Marzo 2004

PROSPETTIVE USA

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Un buon futuro
Kenneth Arrow Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

Perché
gli Stati Uniti
non devono
sperimentare
una versione
annacquata della crisi valutaria che, ad esempio,
ha colpito
l’Indonesia?

 

La ripresa americana è stata alimentata da una politica fiscale e monetaria molto espansiva. I tagli delle tasse voluti dal Presidente hanno fatto certamente lievitare il deficit pubblico, ma la politica monetaria di Alan Greenspan e della Federal Reserve ha tenuto bassi i tassi di interesse. Una scelta giusta di politica economica, dato il livello di capacità produttiva inutilizzata dell’economia statunitense. Per il momento non c’è alcun motivo di preoccuparsi del futuro, nella speranza che la spesa in conto capitale delle aziende si stia riprendendo, come sembra.

Non c’è dubbio che i tassi di interesse prima o poi dovranno salire. La questione è quando. Personalmente, non faccio previsioni di medio e lungo periodo, dopo tutto non le fa neanche il Governatore della Federal Reserve. In questi quindici anni Greenspan ha imparato a basare le sue scelte di politica monetaria su previsioni di breve periodo, e devo dire che la strategia ha avuto grande successo.
Ci si chiede se gli alti deficit pubblici possano finire per causare un “crowding out” del risparmio privato e possano frenare, di conseguenza, lo sviluppo. Ma anche Keynes ha affermato che non c’è “crowding out” quando le risorse di un’economia non sono sfruttate nella loro interezza. Quello che mi preoccupa piuttosto sono le implicazioni dei tagli fiscali sulla crescita futura. Avrei preferito vedere aumenti nelle spese, ad esempio più sussidi alla disoccupazione, anziché una manovra fiscale che favorisce soltanto i redditi più alti; oppure maggiori trasferimenti ai singoli Stati. Se i deficit saranno ancora alti quando si raggiungerà il pieno impiego, e tutte le previsioni puntano in questa direzione, i tassi di interesse dovranno salire, e così anche le tasse, soffocando la crescita futura.
Altra preoccupazione dell’economia statunitense, il deprezzamento del dollaro. Ebbene: se devo essere sincero, questo per me è un mistero: ma non tanto il deprezzamento della divisa americana, quanto il fatto che sia così ordinato e graduale, e così in ritardo. L’investimento in dollari dal punto di vista di un investitore europeo o giapponese è palesemente svantaggioso. Non solo: se i tassi di interesse americani saliranno presto, chi detiene obbligazioni del Tesoro statunitense sarà colpito anche da una probabile perdita in conto capitale. Perché in questa situazione non si verifica una crisi valutaria, perché gli Stati Uniti non devono sperimentare una versione annacquata della crisi valutaria che, ad esempio, ha colpito l’Indonesia?

Certo, non è un mistero assoluto, non del tutto, almeno. Il motivo per cui gli stranieri continuano a investire in dollari nonostante l’avverso differenziale dei tassi di interesse e la colossale dimensione del deficit commerciale americano è la fiducia di fondo nell’economia americana. Ma se mi fosse stata chiesta una previsione sul dollaro uno o due anni fa, avrei scommesso su un deprezzamento molto più rapido e molto più intenso. E avrei sbagliato completamente.
In ultima analisi, va messo in rilievo il fatto che la Borsa ha assorbito del tutto lo shock dell’11 settembre, senza grandissimi contraccolpi, e non credo che sarebbe diverso se un 11 settembre dovesse malauguratamente verificarsi una seconda volta. L’impatto avverso potrebbe essere semmai nei rapporti con il resto del mondo, oltre che sul commercio, sugli investimenti esteri negli Stati Uniti. Sulla fiducia dei consumatori? E’ un dato in cui proprio non credo.

   
   
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