Marzo 2004

GRANDANGOLO

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L'Europa che verrà
Ilaria Zaffino  
 
 

 

 

 

Dopo le memorie amare dei Paesi mitteleuropei, Bruxelles, per le
nazioni che stanno per approdarvi,
rappresenta un grande traguardo, una conquista.

 

Chi pensa che farà più soldi. Chi vuole dimenticare il comunismo. Chi vede la TV e sogna l’Occidente. Sono i tanti volti dell’Europa che verrà. Il primo maggio 2004 segna la fine di un’epoca. L’Unione apre le porte a dieci nuovi inquilini. Tutti Paesi con storie, cultura e tradizioni assai diverse dagli attuali membri dell’Ue, che in un modo o nell’altro sono stati legati al blocco sovietico, quindi nemici dell’Europa filo-atlantica. Ma ora, a distanza di quindici anni dal crollo del Muro di Berlino, quei tempi sono ormai lontani. Rispetto allo squallore e alla penuria in cui furono immerse per oltre quattro decenni di comunismo, le loro capitali – Budapest, Praga, Varsavia, tanto per fare qualche nome – sono irriconoscibili, assai più vicine alle città occidentali. Realtà metropolitane già competitive, con un’elevata diffusione dell’alfabetizzazione e un’edilizia di qualità.
Certo, a ben guardare, le disparità soprattutto economiche con i Quindici sono ancora abissali. E altre ve ne sono di natura sociale e culturale. Ma i Dieci, candidati ad entrare nella Ue già da un decennio, sono stati considerati dalla Commissione europea, a fine novembre, ormai pronti. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia. E poi, ancora, la Polonia che, pur non essendo dentro a tutti gli effetti, già fa sentire la propria voce e punta i piedi sul sistema di voto in Consiglio, per non perdere quei vantaggi tanto faticosamente strappati a Nizza, facendo così fallire il progetto di Costituzione europea. Le tre repubbliche baltiche, che hanno raggiunto l’indipendenza dall’Unione Sovietica solo nel ‘91, l’isola di Cipro, ancora divisa in due, e infine la piccola Malta. Hanno tutti raggiunto le condizioni politiche ed economiche necessarie, i famosi criteri di Copenaghen: solida democrazia, rispetto dei diritti umani e delle minoranze etniche, economia di mercato. Oltre naturalmente ad essere disposti ad adottare le norme del diritto comunitario. Lo stesso non vale per Romania e Bulgaria, che rimarranno fuori sino al 2007. Mentre la Turchia dovrà attendere nel corso di quest’anno il responso definitivo.

Se, infatti, il processo di preparazione della Bulgaria risulta nettamente migliore rispetto a quello della Romania, ma entrambe non avranno problemi a mostrarsi pronte per il 2007, la Commissione, pur lodando i progressi fatti da Ankara, non considera però la Turchia ancora in grado di garantire i diritti politici, civili, economici e socio-culturali indispensabili per aderire all’Ue. Singole debolezze rimangono, è vero, anche all’interno dei dieci futuri membri. Nessuna comunque tale da ostacolarne l’ingresso. Come dimostra l’entrata di Cipro, anche senza che sia stata raggiunta una soluzione sulla divisione dell’isola.
E se i Dieci resteranno comunque fuori dall’euro e dal trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone per almeno altri cinque anni, non mancano dubbi e perplessità sulla difesa comune. Sin dalla guerra in Iraq è apparso chiaro che i futuri membri sono profondamente filo-atlantici, anche se i sentimenti pro-Nato nell’Europa ex comunista non sono radicati in modo omogeneo. Come dimostra l’atteggiamento tenuto sempre riguardo all’Iraq. Mentre Repubblica Ceca e Ungheria hanno continuato, infatti, a sottolineare l’importanza del mandato Onu e si sono astenute dal partecipare ad operazioni di guerra, la sola Polonia – tra l’altro l’unico Paese che conterà come uno Stato di media grandezza in seno all'Ue, gli altri sono considerevolmente più piccoli – ha in effetti inviato truppe sul campo. E nessuno dei Dieci ha pienamente abbracciato l’idea di una più stretta collaborazione per la difesa, come proposto da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo.

