Marzo 2004

EUROPA E IMMIGRAZIONE

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Ingressi, ma per quote
M. De.  
 
 

 

 

 

Venire a patti con l’immigrazione è
del resto necessario,
viste sia la forte
pressione
di popolazioni estere prive di ogni
prospettiva
sia la tendenza
riduttiva della
demografia italiana.

 

Oltre ad ostacolare i collegamenti marittimi con Lampedusa e Pantelleria, le grandi mareggiate invernali hanno impedito lo sbarco sulle coste italiane di nuove ondate di immigrati clandestini. Il problema dell’immigrazione, però, non se ne è andato così facilmente e purtroppo continua ad essere largamente affrontato sul filo dell'emergenza, o al massimo con orizzonti di breve periodo in maniera emotiva e approssimativa: per alcuni, come il ministro Bossi, gli immigrati sono dei “bingo-bongo” da escludere da ogni sussidio relativo al possesso della casa che deve essere rigidamente riservato agli indigeni, mentre per altri, come numerose organizzazioni cristiane di volontariato, coloro che sbarcano sulle nostre coste sono dei fratelli da aiutare perché hanno molto sofferto e per i quali non si fa mai abbastanza.
Riportare il discorso su un piano razionale, illuminato dalle statistiche, lontano dal frastuono della politica del giorno per giorno, appare indispensabile per passare da posizioni di principio a politiche concrete di lungo periodo relative a un aspetto che, in ogni caso, segnerà profondamente il futuro e l'identità stessa dell'Italia. Una tappa importante su lungo percorso è stata rappresentata dal convegno sull’incidenza economica dell’immigrazione, svoltosi a Firenze su iniziativa della Fondazione Cesifin Alberto Predieri, con il coordinamento di Massimo Livi Bacci, uno dei maggiori demografi italiani. Per due giorni, cultori di vari tipi di discipline umane – accanto ai demografi vi hanno partecipato economisti, sociologi, statistici, politologi – si sono confrontati con un problema che, proprio perché complesso e sfaccettato, non può esaurirsi nelle conoscenze specialistiche.
Si sono così sfatati alcuni luoghi comuni piuttosto diffusi nell’opinione pubblica. Il principale è che l’Italia rappresenti un caso particolare, il punto di arrivo di flussi di immigrazione particolarmente intensi: gli immigrati regolari sono circa un milione e mezzo, al quale bisogna aggiungere – secondo le stime della Caritas – un altro milione di persone in attesa di regolarizzazione. Due milioni e mezzo di persone, quindi, meno del 5 per cento della popolazione, contro il 7-8 per cento del resto dell’Europa ricca, un totale all’incirca uguale a quello della Spagna, Paese che conta circa un terzo di abitanti in meno dell’Italia; per non parlare degli Stati Uniti, con 35 milioni di immigrati, quattordici volte più dell’Italia, con una popolazione solo sei volte superiore.

La nostra esperienza di immigrazione non si discosta quindi da quelle analoghe degli altri Paesi ricchi e non abbiamo dunque scuse nell’affrontarla senza tener conto delle esperienze altrui. Al contrario, estendiamo spesso all’immigrazione alcune nostre pessime usanze: il “caporalato”, ossia l’assunzione irregolare, a giornata e per brevi periodi, da parte di un intermediario (il “caporale”, appunto), che un tempo riguardava i braccianti agricoli italiani, riguarda ora prevalentemente gli stranieri e si è esteso anche all’edilizia, come alcune recenti sciagure sul lavoro hanno posto in luce.
La spinta a vivere l’immigrazione come un fatto “normale” viene anche dall’opinione pubblica e si sfata così un secondo luogo comune. Secondo i sondaggi compiuti dall’Istituto di Ricerche sulla Popolazione, più della metà degli italiani dà dell’immigrazione un giudizio cautamente positivo, con molti distinguo e qualche contraddizione. L’82 per cento degli intervistati dichiara che vicini di casa arabi non rappresenterebbero un problema, mentre nel 1987-1988 si era espresso così soltanto il 64,3 per cento; e più del 70 per cento degli intervistati non vede niente di male nel fatto che i propri figli abbiano amici albanesi (la percentuale scende al 53,1 per cento se l’amicizia si trasforma in fidanzamento). Rimane però forte la sensazione, diffusa soprattutto tra gli italiani di livello di istruzione basso, che gli stranieri siano “troppi” e la paura che alimentino criminalità e terrorismo.
Il venire a patti con l’immigrazione è del resto necessario, viste sia la forte pressione di popolazioni estere prive di ogni prospettiva di vita decente – e quindi disposte a tutto pur di conquistare qualche chance in Occidente – sia la tendenza fortemente riduttiva della demografia italiana. Secondo la rivista dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il modello demografico dell’Italia settentrionale è già basato su “migrazioni di rimpiazzo”. Il che significa che degli immigrati già oggi proprio non si può fare a meno, per i lavori più faticosi e più umili, e che sussiste il rischio di una segmentazione invece di un’integrazione; e per evitare la prospettiva di comunità chiuse e divise che non si parlano e diventano potenzialmente antagoniste, il ruolo di una scuola pubblica interetnica, oltre che interclassista, appare essenziale.
Quanto costa questa scuola, quanto costano gli altri servizi di cui godono gli immigrati? Questo interrogativo introduce il problema-chiave di valutare l’effetto delle migrazioni sulla finanza pubblica e sul sistema previdenziale. Dalle relazioni presentate al Convegno si ricava che, dopo un certo numero di anni di risultati incerti, l’immigrato regolare presenta caratteristiche fiscali simili a quelle del lavoratore italiano, ossia versa un contributo all’erario al netto dei servizi di cui usufruisce, mentre l’immigrato clandestino costituisce un onere netto per la finanza pubblica (non versa contributi e fruisce, sia pure in quantità limitata, di servizi sociali).

Per quanto riguarda il sistema previdenziale, il contributo dell’immigrazione (ovviamente solo di quella regolare) è positivo ma non decisivo; non si può, in altre parole, pensare di evitare una riforma delle pensioni solo accogliendo un maggior numero di immigrati.
Sulla base di questi risultati, è possibile, e sta rapidamente diventando necessario, impostare una politica dell’immigrazione, nella quale la dimensione unicamente nazionale appare superata in favore di un metodo integrato che comporti coerenze e coordinamento dal livello europeo a quello regionale, mentre oggi molte disposizioni sono contraddittorie. Al contrasto all’immigrazione illegale, un’area in cui l’Europa si è avviata a un’azione comune, appare ragionevole accompagnare politiche convergenti sulla concessione dell’asilo e sull’ammissione non più a singoli Paesi, ma all’intera area europea, con quote di immigrazione annuale stabilite almeno per i Paesi aderenti all’accordo di Shengen, entro i quali le persone si muovono liberamente.
Una dimensione speciale di queste politiche è quella della cittadinanza, che ci fa riflettere su un problema essenziale, un interrogativo che supera la dimensione economica e riguarda tanto gli immigrati che gli “indigeni”: dove vogliamo collocare la nostra identità e come vogliamo configurarla? Che tipo di cittadinanza vogliamo costruire in Italia e in Europa? Che cosa devono avere in comune i cittadini e anche solo i residenti stabili di un certo territorio? Politici ed elettori dovrebbero riflettere su domande di questo tipo per costruire con pazienza una risposta accettabile.

   
   
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