Marzo 2004

RETROSPETTIVE: 2003 E DINTORNI

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Annus horribilis?
Dominique Lamy  
 
 

 

 

 

 

Come, una volta,
la superiore
civiltà, così la
democrazia sembra oggi diventare un prodotto per la cui esportazione
si può invadere un qualunque Paese.

 

Se, per quanto riguarda le istituzioni interne, il 2004 dovrà fare i conti con una serie di riforme strutturali e costituzionali che dovranno bene o male rimettere il nostro Paese al passo con i tempi e soprattutto con l’Unione europea, a livello internazionale si dovrà intervenire con lucidità per correggere una serie di devianze a causa delle quali sono stati stravolti comportamenti, relazioni e istituzioni che attenevano allo sviluppo della democrazia e al rispetto dei diritti umani.
Qualche tempo fa, la regina del Regno Unito inventò l’espressione “annus horribilis” per deplorare i comportamenti di alcuni membri della propria famiglia, in particolare di qualcuna delle proprie nuore. Il 2003 è stato “horribilis” non per le vicende e i gossip che all’epoca scossero la casa regnante britannica, ma perché i Paesi più prosperi e potenti hanno fatto del loro meglio per sconquassare gli istituti sui quali si era contato di più per edificare la pace e la cooperazione internazionale, dopo due terribili guerre. Non si era mai verificato che ciò avvenisse ad opera di governi democraticamente eletti.

Fatti salienti del 2003: rottura dell’Onu, a New York, sulla questione dell’intervento in Iraq, per abbattere il regime di Saddam Hussein; rottura, a Cancun, dei negoziati sulla riforma del commercio internazionale; rottura, a Bruxelles, della conferenza sulla Costituzione europea, dopo serrati e tutt’altro che mediocri confronti e dibattiti sui princìpi e sui contenuti della nostra futura Magna Charta; lacerazioni dei diversi e per tanti aspetti inconciliabili piani di pace per lo scacchiere mediorientale; continue violazioni della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra (in Afghanistan, in Iraq, a Guantanamo, in Indonesia, ecc.) e dei diritti umani (a Cuba, in Cina, in Corea del Nord, in Turchia, in Iran, ecc.). E poco prima: abbandono del trattato di non proliferazione nucleare; revoca della firma posta al protocollo di Kyoto sull’effetto serra.

La sopravvivenza della vita sul nostro pianeta, il rigoroso controllo di armi capaci di distruggere il mondo, la convivenza e l’incontro tra religioni e culture, l’esportazione di prodotti della terra e del lavoro umano per lenire la povertà estrema, il rispetto della dignità del nemico in guerra, la disponibilità di farmaci a basso costo per debellare o limitare le stragi prodotte da gravi malattie soprattutto nei Paesi dei cosiddetti Terzo e Quarto Mondo, la ricerca di una forma politica per il Vecchio Continente non sono lussi riservati a chi abbia soddisfatto i bisogni domestici. Sono, per quasi ogni uomo sulla Terra, condizione vitale di sicurezza e di giustizia, oltre che fonte primaria della speranza o dell’angoscia.
Nel 1914 fu sufficiente una settimana dal 28 luglio al 4 agosto – perché all’attentato di un terrorista seguissero una guerra e una “inutile strage” che durarono ben cinque anni, annientarono otto milioni di soldati e produssero in seguito dittature, nuove guerre e nuovi stermini, ancora di maggiore portata.

Il 2003 non ha colto di sorpresa chi sapeva da tempo quanto fosse esile l’edificio che era stato eretto subito dopo il 1945; è soltanto accaduto ciò che da anni si temeva e che da altrettanti anni si ammoniva ad evitare. Ma quel che maggiormente inquieta, e sembra preludere a rovesci più gravi, è l’ottusa soddisfazione con cui i fatti avvenuti sono stati salutati da alcuni dei potenti che li hanno causati; e inquieta l’elogio di intellettuali e osservatori che, in nome del realismo, vi hanno visto la meritata sconfitta di chi aveva creduto e tuttora crede possibile un mondo di pace.

Preoccupa, soprattutto, il rapporto tra quanto sta accadendo e l’istituto della democrazia. Come, una volta, la vera religione o la superiore civiltà, così la democrazia sembra oggi diventare un prodotto per la cui esportazione si può invadere un qualunque Paese; sembra autorizzare la pratica ad annettere territori conquistati in una “guerra difensiva”. Non solo fatica a impedire questi sviluppi, ma è addirittura invocata per legittimarli e per negarne la nefandezza. Accade oggi in Iraq, Paese lontanissimo dagli Stati Uniti, ma era accaduto ieri col Vietnam invasore di Stati confinanti; e con giustificazioni diverse accade ancora in aree “di disturbo” – come sono eufemisticamente definite le zone di scontro pressoché permanente – negli scacchieri strategici (ad esempio, il Kashmir o la Cecenia) o in quelli con forti connotazioni religiose (Indonesia, ecc.) o tribali (Stati africani, in particolare).
Chiusa nel recinto troppo angusto dei singoli Stati, la democrazia sembra ergersi a fredda ragione per rifiutare la cooperazione e le istituzioni internazionali. Nata come antidoto all’utopia di un governo fattore del “bene supremo”, e perciò assolutista e oppressore, rischia attualmente di divenire essa stessa utopia, assolutismo, oppressione. Cittadini di Paesi democratici, europei, americani, mediorientali, asiatici, si chiedono con qualche perplessità e con una certa dose di sgomento dove potrà condurre la deriva in corso. Essi devono sapere che la speranza in un futuro migliore è affidata, certamente, a chi li governa, ma anche alla loro capacità di tradurre in azione politica la loro coscienza di essere cittadini del mondo. A loro è affidato, in ultima istanza, il compito di far cessare la demolizione, di riprendere la costruzione, di consolidare la democrazia. Tre condizioni, queste, dalle quali dipenderà il futuro nostro e dei nostri figli.

   
   
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