Ma come vedono i nuovi Stati membri il futuro della Ue? Di certo, accanto a un sospetto di usurpazione da parte di Bruxelles, provano un’intensa avversione per quella che viene chiamata l’Europa a due velocità o a geometria variabile. I sacrifici e i cambiamenti che sono stati loro imposti per diventare degni di far parte del progetto europeo hanno, infatti, reso i nuovi acuti osservatori dei fallimenti a cui gli attuali membri sono andati incontro. La difficoltà dei grandi nell’applicare le regole del patto di stabilità, vedere la Francia trattare con disprezzo quelle stesse regole, la sospensione del patto, poi, nei confronti di Parigi e di Berlino, non fanno che accrescere in loro la preoccupazione di diventare membri di seconda classe del club europeo.

I dieci Paesi dell’Est che stanno per entrare saranno anche – come borbottano infastiditi alcuni vecchi inquilini di Bruxelles, soprattutto francesi – un po’ troppo filoamericani, proprio mentre pongono il piede sulla soglia tanto anelata dell’Unione. E’ vero. Ma come dargli torto?
A pochi giorni dall’ingresso dei nuovi convivranno, allora, all’interno dell’Unione due gruppi di Paesi. Uno meno Pentagono-dipendente, deciso anzi a sviluppare progetti propri, finora piuttosto confusi, di difesa europea che ruota intorno alla Francia e alla Germania. L’altro che si fida invece soltanto del sostegno militare americano. Certo, a parole, anche i Paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica si dicono convinti e si mostrano disposti ad esaminare il progetto di un sistema di difesa europea. Ma nei fatti la loro sicurezza intendono affidarla solo alla Nato. Una Nato per così dire storica, con le redini strette in mano a Washington.
Per capire i motivi per cui i Paesi dell’Est si mostrano ancora così tanto sensibili in tema di sicurezza basta ripercorrere con la memoria la storia del Novecento. Tra gli europei occidentali e quelli dell’Est c’è una differenza da non sottovalutare. Per i primi la guerra è finita quasi sessant’anni fa. Le cause che la provocarono e le conseguenze che ne derivarono sono ricordi lontani, indolori, sbiaditi nel tempo. Per l’Europa dell’Est gli effetti del secondo conflitto mondiale sono durati fino all’89. Il comunismo e l’assoggettamento alla Russia sono memorie recenti, che ancora pesano. Di qui la diversa sensibilità in tema di sicurezza. Di qui il loro guardare all’America come a una certezza.
Inoltre, la storia dei piccoli Paesi mitteleuropei è intessuta di memorie amare. Arroganze francesi, occupazione tedesca, sino ad arrivare ai quarant’anni di regime comunista. Naturalmente Bruxelles, per le nazioni che stanno per approdarvi, rappresenta un grande traguardo, una conquista. «Un salvagente e, se non lo afferriamo, affonderemo nella nostra storia», afferma l’ex presidente dell’Ungheria post comunista, Árpád Gönez. E l’integrazione economica nell’Unione è una garanzia di sviluppo. Ma la loro storia nel corso del Novecento, le frontiere continuamente ritoccate, i confini incerti, spingono questi Paesi a preoccuparsi del problema della difesa.
Come diversa è la percezione che hanno della stessa Russia: non tanto una potenza da coinvolgere nelle politiche dell’Occidente, un possibile partner, quanto un vicino che un giorno potrebbe tornare a farsi minaccioso. Senza contare, poi, che anche i negoziati per entrare nella Ue per molti di questi Paesi non sono stati certo rose e fiori. «Sono gli europei che ci hanno insegnato a negoziare in modo duro – ammettono i polacchi – adesso saremo noi a non fare complimenti». E ancor prima di entrare fanno muro e non sono disposti a barattare il loro voto ponderato, che pesa quasi quanto quello dei quattro grandi, con il sistema della doppia maggioranza.

