Marzo 2004

IL CASO ITALIANO

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Un capitalismo
ermafrodito
Aldo Bello  
 
 

Svelenire il clima, di fronte
ad una rivoluzione copernicana
di questo tipo, sembra essere una mera illusione, perché sono
in gioco
la sopravvivenza delle ideologie e le concezioni dello Stato.

 

Perché la lotta politica in Italia somiglia sempre più ad una rissa? Perché lo scontro tra i due Poli è sempre più violento, radicale, e non conosce tregue? E perché così frequentemente la correttezza dialettica cede il passo alla volgarità? Molte le interpretazioni in circolazione: desiderio di visibilità, scalate lobbistiche al potere, giustizialismi come rovescio di medaglia di vere o presunte corruzioni, trasversalità come tentazioni di un eterno trasformismo italico, commistioni tra politica e affari, e altro ancora. Tutto, o quasi tutto vero. Ma non sufficiente a chiarire le ragioni, cioè le radici delle onde d’urto che continuano ad abbattersi sulle opposte sponde, con gravi rischi per la stessa tenuta del sistema-Italia.
E se tutto questo servisse a nascondere motivazioni altre, e diverse, ma reali, di due aree ideologiche inconciliabili, che seguono percorsi divergenti e perseguono obiettivi oggetto di big bang, di una dilatazione che può soltanto allontanarli, senza tuttavia renderli estranei all’evoluzione storica del nostro Paese? E se si trattasse di due concezioni del tutto incompatibili dello sviluppo economico, una in atteggiamento di difesa, l’altra in fase d’attacco, e solo una delle due in grado di dare identità alla crescita o alla caduta del nostro status sociale, ma anche politico e culturale dei prossimi decenni?

E’ sul tipo di capitalismo italiano che bisogna riflettere, se si vuole venire a capo della questione. Sulla sua storia e sulle sue concrete manifestazioni nei decenni seguiti alla ricostruzione di un Paese che una guerra insensata aveva ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Occorre iniziare l’analisi, sia pure veloce, dalla metà degli anni Cinquanta, dai giorni che precedettero il cosiddetto “boom”, il breve miracolo economico consentito dalle tute blu a buon mercato e da una middle class che alimentava i consumi e assicurava una crescita moderata ma costante del sistema-Italia. Si trattò di un equilibrio precario, poi rotto dal ‘68 e dalla ubriacatura delle piazze, che distrusse molto e costruì poco, come del resto dimostrano i tardivi pentimenti di tanti protagonisti di quella stagione.
Furono proprio gli eccessi sessantottini e le degenerazioni estreme e persino terroristiche del tempo a portare le due ideologie dominanti, la cattolica e la marxiana, ad arroccarsi su posizioni conservatrici rispetto al capitalismo italiano: posizioni nello stesso tempo – avrebbe detto Moro per il versante politico – «parallele e convergenti», sebbene di ispirazione e matrice del tutto diverse. E’ nota, infatti, la diffidenza del mondo cattolico nei riguardi del capitalismo, come può leggersi in varie encicliche vaticane, aliene a qualsiasi idea liberal-liberista e tutte immerse in una dottrina sociale nata solo con Pio XI: diciannove secoli buoni dopo la nascita del Soglio pontificio. In nome di questa dottrina, il capitalismo in sé e per sé era considerato atto di egoismo individuale, alimentatore di nuove povertà e di sfruttamento dell’uomo, e dunque da piegare al bene comune con un largo controllo pubblico, cioè politico, con l’occhio attento al bilancio sociale più che ai bilanci dell’azienda. Sull’altro fronte, quello marxiano, i mezzi di produzione dovevano appartenere alla collettività, cioè allo Stato, nelle sue espressioni emblematiche, dalla burocrazia di base all’esercito, al partito che era sempre al vertice della piramide totalitaria. Nel segno del capitalismo di Stato, pertanto, temperato per il mondo cattolico, assoluto per quello marxiano, si incrociavano gli interessi, i progetti, le finalità dello sviluppo capitalistico italiano.
L’irruzione di una nuova forza politica nel paesaggio elettorale italiano nei primi anni Novanta del secolo scorso, con le promesse di rilancio dell’idea liberal-liberista in economia, e la sua corsa vincente ai vertici del governo, al di là di quel tanto o di quel poco che è stato realizzato, ha dato uno scossone devastante allo status quo consolidato dal 1948 in poi. Lo slogan “meno Stato, più privato” ha trovato almeno metà degli italiani pronti ad accogliere i segni di un cambiamento evidentemente atteso, dopo le crisi economiche, la perpetuazione del sottosviluppo in un terzo del Paese, le rivelazioni di Tangentopoli, il ritardo delle riforme, e quant’altro.

