Svelenire il clima, di fronte
ad una rivoluzione copernicana
di questo tipo, sembra essere una mera illusione, perché
sono
in gioco
la sopravvivenza delle ideologie e le concezioni dello Stato.
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Perché la lotta politica in Italia somiglia sempre più
ad una rissa? Perché lo scontro tra i due Poli è sempre
più violento, radicale, e non conosce tregue? E perché
così frequentemente la correttezza dialettica cede il passo
alla volgarità? Molte le interpretazioni in circolazione:
desiderio di visibilità, scalate lobbistiche al potere, giustizialismi
come rovescio di medaglia di vere o presunte corruzioni, trasversalità
come tentazioni di un eterno trasformismo italico, commistioni tra
politica e affari, e altro ancora. Tutto, o quasi tutto vero. Ma
non sufficiente a chiarire le ragioni, cioè le radici delle
onde durto che continuano ad abbattersi sulle opposte sponde,
con gravi rischi per la stessa tenuta del sistema-Italia.
E se tutto questo servisse a nascondere motivazioni altre, e diverse,
ma reali, di due aree ideologiche inconciliabili, che seguono percorsi
divergenti e perseguono obiettivi oggetto di big bang, di una dilatazione
che può soltanto allontanarli, senza tuttavia renderli estranei
allevoluzione storica del nostro Paese? E se si trattasse
di due concezioni del tutto incompatibili dello sviluppo economico,
una in atteggiamento di difesa, laltra in fase dattacco,
e solo una delle due in grado di dare identità alla crescita
o alla caduta del nostro status sociale, ma anche politico e culturale
dei prossimi decenni?
E sul tipo di capitalismo italiano che bisogna riflettere,
se si vuole venire a capo della questione. Sulla sua storia e sulle
sue concrete manifestazioni nei decenni seguiti alla ricostruzione
di un Paese che una guerra insensata aveva ridotto a un cumulo di
macerie fumanti. Occorre iniziare lanalisi, sia pure veloce,
dalla metà degli anni Cinquanta, dai giorni che precedettero
il cosiddetto boom, il breve miracolo economico consentito
dalle tute blu a buon mercato e da una middle class che alimentava
i consumi e assicurava una crescita moderata ma costante del sistema-Italia.
Si trattò di un equilibrio precario, poi rotto dal 68
e dalla ubriacatura delle piazze, che distrusse molto e costruì
poco, come del resto dimostrano i tardivi pentimenti di tanti protagonisti
di quella stagione.
Furono proprio gli eccessi sessantottini e le degenerazioni estreme
e persino terroristiche del tempo a portare le due ideologie dominanti,
la cattolica e la marxiana, ad arroccarsi su posizioni conservatrici
rispetto al capitalismo italiano: posizioni nello stesso tempo
avrebbe detto Moro per il versante politico «parallele
e convergenti», sebbene di ispirazione e matrice del tutto
diverse. E nota, infatti, la diffidenza del mondo cattolico
nei riguardi del capitalismo, come può leggersi in varie
encicliche vaticane, aliene a qualsiasi idea liberal-liberista e
tutte immerse in una dottrina sociale nata solo con Pio XI: diciannove
secoli buoni dopo la nascita del Soglio pontificio. In nome di questa
dottrina, il capitalismo in sé e per sé era considerato
atto di egoismo individuale, alimentatore di nuove povertà
e di sfruttamento delluomo, e dunque da piegare al bene comune
con un largo controllo pubblico, cioè politico, con locchio
attento al bilancio sociale più che ai bilanci dellazienda.
Sullaltro fronte, quello marxiano, i mezzi di produzione dovevano
appartenere alla collettività, cioè allo Stato, nelle
sue espressioni emblematiche, dalla burocrazia di base allesercito,
al partito che era sempre al vertice della piramide totalitaria.
Nel segno del capitalismo di Stato, pertanto, temperato per il mondo
cattolico, assoluto per quello marxiano, si incrociavano gli interessi,
i progetti, le finalità dello sviluppo capitalistico italiano.
Lirruzione di una nuova forza politica nel paesaggio elettorale
italiano nei primi anni Novanta del secolo scorso, con le promesse
di rilancio dellidea liberal-liberista in economia, e la sua
corsa vincente ai vertici del governo, al di là di quel tanto
o di quel poco che è stato realizzato, ha dato uno scossone
devastante allo status quo consolidato dal 1948 in poi. Lo slogan
meno Stato, più privato ha trovato almeno metà
degli italiani pronti ad accogliere i segni di un cambiamento evidentemente
atteso, dopo le crisi economiche, la perpetuazione del sottosviluppo
in un terzo del Paese, le rivelazioni di Tangentopoli, il ritardo
delle riforme, e quantaltro.
