integrazione con gli indigeni (lungo i corsi, la domenica i meridionali passeggiano di qua, gli autoctoni di là), e quelli connessi al costo delle case in affitto. Frazionando gli appartamenti e affittando posti-letto, i proprietari di appartamenti massimizzano gli incassi, che spesso sono in nero.

Dalle province con più alta disoccupazione (Reggio Calabria, 29 per cento; Vibo Valentia, 27; Napoli, 24,7; Palermo, 23,4; Caltanissetta, 22,6; Agrigento, 22,4; Catanzaro, 22,3; Catania, 22,1; Cagliari, 21,9) sopraggiunge la nuova massa di immigrati, età media tra i 24 e i 30 anni, la meglio gioventù, con un’antologia di odissee che ricorda fin troppo da vicino quelle degli anni Cinquanta-Sessanta: valige sempre pronte, per trasferirsi da una città all’altra, secondo le offerte di lavoro; inenarrabili solitudini e persistenti discriminazioni; tentativi di dialogo, come quello – tutt’altro che facile – organizzato con incontri bilaterali con le istituzioni di Modena e di Vibo Valentia, quasi si trattasse dell’associazione d’amicizia Italia-Cuba; difficoltà di realizzare, e comunque di frequentare, punti d’incontro, centri comuni, di carattere dopolavoristici e persino culturali; non osmosi, ma muri di diffidenza, e nel migliore dei casi, di indifferenza tra le diverse antropologie, che invece dovrebbero essere emblematiche di una ricchezza e di una riflessione creativa di ben altra caratura e profondità.

   
   
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