Marzo 2004

CHE MONDO FA

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Dalla globalizzazione
alla guerra di religione
Alain Touraine Docente École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi
 
 

 

 

 

 

 

D'altra parte,
niente prova
che ciò che
chiamiamo Islam
sia nella sua
totalità e per sempre incompatibile
con la modernità.

 

La globalizzazione, che ha provocato contestazioni e movimenti di resistenza in molti Paesi del mondo, in particolare da parte di gruppi sociali che si sentivano più minacciati in quanto meno qualificati e meno scolarizzati, ha avuto effetti analoghi negli Stati Uniti, dove tanti hanno ripiegato su valori tradizionali per resistere allo sradicamento economico, sociale e culturale, e si sa che gli ambienti cristiani più conservatori sono stati fra i principali sostenitori del presidente Bush. Ma in senso più ampio, da una decina di anni gli Usa sono sempre più invasi dalla paura di una violenza incontrollabile. In questo gli americani non sono per nulla diversi dagli europei, che sempre più considerano l’insicurezza, nella vita quotidiana e specialmente nelle città, come la loro prima preoccupazione, la minaccia più immediata. Gli attentati e gli assassinii spettacolari nelle scuole medie e nei licei, certi attentati pubblici che avevano provocato un considerevole numero di morti, gli attacchi di al-Qaeda o di altri gruppi islamisti armati perpetrati contro interessi e cittadini americani al di fuori degli Stati Uniti, la preoccupazione generata dalla crescente insicurezza nelle metropoli e in particolare a New York, nel contesto di quella che forse troppo sbrigativamente, ma non senza ragione, chiamiamo civiltà di massa in quanto indebolisce le appartenenze sociali degli individui, ha provocato apprensioni, paure e infine la consapevolezza di una minaccia. Coscienza che si è tradotta nel forte appoggio soprattutto al sindaco newyorkese, Giuliani, nella sua lotta contro la delinquenza e la droga, ma che è diventata così profonda da trovarsi pienamente espressa solo nell’analisi fatta dal Presidente e dai suoi consiglieri di una minaccia non più interna e multipla, ma esterna e centrata su un nuovo nemico ben definito e localizzato, l’islamismo, e in particolare l’azione di Bin Laden e di al-Qaeda.

Certamente, si capisce che, dopo l’attentato dell'11 settembre, tutti o quasi i cittadini degli Stati Uniti, concordemente, abbiano giudicato indispensabile reagire, andare alla ricerca di Bin Laden, invadere l’Afghanistan dove costui si rifugiava e distruggere il regime dei talebani che gli offrivano il sostegno armato. Ma poi? Rapidamente, sembra, si è formato nel cuore stesso dell’idea di una sfida totale del Bene contro il Male il sentimento che bisognava attaccare in primo luogo l’Iraq: per la natura del regime di Saddam Hussein, per il ruolo di quel Paese nell’approvvigionamento del petrolio, e, soprattutto, pare, perché dopo la Guerra del Golfo (che aveva finito stranamente per salvare Saddam, per farne un baluardo contro la rivoluzione islamista di Khomeini in Iran), l’Iraq era stato sempre visto come una minaccia incombente.
Alla scelta decisa e quasi messianica di una nuova politica da parte americana si può contrapporre l’atteggiamento degli europei. Si è tentati di concludere affrettatamente che alla volontà e alla capacità d’azione degli Usa faccia da contraltare l’assenza di idee e di mezzi dell’Europa. E’ vero, in effetti, che l’Europa non ha voluto fin qui, e non sembra volere nel prossimo futuro, dotarsi dei mezzi necessari per assicurare la propria difesa e svolgere, in quanto entità politica rinnovata, un ruolo internazionale di rilievo. In molti casi i liberals americani o quella che chiamiamo la sinistra europea condividono l’idea della pluralità delle politiche di gestione del futuro, e si parla da ogni parte, a dire il vero, delle alternative che si offrono al mondo, come se questo dovesse scegliere tra una via americana e una via europea, in attesa di essere magari posto di fronte a una scelta tra una via cinese e una via russa.
In ogni caso, non si può non attribuire un’importanza centrale al rifiuto di un intervento internazionale da parte europea. Né è verosimile l’idea di una competizione diretta tra un modello americano e un modello europeo, dato che la maggioranza dei Paesi europei ha già fatto conoscere la propria preferenza per il modo di agire stabilito dagli Usa. Niente ha meglio dimostrato la debolezza, o piuttosto l’assenza dell’Europa – che avrebbe potuto diventare un attore internazionale importante – della rapidità con cui un certo numero di Paesi europei ha aderito alla posizione della Gran Bretagna a fianco degli americani, opponendosi alla posizione francese e tedesca che voleva lasciare alle Nazioni Unite il controllo principale delle azioni per il disarmo dell’Iraq.
Eppure, al di là dello stesso silenzio degli europei, siamo in grado di immaginare quale potrebbe essere una politica internazionale europea. Che le relazioni tra un mondo occidentale dominato dagli Stati Uniti e il mondo detto arabo-musulmano siano destinate a dominare la vita internazionale nei prossimi venti o trent’anni, è abbastanza chiaro. Si tratta allora di sapere se l’Europa è in grado di creare un certo tipo di relazioni tra l’Ovest e il nuovo Est, l'Oriente.