Svelenire il clima, di fronte ad una (reale o soltanto predicata)
rivoluzione copernicana di questo tipo, sembra essere una mera illusione.
Perché sono in gioco la sopravvivenza delle ideologie, le
concezioni dello Stato, la progettualità dei gosplan, e la
loro stessa fattibilità, e ancora le visioni sociali, le
prospettive del futuro per le nuove generazioni, in una parola una
complessiva e complessa weltanschauung che implica il ruolo dellItalia
nella più vasta Patria europea.
Perciò confronti, risse, violenza e anche volgarità
espressive sono per la vita e per la morte e non possono dar luogo
a patteggiamenti. Fino a quando una delle due parti non arretrerà
per forza di voto, noi dovremo convivere con questo teatro della
politica, con questi quotidiani strappi cardiaci delle istituzioni,
con questo capitalismo ermafrodito, caotico, infecondo.
E non va dimenticato che tutto questo accade in un momento delicato
delleconomia planetaria, europea e italiana. A guardare il
mondo economico del 2003 da un punto dosservazione italiano,
sembrerebbe che la prima lezione da trarre sia un monito circa i
miraggi finanziari da cui possono essere catturate le imprese. A
condizionare in questo senso sono stati i crolli colossali, troppo
recenti e troppo clamorosi; ma altrove non è stato necessario
attendere che esplodessero casi così enormi nella loro anomalia
per scoprire che le scorciatoie finanziarie non servono ad avvicinare
la strada maestra dello sviluppo.
A considerare lo scenario internazionale, si direbbe che per le
imprese americane il 2003 sia stato lanno del ritorno al core
business, alla ricomparsa della scommessa sulle capacità
e sulle specializzazioni che le distinguono. Come dire, meno finanza
e un po più di fordismo. Si sono dunque prese le distanze
dagli anni Novanta, quando le imprese avevano accelerato i loro
processi di diversificazione, usando largamente la leva finanziaria
a questo scopo. Allontanarsi eccessivamente dalla base consolidata
di attività comporta infatti rischi elevatissimi, tuttaltro
che compensati dalle aspettative di ricavi più rapidi e più
forti. Meglio allora puntare ancora una volta sul core business
per rilanciarlo, magari tenendo accuratamente docchio le opportunità
offerte dai settori direttamente adiacenti allattività
principale e badando semmai alle politiche di integrazione che possono
garantire una più salda presa sui mercati.
A indurre gli operatori economici americani a riscoprire le loro
competenze tradizionali, forse non è stato solo leffetto
della lunga fase di incertezza e di difficoltà che si è
aperta dopo il 2000; sta contribuendo anche linesorabile tramonto
di Detroit, cioè la perdita di competitività
e laffannoso galleggiamento del settore auto, che nel giro
di pochissimi anni potrebbe anche perdere il primato produttivo
mondiale, tradizionalmente detenuto dagli statunitensi, a vantaggio
di concorrenti estremo-orientali, giapponesi in testa. E tuttavia,
ciò non provocherebbe di per sé il declino economico
generalizzato che tanto si teme in Europa, né un arretramento
complessivo della capacità industriale americana. Cè
una vitalità risorgente delleconomia Usa che è
dimostrata, ad esempio, dalla ripresa dei settori ad alta tecnologia
(high tech e telecomunicazioni), sfoltiti dalla caduta del Nasdaq
e dalle faraoniche attese di ricchezza veloce, e oggi a selezione
durissima conclusa in grado di marciare a un ritmo di crescita
del 20 per cento allanno.
Il 2003 non ha invece concorso a sciogliere i dubbi sul destino
delleconomia europea, che per non pochi decenni del Novecento
ha rappresentato un assetto alternativo. Il dibattito allinterno
dei Paesi dellUnione europea è sembrato ancora largamente
assorbito dallo spettro di un declino che non si è ancora
capito con quali mezzi fronteggiare. Basato sullinterazione
fra istituzioni e mercato, il modello europeo sembra attualmente
aver bisogno, più che delle correzioni e degli aggiustamenti
tentati dai vari governi, di una vera e propria reinvenzione.
