Marzo 2004

MONDO IN CAMMINO

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Islam e Occidente
Louis Michel Ministro Affari Esteri del Belgio
 
 

 

 

 

La differenza tra
Occidente e Islam non è alimentata
da destini opposti,
bensì da un semplice rapporto tra
un’egemonia
tecnologica
schiacciante
e un’umiliazione
assoluta.

 

Avviare una riflessione sui rapporti tra Islam e Occidente porta a navigare tra l’islamofobia dei partiti ultraconservatori e dei movimenti populisti, da una parte, e le diverse tendenze del fondamentalismo religioso islamico, dall’altra. Inoltre, si tratta di evitare le tendenze alla demonizzazione espressa dagli uni e le velleità di angelizzazione degli altri. Ma in primo luogo mi sembra molto importante riconoscere che il problema esiste.

E'stata rimproverata a Huntington la sua formula sullo scontro delle civiltà, che indigna o fa paura. Ma, come ricorda H. Vedrine, «gli elementi dello scontro sono all’opera dall’una e dall'altra parte. Attualmente il cocktail dei rancori, delle incomprensioni reciproche e delle reciproche paure rimane esplosivo. Mentre si delinea il ritorno all’ingerenza con le sue conseguenze imprevedibili, noi occidentali non amiamo ricordare quei secoli in cui l’ingerenza occidentale è stata la regola e la non-ingerenza l’eccezione. Fra noi il rimorso coloniale e terzomondista è stato tenuto a distanza dall’amnesia e dalla buona coscienza. Ma i musulmani non hanno dimenticato. Si può tentare di rassicurarsi osservando come coloro che, in Islam come in Occidente, cercano di venire alle mani sono ultraminoritari e come il ricorso alla violenza sia condannato ovunque. Ma trovano nel loro mondo un’eco».
Oggi l’Islam e l’Occidente sono spesso collocati in posizione antinomica, come se si trattasse di due “nemici irriducibili”. Va precisato che si tratta di una religione di cui Maometto era al tempo stesso un leader spirituale e un leader politico. Un Islam confrontato ad uno spazio culturale costituito dall’Europa e dagli Usa, in cui in maniera variabile ma definitiva si è imposta l’idea della separazione tra potere spirituale e temporale.

L’11 settembre 2001 ha fatto precipitare il XXI secolo nel terrore. Nulla è più “come prima”. L’evento è importante anzitutto per la condanna senza ambiguità che ha suscitato. L’imputazione di questo atto terroristico a un gruppo che agisce in nome dell’Islam è stata la manifestazione estrema di un proselitismo integralista iniziato più o meno vent’anni fa. Scopo dei mandanti dell’attentato era senza alcun dubbio quello di provocare lo scontro tra le religioni e le culture. Essi hanno puntato sull’irritazione e sull’inquietudine dell’Occidente di fronte ad una forma deviata dell’Islam, la cui pretesa, chiaramente ostentata, è di invadere il campo del temporale e di estendere il suo potere nella conduzione degli Stati. Ma la reazione unanime della comunità internazionale ha dimostrato che le loro azioni hanno avuto l’effetto contrario. Noi abbiamo serrato i ranghi. Abbiamo respinto qualsiasi confusione tra il terrorismo e qualsivoglia cultura o religione. Occorre peraltro rallegrarsi del fatto che molti Paesi arabi si siano uniti alla coalizione contro il terrorismo. Ciò ha evitato di consacrare un malinteso che sarebbe stato assai pericoloso.