A questo punto si può già definire quale potrebbe essere l’approccio dell’Europa, in ogni caso molto lontano da quello degli Usa. Il problema deve essere definito nei suoi termini reali, che non sono quelli delle relazioni internazionali. Si tratta di sapere se la modernità, come l’abbiamo definita da secoli, in particolare attraverso il trionfo della ragione, è compatibile con un unico tipo di modernizzazione, quella che consiste nell’eliminare le forze che si oppongono alla modernità. O se, al contrario, è possibile immaginare delle vie alla modernizzazione che combinino variamente il contenuto della modernità con forme di mantenimento o di trasformazione delle culture, delle istituzioni sociali e delle rappresentazioni che appartengono a culture diverse da quelle che chiamiamo moderne.

Per la “vecchia Europa” non esiste alcun monopolio del modello “francese”, quello della laicità assoluta, dell’opposizione aperta tra il mondo della ragione moderna e il mondo delle credenze tradizionali. Come non ricordare, in linea con i classici lavori di Max Weber, l’importanza che la religione ha avuto come fattore di modernizzazione in vari Paesi, e in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna?
D’altra parte, niente prova che ciò che chiamiamo Islam sia nella sua totalità e per sempre incompatibile con la modernità. Non è impossibile immaginare modi di sviluppo che combinino il desiderio di modernità e il rifiuto di una rottura completa e rapida con modelli diversi di pre-modernità.
Bisogna a questo punto insistere su una delle caratteristiche più forti della stessa modernizzazione europea. L’Europa ha spesso mantenuto le forze e le forme dell’organizzazione religiosa al cuore della definizione di modernizzazione. Basti ricordare gli stretti legami che si sono frequentemente stabiliti tra la religione, o talune forme di vita religiosa, e una modernizzazione che si esprime al meglio nell’azione sindacale o nei programmi di insegnamento.
Veniamo al dunque. Gli Stati Uniti sono entrati in guerra, prima con l’Afghanistan poi con l’Iraq, in nome di un’incompatibilità tra il mondo occidentale e il mondo islamico. Come è inaccettabile rifiutare completamente questa visione e limitarsi a sottolineare gli aspetti di tolleranza e di umanesimo presenti nell’Islam, così bisogna riconoscere una diversità all’interno del mondo islamico pari a quella che esiste nel mondo cristiano. La Gran Bretagna democratica e la Germania nazista o perfino l’Unione Sovietica staliniana hanno fatto parte in qualche modo del mondo che chiamiamo occidentale e cristiano; perché non ci dovrebbero essere opposizioni altrettanto grandi tra differenti posizioni religiose in sistemi sociali e politici essi stessi diversi tra loro?
Nel caso dell’Islam occidentale, si è d’altra parte colpiti dalla distanza che separa in particolare i Paesi che hanno avuto una forte e duratura esistenza come nazioni, come la Turchia e l’Iran, e quelli che al contrario non l’hanno mai avuta, in primo luogo l’Algeria, ma anche l’Egitto, la Palestina e pure l’Iraq e altri Paesi arabi. Bisogna respingere risolutamente l’idea di uno scontro di civiltà, che implicherebbe un’unità di fondo di tutte le parti dell’area detta cristiana e di quella detta islamica.

Beninteso, occorre respingere allo stesso modo l’idea di una civiltà buddista dotata di una fondamentale unità sociale e politica. La più semplice osservazione dimostra al contrario che la diversità delle situazioni politiche è troppo grande per consentirci di identificare un certo tipo di modernizzazione politica con un insieme di credenze religiose.
Il ruolo dell’Europa può essere, e di fatto già è, quello di cercare combinazioni possibili tra la modernità di tipo occidentale e diversi modi di mantenimento, trasformazione e distruzione delle forme di vita sociale e culturale che vengono dal passato delle società islamiche. Come ha detto Bernard-Henri Lévy nel suo libro-inchiesta sull’assassinio del giornalista americano Daniel Pearl, le contraddizioni che hanno portato a questo tragico epilogo non stanno tra il mondo occidentale e il mondo islamico, ma all’interno del mondo islamico stesso, e gli europei hanno conosciuto abbastanza lotte e guerre nel campo cristiano per poter comprendere non solo l’opposizione tra sunniti e sciiti,ma anche molte opposizioni di altra natura, cioè quelle che mettono in gioco le relazioni tra la religione, la società e il potere politico. Questa è già, in parte, una politica europea di fronte al mondo islamico.