E veniamo allItalia, dove i problemi del conflitto di cui
abbiamo detto sono aggravati dai sommovimenti tellurici che stanno
mutando la pelle della nostra società. Domanda preliminare:
esiste ancora, da noi, una classe media? Detto con parole diverse:
che cosa sta succedendo ai ceti sociali che dal dopoguerra, per
decenni, hanno sostenuto i consumi del Paese e tenuto laboriosamente
assieme lItalia, sia pure con tutti i limiti e con tutti i
pregiudizi che non ci siamo stancati di denunciare?
Middle class: da un lato, politicamente conservatrice e pertanto
irrisa da destra e da sinistra, dallaltro economicamente rivoluzionaria
con i suoi consumi al centro degli obiettivi commerciali delle più
importanti imprese industriali. Impiegati pubblici e privati, insegnanti,
piccoli e medi commercianti, artigiani, professionisti: sono loro
che hanno formato e poi irrobustito il mercato interno, a partire
dalla celeberrima Seicento della Fiat. Sono loro che
hanno fatto la fortuna di tante società nazionali di elettrodomestici,
che hanno mandato per la prima volta allUniversità
i figli, che hanno sostenuto lindustria delle costruzioni
con il costoso desiderio della casa in città e della villetta
al mare o in montagna. E sono loro, infine, che hanno influenzato
i comportamenti di consumo della stessa classe operaia
dellepoca. In buona sostanza, hanno avuto il merito di allargare
lItalietta e di trasformarla, quanto meno nella dinamica offerta-consumi,
in un Paese di livello europeo.
Cera una volta, appunto, questa classe di mezzo. Cera:
perché le vicende economiche e politiche dellultimo
decennio si sono abbattute come un tifone tropicale su tutti i suoi
comportamenti. In particolare, sui figli e sui nipoti di quella
generazione, i quali oggi si ritrovano con lavori retribuiti con
500 o con 1.000 euro al mese, il che li costringe a restare a carico
dei genitori. Si è abbattuta sui commercianti (di fascia
più modesta), i quali hanno cercato di restare a galla bilanciando
i consumi declinanti con il rialzo dei prezzi (al limite, parificando
un euro a mille lire). Sui professori, il cui livello di retribuzione
fotografa perfettamente il loro ridimensionamento sociale. Sui vecchi
e nuovi pensionati, costretti dal passaggio alleuro a fare
i conti con la loro più elevata inflazione. Non
sembri un paradosso: molti componenti la classe media sono scesi
di un gradino nella piramide sociale, collocandosi essendo
pressoché scomparse le tute blu un po al di
sopra degli ultimi arrivati, gli immigrati extracomunitari.
Per contro, i commercianti più robusti, i liberi professionisti,
gli artigiani, hanno realizzato forti aumenti di reddito e di ricchezza.
Anchessi si sono mossi lungo la piramide sociale, ma in direzione
opposta: hanno guadagnato le prime posizioni, affiancando e (secondo
autorevoli rilevazioni) talora superando i fin troppo remunerati
manager delle imprese.
In questo modo si è prodotto un vuoto al centro della piramide:
la classe media si è assottigliata, mentre si è allargata
la forbice tra i primi e gli ultimi della scala sociale, con le
contrapposte ricadute sulla nostra società.
Se è compito dei sociologi approfondire tutti i risvolti
di questo fenomeno, una considerazione di ordine politico però
si impone. Nessuna forza politica può attribuire la responsabilità
esclusiva di questo sconvolgimento ai soli avversari. Nel decennio
trascorso, tutti quanti, (partiti al governo e allopposizione,
indiscriminatamente), lo hanno sottovalutato, anche se le agevolazioni
fiscali più recenti, insieme ai mancati controlli dei prezzi
nel passaggio alla moneta unica europea, hanno contribuito ad aggravarlo
e probabilmente a creare un nuovo blocco sociale nella parte alta
della piramide.
La crisi economica in atto sta facendo il resto. Prospettive dalle
quali si è autorizzati a trarre almeno una conclusione. La
lotta politica tra esponenti di ideologie quali quelle in campo
in Italia pare destinata a divenire sempre più aspra, stanti
i divaricanti interessi sociali. Essi rischiano di sbranarsi ad
ogni tornata elettorale, mentre dovrebbero riflettere sui rischi
seri di una radicalizzazione selvaggia dello scontro e di unulteriore
perdita della loro rappresentatività. Tutti costoro, al pari
dei sindacati, devono chiedersi: dove abbiamo sbagliato? E anche,
citando un noto testo letterario: a che punto è la notte?
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