E’ vero che il Corano contiene disposizioni legali sacre raggruppate sotto l’appellativo di “shari’a” che, almeno secondo gli islamici radicali, non possono per principio essere abrogate, e nemmeno emendate, da un’iniziativa umana, né possono essere interpretate alla luce di un evoluzionismo naturale che ha reinquadrato nel corso del tempo in linea generale tutti i campi attinenti all’umano. A questa specificità religiosa si aggiunge una configurazione socio-economica nuova: da un lato, si estende dagli Usa alla Russia un mondo giudaico-cristiano-umanista detentore dell’alta tecnologia. “Per contro”, un miliardo di musulmani, molto ricchi e molto poveri, vivono ai margini di questa opulenza scientifica e tecnologica. In larga parte, essi ripiegano su una logica di esasperazione religiosa con intenti dogmatici.
Dobbiamo ricordare che la “differenza” attuale tra l’Occidente e l’Islam non è alimentata da destini necessariamente opposti, bensì da un semplice rapporto tra un’egemonia tecnologica schiacciante e un’umiliazione assoluta. Di conseguenza, alcuni elementi dell’Islam si rifugiano in una religiosità “immobile” o fatale, come se la certezza della rivelazione e della protezione divina bastasse a garantire il destino dei popoli. Poiché non è così, l’amarezza alimenta la rivolta e l’eccesso. Questa “differenza” di oggi fra Occidente e Islam non è alimentata da incompatibilità originali fondamentali, ma dallo sfruttamento della frustrazione di milioni di persone, ostaggio di alcuni individui perversi, folli e calcolatori.
La questione dello spazio dell’Islam e dei musulmani nello spazio europeo chiama in causa la Comunità europea. Per un certo numero di musulmani che vivono in Europa l’Islam è una “realtà globale” che rifiuta di separare la sfera temporale da quella spirituale, lo spazio pubblico da quello privato. Questo Islam privilegia la vita in una comunità chiusa, conservatrice e diffidente nei confronti della modernità. Per un’altra parte dei musulmani europei, Islam e laicità appaiono come antinomici.

Siamo inoltre colpiti dalla straordinaria evoluzione dell’Islam nell’ultimo ventennio. Le giovani generazioni e i neoconvertiti, lungi dall’aspirare ad un Islam moderno, liberale e umanista, tendono a ripiegare su un Islam chiuso in se stesso. L’esclusione economica, un sentimento di paura e di mancanza di prospettive, alimentano una sorta di fuga in avanti suicida, il cui fatalismo aggressivo serve da giustificazione e da valvola di sfogo. In un’Europa in cui le religioni monoteiste sono riuscite ad effettuare in maniera accettabile un loro “aggiornamento” dove credenti e non credenti possono convivere in uno spirito di reciproco rispetto, l’esistenza di comunità islamiche sempre più numerose che rivendicano il diritto di vivere secondo la shari’a è inquietante.
Molti aspetti della shari’a, le cui norme giuridiche regolano la vita delle persone, sono di fatto incompatibili con i “diritti della persona umana”. Diritti che costituiscono la base dei valori fondamentali del progetto politico e culturale europeo. Lo sviluppo dell’Islam sul suolo non è stato uniforme. I primi immigrati sono giunti in Europa negli anni Sessanta e hanno vissuto discretamente ai margini della società senza che l’Islam, poco esibito, costituisse un problema.
Con l'arrivo in massa delle mogli e dei figli di questi immigrati, si è posto negli anni Ottanta il problema della trasmissione dell’eredità culturale e religiosa. Sono apparsi a questo punto predicatori, venuti spesso da fuori e non dall’immigrazione stessa, i quali hanno esercitato una considerevole influenza, nel senso di un ritorno al modello di vita descritto come ideale. Questi predicatori hanno portato l’Islam europeo, inizialmente discreto, a convergere parzialmente nel radicalismo militante. Sottolineo peraltro che l’Islam europeo è anche, in parte, un Islam laico, come la maggior parte dei turchi originari della repubblica di Kemal.