L'intera evoluzione lenta, a volte contraddittoria, delle relazioni tra la Turchia e l’Europa deve essere compresa prima di tutto alla luce degli sforzi di Istanbul per andare oltre la rivoluzione kemalista, senza abolirne i princìpi, ma allontanando il rischio di un integralismo islamista grazie all’inserimento parziale dell’Islam nelle istituzioni turche. Gli europei hanno dimostrato di cogliere la natura del problema turco evitando le obiezioni di tipo tradizionale all’ingresso della Turchia in Europa, cioé la sua storia e la sua realtà geografica. Gli europei hanno dimostrato, non chiudendo la porta a Istanbul, di aver capito che l’avvicinamento all’Europa era il migliore e probabilmente l’unico modo per la Turchia di sfuggire a forme di penpensiero e di governo che in molti casi, bisogna riconoscerlo, sono totalitarie.
Esistono molte ottime ragioni per pensare che l’Iran sia suscettibile a breve termine o di seguire la via americana, cioè diventare il simbolo del male ed esporsi a un’invasione, o di seguire la via europea, cioè disfarsi dei princìpi della repubblica islamista senza per questo distruggere il carattere islamico della società e delle istituzioni iraniane. Possiamo facilmente immaginare che, in numero rapidamente crescente, vari Paesi si trovino collocati da una parte o dall’altra nei loro rapporti con l’Europa e con gli Stati Uniti. Molti pensano che sarà inevitabile uno scontro tra l’assolutismo modernista americano e un Pakistan che è largamente in mano degli islamisti più radicali, anche dal punto di vista militare. Al contrario, si può immaginare che l’Egitto o il Marocco, Paesi che hanno dimostrato una certa capacità di funzionare come Stati nazionali, possano trovare nelle relazioni con l’Europa dei processi di evoluzione e di trasformazione del tutto opposti a quelli che emergono dallo scontro tra gli Stati Uniti e i Paesi del Medio Oriente.
La conclusione che ho appena abbozzato potrebbe essere rafforzata da altri studi e da una riflessione più approfondita. Non stiamo vivendo un conflitto tra religioni o civiltà e i rapporti tra i Paesi occidentali e i Paesi islamici non sono riducibili neanche a divergenze od opposizioni di carattere economico o strategico. I Paesi più precocemente modernizzati, e che sono stati anche Paesi coloniali, devono riconoscere la specificità del loro tipo di modernizzazione, anche se hanno da tempo il monopolio della modernità; è nel momento in cui si riconosce la pluralità dei modi o dei processi di modernizzazione che si può capire come in ogni regione o Paese un certo tipo di modernizzazione si fa carico dei princìpi o degli orientamenti generali della modernità. Per riprendere una vecchia espressione, tutte le strade portano a Roma; ma ciò non significa che tutte le società si fondono nello stesso stampo alla fine del loro processo di modernizzazione, bensì che esistono differenze crescenti nel modo in cui avviene la modernizzazione, definiti caso per caso, ciascuno dei quali si richiama agli stessi princìpi che sono propri della modernità. Non c’è da scegliere tra la peculiarità di un tipo di modernizzazione e l’adesione ai princìpi universalistici della modernità. Tutti i Paesi, anche quelli che più si identificano totalmente con la modernità, come il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti, combinano in un modo o nell’altro la modernità intesa come valore universale e specifiche modalità di modernizzazione, che non hanno il monopolio dell’espressione o della pratica della modernità.

Occorre, per finire, insistere sull’opposizione all’interno del mondo occidentale tra i Paesi europei che appartengono in generale alla categoria della società (Gesellschaft) e gli Stati Uniti d’America. La storia europea, e in particolare quella dell’Inghilterra e della Francia, si basa da tempo sull’idea che questi Paesi devono avvicinarsi il più possibile a valori universalistici, all’uso della ragione, a istituzioni che si preoccupino del bene comune; il che non esclude, e anzi legittima, i conflitti sociali. Gli Stati Uniti condividono apparentemente lo stesso punto di partenza e la loro Costituzione, attraverso la Corte Suprema, ha un ruolo essenziale nella regolazione della vita sociale. Tuttavia, si è vista rafforzarsi sempre più negli Usa la coscienza di essere una comunità, fondata su valori specifici, e inoltre la consapevolezza di avere un ruolo eccezionale nella storia. Lo spirito di comunità, vivace nei gruppi di immigrati, è del tutto presente anche a livello federale.

Questa prima indicazione potrebbe facilmente essere seguita da molte altre ed è di fondamentale importanza respingere la falsa idea di un modello europeo universalista che si opporrebbe a tutti gli altri, che sarebbero particolaristi. Persino il Paese che più si oppone a tutti i particolarismi, la Francia della tradizione repubblicana e anche giacobina, ha una certa coscienza storica o estetica di sé che non si riduce all’immagine di Paese dei diritti dell’uomo. Si può dunque facilmente riconoscere che in ogni parte del mondo i temi generali della modernità si combinano variamente con un tipo o un altro di modernizzazione, ed è pertanto sempre un errore identificare la modernità con un particolare tipo di modernizzazione. Se si accetta questa idea e l’approccio comparato che ne deriva, ci si sbarazza in un colpo solo dei conflitti spietati che emergono tra “civiltà”, ciascuna delle quali identifica la modernità con le proprie caratteristiche storiche e culturali.

   
   
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