Marzo 2004

LA SVALUTAZIONE DELLA MONETA USA

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Perché
un dollaro debole
D. M. B.  
 
 

 

 

 

 

Nel Bel Paese
la produzione
industriale mostra lievi segni
di crescita, sebbene noi ci siamo
riservato il piacere di distruggere
i grandi impianti.

 

La congiuntura continua a volgere al bello, malgrado i dubbi sul mercato americano del lavoro, le revisioni al ribasso del Prodotto interno lordo giapponese, o gli occasionali passi del gambero europei. Il ciclo internazionale sembra aver avviato una discreta fase ascendente, sebbene si porti dietro, specialmente per l’America, squilibri irrisolti. Ma l’onda di alta marea è più forte e può essere anche molto lunga.
Non sono soltanto gli Stati Uniti a tener su la domanda mondiale. Anche la Cina fa la sua parte, e il resto dell’Asia (insieme con gli Usa, una gigantesca “area del dollaro”) tira la ripresa. In Europa, le spigolature dei dati congiunturali sono positive, soprattutto per l’ex “grande malato”, la Germania.
Il dollaro non è più appeso ai differenziali di crescita, ma dipende dal deficit corrente americano: il mercato si rende conto che non c’è da fidarsi a finanziare il disavanzo corrente ai livelli attuali del biglietto verde e continua a domandare un cambio più basso. Il resto del mondo, secondo previsioni attendibili, deve abituarsi a convivere con una divisa statunitense in corso di svalutazione.
Che cosa sta succedendo al di là dell’Atlantico?
I timori di risalita dei tassi sono stati messi a tacere dalla Federal Reserve. Può sembrare strano che la Fed continui a mantenere il tasso-guida all’1 per cento, un minimo quarantennale. Pur in presenza di un ottimo ritmo annuale di crescita e di segnali chiari che la crescita è rimasta sostenuta. E ciò dovrebbe confortare gli incerti sul fatto che non si tratta di un balzo una tantum. Non solo: la stessa Federal Reserve assicura che terrà basso il costo del denaro per un periodo considerevole, permettendo così, con un’implicita garanzia, i più diversi arbitraggi, fra breve e lungo in particolare e fra attività meno rischiose e attività più rischiose in generale. Se la Fed si comporta in questo modo, evidentemente è perché non è affatto preoccupata che nemmeno un’economia con dinamiche stellari possa innescare nel breve periodo una spirale inflazionistica.
Su questo, la Fed ha perfettamente ragione: le forze della disinflazione in giro per il mondo sono ancora attive, a cominciare proprio dalla Cina, che inonda il pianeta di prodotti a basso prezzo; e per finire con la produttività, che permette agli Stati Uniti di abbassare il costo del lavoro per unità di prodotto. Lunga vita ai tassi bassi, insomma. Quanto lunga? Potrà durare ancora per un anno o due. Ma tutto dipenderà dalla risposta dell’economia reale: neanche i banchieri centrali hanno la sfera di cristallo, e hanno il diritto-dovere di adattare l’opinione ai fatti che via via si dipanano.

La performance della produttività Usa – anch’essa stellare – si somma al deprezzamento del dollaro nell’esaltare la competitività americana. Questa debolezza della moneta statunitense è ormai dominata dai problemi di finanziamento del deficit corrente, che continua a livelli attorno al 5 per cento del Prodotto interno lordo. Dato che anche il deficit pubblico è intorno a quei livelli, gli investitori internazionali hanno l’inquieto sospetto di essere loro a finanziare il disavanzo pubblico e chiedono quindi un “premio” per continuare a farlo. E questo premio non può essere altro che un dollaro più basso. Sia in teoria che in pratica, una situazione di questo genere rischia l’overshooting, l’umiliazione del dollaro oltre quanto sia giusto. Ma dato che nessuno sa veramente quanto sia “giusto” che il dollaro scenda, ci si premunisce dandogli un margine di sicurezza, purtroppo per noi, verso il basso.
Vita tua mors mea: la “vita” restituita alla competitività americana rischia di diventare una “mors” per i Paesi dell’euro, stretti fra l’incudine di una moneta in rapido apprezzamento e il martello di costi del lavoro in assoluto più alti e in dinamica più penalizzanti rispetto all’America? Ad osservare i dati, si direbbe che questi timori sono esagerati. Le prime avvisaglie di ripresa europea hanno coinciso con la ripresa senza soste della moneta unica. Con ciò confermando che i cambi sono, sì, importanti, ma che la competitività-prezzo non è al primo posto fra i determinanti della crescita. Contano di più la politica di bilancio, da un lato, e le politiche strutturali, dall’altro.
Fuori dall’Atlantico, i cambi ripetono la scomoda situazione delle monete asiatiche, yen escluso. Mentre quest’ultimo è su un sentiero di apprezzamento rispetto al dollaro, le altre valute, a cominciare dal renmimbi, fluttuano con il biglietto verde e partecipano quindi ben poco al processo di raddrizzamento del deficit corrente americano, che si scaricherà in gran parte su Europa e Giappone. Una ragione in più, perché il Vecchio Continente si prepari alla stagione medio-lunga del dollaro debole (già nel 1995 l’Euro/Ecu era a quota 1,35 contro dollaro), riavviando con alacrità i cantieri incompiuti delle riforme.