Ma i polacchi non sono certo i soli. Quale più, quale meno, questi Paesi ex comunisti, oggi accusati di essere filoamericani, non vogliono più restare ai margini entro cui li aveva costretti la storia del Novecento. Non ci stanno ad essere un’Europa di serie B.
Se l’allargamento senza precedenti – gli altri in passato erano stati di dimensioni ben più ridotte – continua a destare perplessità e inquietudini, è pur vero che l’immenso mercato che ne deriva moltiplicherà le opportunità economiche, dando impulso agli investimenti e aumentando il volume degli scambi e i posti di lavoro. I consumatori beneficeranno, allora, di una maggiore scelta di prodotti a prezzi inferiori. In questo modo viene consolidato il processo politico ed economico che sta avendo luogo nell’Europa centrale e orientale a partire dal 1989. L’allargamento, infatti, non è altro che il naturale coronamento dello scopo originale dell’Ue: abbattere le divisioni e garantire la pace nel continente. Ma saranno in grado le istituzioni, se non adeguatamente rafforzate e rese autenticamente democratiche, di sostenere l’impatto di un centinaio di milioni di nuovi cittadini che vedono l’Europa come un grande salvadanaio al quale attingere? In questo senso, i giusti reclami nei confronti delle alte gerarchie europee che non sembrano essere state capaci di spiegare l’allargamento ai cittadini colgono nel segno.
Secondo un sondaggio di Eurobarometro, infatti, il 50 per cento dei cittadini comunitari non conosce il nome dei nuovi Stati membri. Mentre oltre il 66 per cento non ne ha mai visitato uno. E la massiccia immigrazione è uno degli aspetti più temuti dell’allargamento. Senza dimenticare l’effetto dirompente che l’ingresso dei nuovi Dieci economicamente più deboli, e perciò bisognosi degli aiuti europei, avrà sulla politica regionale.
Con le regioni italiane, in particolare il Mezzogiorno, insieme al sud d’Europa, che perderanno gran parte dei fondi comunitari a loro destinati in favore dei nuovi. E, ancora, da maggio in poi avremo un’Europa sicuramente più grande, ma anche più agricola. Dal momento che l’agricoltura continua ad avere un ruolo rilevante in quasi tutti i futuri Stati membri ed è concentrata su alcune produzioni dove fortissima è la concorrenza con numerosi Paesi dell’Ue. Diverse, poi, sono le condizioni del mercato del lavoro non solo tra le “matricole” e gli Stati veterani. Ma anche tra gli stessi nuovi arrivati. Se a Cipro è occupato il 68,5 per cento della popolazione, in Polonia la quota scende al 51,7 per cento. E differenze analoghe si riscontrano nel tasso di disoccupazione, che in Polonia raggiunge il 19,9 per cento. Una situazione aggravata dal peso demografico del Paese, il più popoloso dei dieci. Diversi, infine, i rischi in materia di sicurezza e salute sul lavoro.

La sfida per la nuova, grande Europa consiste, allora, nel cercare di colmare il divario ancora esistente. E se per qualcuno, come ha sottolineato Gianfranco Fini all’indomani del fallimento della Costituzione, l’Europa allargata «parte zoppa», diversa sembra essere la linea di Ciampi: «I nuovi Paesi sono accolti a braccia aperte. Il processo di integrazione è inarrestabile. La locomotiva non può rallentare o rischiare di fermarsi perché il treno è diventato più lungo». Collaudato sul campo dal braccio di ferro sul sistema di voto, l’asse Spagna-Polonia è infine la vera novità degli equilibri europei. La partita che si gioca ora è sul governo dell’Europa a 25. Dove Varsavia, insieme a Madrid, potrebbe fare da calamita per molti Paesi minori con l’obiettivo di contrastare lo strapotere franco-tedesco.

   
   
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