Credo che una proporzione importante (la maggioranza silenziosa!) dei musulmani europei di oggi, senza negare la propria identità culturale, non si riconosca nel radicalismo militante. Si accontenta di vivere la propria fede nell’intimità, rispettando sia gli altri credenti sia i non credenti. E’ fra loro che vediamo emergere dei pensatori musulmani risolutamente orientati verso una rilettura moderna del messaggio coranico. Questi pensatori trovano eco nell’interrogativo dell’imam Tantoui, rettore dell’Università al-Azhar in Egitto, una delle più grandi università coraniche del mondo, il quale si chiede: «Come può il Corano, rivelato nel VII secolo, risolvere i problemi di una società all’alba del XXI secolo?». E’ questa maggioranza silenziosa che fa sentire la propria voce attraverso la campagna di riforme a favore dell’emancipazione delle donne, una campagna nella quale si sono impegnati il re del Marocco e la regina della Giordania.
Il fatto è che ai giorni nostri, da questo punto di vista, lo spazio pubblico europeo resta quasi esclusivamente occupato da una minoranza islamica attiva, divenuta quasi la sola interlocutrice del mondo politico negli Stati membri. E’ questa minoranza che le autorità interrogano su tutto ciò che concerne l’Islam. E’ questa che consultano al minimo incidente nelle periferie o fra le comunità religiose. E’ ancora questa che tenta di controllare tutti gli aspetti della religione musulmana, dalla nomina degli imam delle moschee fino ai programmi di educazione religiosa nelle scuole pubbliche. Io posso capire il ruolo di questi interlocutori, ma è necessario che i dirigenti politici allarghino la concertazione ai cittadini e all’intera comunità. La questione è, dal mio punto di vista, fondamentale. I “mandatari” possono essere senz’altro utili, ma non possono pretendere di rappresentare tutti su qualsiasi problema. Si può sperare di vedere emergere un Islam europeo, liberale e umanista? O, al contrario, bisogna abbandonare il terreno ai radicalismi religiosi, in nome del diritto alla differenza o della neutralità dello Stato in materia di libertà religiosa? Sono queste le domande alle quali deve rispondere la nostra laicità europea. L’Europa non è stata unificata intorno a un concetto univoco dei rapporti tra la religione e lo Stato: la Francia vuole la separazione; altri Paesi, come la Germania, auspicano una collaborazione; la Chiesa d’Inghilterra vede infine la regina alla propria testa. Queste diverse forme di articolazione tra le Chiese e lo Stato nei vari Paesi europei possono oggi convergere tuttavia su un principio comune: in materia religiosa lo Stato è neutrale e non privilegia né combatte alcuna concezione della vita.

Quale politica europea nei confronti dell’Islam? Una politica europea responsabile deve sostenere gli Stati islamici moderati. Il sorgere di un Islam rispettoso dei valori moderni dello Stato costituisce la risposta più adeguata al fanatismo religioso o alla cieca condanna dell’altro, dello “straniero”. E’ la nascita e il permanere di un Islam in presa diretta con il mondo moderno che io auspico con tutte le mie forze. Quando si parla di Europa e di Islam, si apre la porta a un grande dibattito: si deve ammettere la Turchia nell’Unione? La Turchia costituisce – bisogna riconoscerlo – un caso particolare nella prospettiva dell’allargamento: per alcuni è una sorta di “frontiera naturale” dell’Europa. Alcuni osservatori politici ritengono che le differenze culturali fondamentali tra la civiltà giudaico-cristiano-umanistica e i valori islamici, per quanto rispettabili siano, rendono impossibile l’ingresso di Ankara nell’Unione. Da parte mia, penso che la Turchia sia da tempo rivolta verso l’Europa: fin dall’inizio del XX secolo ha fatto la scelta di uno Stato laico e di un’apertura ai valori europei.
A quanti tendono a parlare di un’alterità radicale dell’Islam in rapporto alla “nostra Europa” per rifiutare l’adesione della Turchia, si può replicare che la loro argomentazione è quanto meno storicamente errata. E non c’è bisogno di evocare per questo la trasmissione all’oscuro Medio Evo europeo della prestigiosa cultura greca, ma anche della medicina, dell’algebra, dell’astronomia... tramite i sapienti arabi.
Nel contesto mondiale, l’integralismo musulmano è divenuto dall’11 settembre il demone che rimpiazza l’Urss. Ma occorre sottolineare che la demonizzazione non è mai stata buona consigliera e porta a minare le regole del diritto internazionale e a invalidare qualsiasi istanza sovrannazionale di regolazione dei conflitti. Tutt’altro è l’orientamento seguito dalle Nazioni Unite, che hanno fatto del dialogo tra civiltà il tema della loro azione. La dimensione che questa scelta ha assunto dopo l’11 settembre 2001 ci ha fornito l’occasione per interrogarci. Siamo sempre rimasti fedeli alla nostra cultura e ai valori che la sostengono? La nostra cultura occidentale è stata vissuta come aggressiva e dominante, allorché la maggior parte dell’umanità la osserva e la fiancheggia senza avervi accesso?

Il principio direttivo di questo dialogo tra civiltà presuppone innanzitutto un ritorno su se stessi. Gli altri due princìpi su cui si fonda questo dialogo sono: il diritto alla differenza e all’identità culturale, e la pari dignità di tutte le culture. E’ in questa prospettiva che l’Unione europea concepisce il dialogo tra civiltà. Ed è in questa prospettiva che gli Stati membri hanno deciso di unirsi mezzo secolo fa in Sei, per diventare tra poco Venticinque.

   
   
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