Per la tenuta della ripresa, è in corso una duplice prova del nove. Quella per gli Stati Uniti, dove la domanda cui rispondere non è nuova: continueranno i consumatori Usa a spendere e magari a scialare un po’, dando impulsi di espansione all’intero sistema? La risposta è soprattutto indipendente dal mercato del lavoro. Che ha continuato a migliorare. Molti sono stati spiacevolmente sorpresi dallo scarso numero di posti creati a fine anno. Ma è solo il dato dei dipendenti, mentre questa fase di rilancio accompagnata da ristrutturazione continua e accresce l’occupazione indipendente, soprattutto quella collegata al lavoro delle famiglie. Ciò spiega i progressi nelle vendite, tornate a salire a passo robusto.
Di conseguenza, si è ottimisti riguardo all’aumento del Pil, spinto dal settore manifatturiero: il quale è ai massimi da oltre vent’anni, mentre le scorte hanno ripreso a salire, l’export avanza più rapidamente dell’import, gli ordini di beni di investimento sono sempre in ascesa, il mercato immobiliare non dà segni di stanchezza.

La seconda prova del nove riguarda la tenuta della ripresa in Eurolandia, in presenza di un euro che si rafforza, seppure meno di quanto il cambio bilaterale con il dollaro lasci intendere. Se si considera che questo apprezzamento è in corso ormai da trentasei mesi e che quindi già avrebbe dovuto far sentire i suoi contraccolpi sulla dinamica dell’economia, non si può che essere rassicurati dal risveglio della crescita, che si sta sempre più nettamente profilando migliore rispetto alle previsioni: puntare a un aumento del Pil tra i Dodici nel corso di questo 2004, con un 2 davanti alla virgola, appare ora meno velleitario. Basta vedere come l’ascesa del cambio non freni il rialzo di fiducia degli imprenditori tedeschi, i più sensibili in materia, e come anzi in Germania produzione industriale, ordini, indici di diffusione e anticipatori siano in netto miglioramento, in quantità e composizione, (la domanda interna fa la sua parte). Anche in Italia sono più le sorprese positive di quelle negative, sia pure con tutte le accidentalità che si verificano nel Bel Paese: la produzione industriale mostra lievi segni di crescita, sebbene noi ci siamo riservato il piacere di distruggere i grandi impianti, di cui dispone – tanto per fare un esempio – la Francia; l’export avanza fuori dall’Unione europea, (di nuovo, l’effetto cambio non è evidente, seppure sicuramente ci sarà: senza di esso, potremmo addirittura essere in fase di quasi-boom); i consumi delle famiglie accennano a salire: qualcuno li calcola in una crescita del 2,5 per cento, cifra non più vista dalla fine del 2000.

Parliamo dell’inflazione. Può un sistema-mondo che vive una stagione di robusta crescita corale non riscaldare un poco anche i listini? Se guardiamo ai prezzi delle materie prime in dollari, (industriali ed energetiche), la risposta è negativa. E pure se osserviamo i vari indici in giro per il globo di prezzi al consumo, dobbiamo constatare che il punto di minimo dell’inflazione è stato toccato. Questo non vuol dire che si debba correre a suonare l’allarme. Prima di tutto, perché il livello di inflazione da cui si parte rimane molto basso, nettamente inferiore a quello osservato nelle passate fasi di riavvio del ciclo. Secondo, perché le pressioni concorrenziali, gli avanzamenti tecnologici e di produttività, e l’ampia capacità inutilizzata sono una garanzia contro un veloce surriscaldamento dei prezzi. Eppoi, in fondo, è un quadro rassicurante, dopo i timori di deflazione patiti fino a poco tempo fa.
L’Italia, Paese ancora smarrito, saprà trarre una qualche lezione positiva per la crescita reale? Il nostro mondo politico saprà venir fuori dal limbo dei reciproci massacri, per mettere mano seriamente alle riforme strutturali, all’occupazione, all’aumento della produttività, perché il Paese non si disancori pericolosamente dall’Europa? Oppure dovremo restare vincolati alla pessimistica visione che Giorgio Amendola aveva del nostro “capitalismo straccione”, all’ombra di uno Stato che sapeva produrre soltanto instabilità e declino?

   
   
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