Marzo 2004

ORIENTE E MERCATO GLOBALE

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Paura della Cina?
Robert Mundell Premio Nobel per l'Economia
 
 

 

 

C'è chi profetizza una nostra
rassegnazione
al predominio
della Cina
sull’economia
globale: mi si lasci dire che il pericolo
cinese è abbastanza sopravvalutato.

 

Alzare barriere protezionistiche nei confronti dei prodotti cinesi sarebbe un grave errore. In risposta, Pechino potrebbe bloccare gli investimenti delle aziende europee, che proprio su questo terreno possono far fronte alle sfide poste dalla crescita cinese.
Il favore che i cinesi hanno per i prodotti italiani è evidente, e gli incontri intergovernativi hanno chiarito che il governo di Pechino ha intenzione di continuare ad avere ottimi rapporti con il vostro Paese. Certo, ci sono alcuni settori in cui per l’Italia competere sarà molto difficile, come quello del design, su cui tuttavia è possibile studiare dei rimedi. E’ difficile pensare a una tariffa aggiunta sui prodotti cinesi che non suoni discriminatoria. E’ concepibile invece un sistema di quote simili a quelle applicate sui prodotti giapponesi. Ma con prudenza: qualsiasi azione diretta nei confronti della Cina verrebbe interpretata da quel grande Paese come un'offesa.

Se negli Stati Uniti oggi si parla di dazi, è solo perché siamo in periodo elettorale. Ecco perché i democratici hanno proposto una tassa del 27 per cento sui beni cinesi se non verrà rivalutato lo yuan rispetto al dollaro. Si tratta di un falso problema. La questione non è la parità col dollaro, ma il surplus commerciale, che nei confronti degli Stati uniti è pari a circa 120 miliardi di dollari. Fenomeno che a sua volta deriva soprattutto dal costo del lavoro: in Cina è pari a un ventesimo di quello europeo.

La strada non è sicuramente quella di una rivalutazione dello yuan. Basta fare i calcoli. Anche se il valore della moneta cinese aumentasse del 40 per cento nei confronti del dollaro, i salari non farebbero altro che salire a 90 centesimi l’ora. Il problema della competizione rimarrebbe lo stesso. In compenso, però, gli effetti sull’economia cinese sarebbero devastanti. Gli investimenti stranieri si dimezzerebbero. L’effetto deflattivo si estenderebbe ai prodotti agricoli, i cui prezzi crollerebbero, rendendo le parti più povere del Paese ancora più povere. E il tasso di crescita della Cina passerebbe dall’8 a meno 5 per cento.
Allora, come affrontare la questione? Tanto per cominciare, con il rispetto degli standard imposti dalla World Trade Organization (Wto): i cinesi stanno cercando di farlo. Ci sono poi tre altre contromisure prese dal governo di Pechino, che prima di tutto ha deciso di fare grandi investimenti in prodotti americani. In secondo luogo, è stato permesso alle aziende presenti in Cina, anche quelle private, di esportare e investire all’estero, con un tetto di due milioni di dollari. Infine, è in atto un’espansione del credito che aiuterà le esportazioni verso la Cina.
Saranno sufficienti queste contromisure? A Pechino, dove il problema è molto sentito, si parla anche di altro. Di autocontrollo volontario sulle esportazioni sul modello giapponese, per esempio. Oppure di una tassa sulle esportazioni, che avrebbe l’effetto di alzare il prezzo dei prodotti cinesi, e di diminuirne la quantità: il mio consiglio ai cinesi è di attuare una manovra del genere soltanto dopo essersi consultati con gli europei e con gli americani. Il problema è che si tratta di misure più facilmente applicabili alle grandi imprese che non a quelle piccole. E, come ogni metodo protezionistico, anche questo non può essere di lunga durata.
C’è chi profetizza una nostra rassegna pericolo cinese è abbastanza sopravvalutato: molti dei problemi di cui si parla, come quello della disoccupazione, esistevano anche prima che la Cina divenisse protagonista dell’economia globale. Ricordiamoci che stiamo parlando di un Paese il cui reddito medio pro-capite è di circa 1.200 dollari l’anno, considerato sotto la soglia della povertà in Europa. E che ha un prodotto interno lordo che è pari a un decimo di quello americano. E’ vero che le esportazioni cinesi hanno avuto una crescita impetuosa: erano ben sotto l’uno per cento delle esportazioni globali, adesso sono al sei per cento, e raggiungeranno il 10 per cento entro i prossimi vent’anni. Non prima. Ma nel frattempo il contributo della Cina alla crescita globale sarà stato enorme, come si vede già ora.

Prendiamo gli ultimi due anni di crisi. Mentre le importazioni dei Paesi del G7 calavano, quelle cinesi aumentavano fino a 70 miliardi di dollari, una cifra enorme. Il mercato cinese sta aiutando la ripresa dell’Occidente e anche quella dell'Asia.
C’è chi ritiene probabile che questi contributi positivi possano essere annullati dagli effetti della competizione. Ebbene: se parliamo dell’Italia, non credo che questo Paese risentirà più di altri dell’effetto Cina, anche se il problema è certamente più acuto per i prodotti del design. In questi settori, l’unica risposta possibile è mantenere alta la qualità.
Ma è inutile nascondere che non sarà facile, basti pensare all’effetto che le aziende giapponesi hanno avuto sul mercato americano dell’auto. All’inizio, l’autoregolamentazione delle esportazioni funzionò, ma in seguito portò i giapponesi a spostarsi sui segmenti più alti del mercato, in cui divennero estremamente competitivi. Non sarà proprio facile, insomma.
Per quel che riguarda più in particolare la situazione interna italiana: credo che i prezzi italiani non siano aumentati per effetto diretto dell’introduzione dell’euro, ma perché erano più bassi rispetto al resto dell’Europa.
Come previsto, l’euro ha equalizzato i prezzi, che sono saliti in particolare per tutti i beni che l’Italia esporta, per esempio ortaggi, frutta e verdura. Che però sono anche quelli che influiscono di più sulla percezione della gente.
Infine, per l’economia europea: si riprende più lentamente di quella americana, dove nel corso di quest’anno è possibile una crescita del 4 per cento. Possibile, non sicura: bisogna che i consumi sostengano la ripresa di Wall Street, dove la bolla speculativa è di nuovo gonfia. Se non lo fanno, la ripresa sarà più lenta del previsto. Se invece lo fanno, anche l’Europa seguirà la locomotiva americana, con una ripresa entro la primavera.

   
   
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