Svelenire il clima, di fronte ad una (reale o soltanto predicata) rivoluzione copernicana di questo tipo, sembra essere una mera illusione. Perché sono in gioco la sopravvivenza delle ideologie, le concezioni dello Stato, la progettualità dei gosplan, e la loro stessa fattibilità, e ancora le visioni sociali, le prospettive del futuro per le nuove generazioni, in una parola una complessiva e complessa weltanschauung che implica il ruolo dell’Italia nella più vasta Patria europea.
Perciò confronti, risse, violenza e anche volgarità espressive sono per la vita e per la morte e non possono dar luogo a patteggiamenti. Fino a quando una delle due parti non arretrerà per forza di voto, noi dovremo convivere con questo teatro della politica, con questi quotidiani strappi cardiaci delle istituzioni, con questo capitalismo ermafrodito, caotico, infecondo.

E non va dimenticato che tutto questo accade in un momento delicato dell’economia planetaria, europea e italiana. A guardare il mondo economico del 2003 da un punto d’osservazione italiano, sembrerebbe che la prima lezione da trarre sia un monito circa i miraggi finanziari da cui possono essere catturate le imprese. A condizionare in questo senso sono stati i crolli colossali, troppo recenti e troppo clamorosi; ma altrove non è stato necessario attendere che esplodessero casi così enormi nella loro anomalia per scoprire che le scorciatoie finanziarie non servono ad avvicinare la strada maestra dello sviluppo.
A considerare lo scenario internazionale, si direbbe che per le imprese americane il 2003 sia stato l’anno del ritorno al “core business”, alla ricomparsa della scommessa sulle capacità e sulle specializzazioni che le distinguono. Come dire, meno finanza e un po’ più di fordismo. Si sono dunque prese le distanze dagli anni Novanta, quando le imprese avevano accelerato i loro processi di diversificazione, usando largamente la leva finanziaria a questo scopo. Allontanarsi eccessivamente dalla base consolidata di attività comporta infatti rischi elevatissimi, tutt’altro che compensati dalle aspettative di ricavi più rapidi e più forti. Meglio allora puntare ancora una volta sul “core business” per rilanciarlo, magari tenendo accuratamente d’occhio le opportunità offerte dai settori direttamente adiacenti all’attività principale e badando semmai alle politiche di integrazione che possono garantire una più salda presa sui mercati.
A indurre gli operatori economici americani a riscoprire le loro competenze tradizionali, forse non è stato solo l’effetto della lunga fase di incertezza e di difficoltà che si è aperta dopo il 2000; sta contribuendo anche l’inesorabile “tramonto di Detroit”, cioè la perdita di competitività e l’affannoso galleggiamento del settore auto, che nel giro di pochissimi anni potrebbe anche perdere il primato produttivo mondiale, tradizionalmente detenuto dagli statunitensi, a vantaggio di concorrenti estremo-orientali, giapponesi in testa. E tuttavia, ciò non provocherebbe di per sé il declino economico generalizzato che tanto si teme in Europa, né un arretramento complessivo della capacità industriale americana. C’è una vitalità risorgente dell’economia Usa che è dimostrata, ad esempio, dalla ripresa dei settori ad alta tecnologia (high tech e telecomunicazioni), sfoltiti dalla caduta del Nasdaq e dalle faraoniche attese di ricchezza veloce, e oggi – a selezione durissima conclusa – in grado di marciare a un ritmo di crescita del 20 per cento all’anno.

Il 2003 non ha invece concorso a sciogliere i dubbi sul destino dell’economia europea, che per non pochi decenni del Novecento ha rappresentato un assetto alternativo. Il dibattito all’interno dei Paesi dell’Unione europea è sembrato ancora largamente assorbito dallo spettro di un declino che non si è ancora capito con quali mezzi fronteggiare. Basato sull’interazione fra istituzioni e mercato, il modello europeo sembra attualmente aver bisogno, più che delle correzioni e degli aggiustamenti tentati dai vari governi, di una vera e propria reinvenzione.
E veniamo all’Italia, dove i problemi del conflitto di cui abbiamo detto sono aggravati dai sommovimenti tellurici che stanno mutando la pelle della nostra società. Domanda preliminare: esiste ancora, da noi, una classe media? Detto con parole diverse: che cosa sta succedendo ai ceti sociali che dal dopoguerra, per decenni, hanno sostenuto i consumi del Paese e tenuto laboriosamente assieme l’Italia, sia pure con tutti i limiti e con tutti i pregiudizi che non ci siamo stancati di denunciare?
Middle class: da un lato, politicamente conservatrice e pertanto irrisa da destra e da sinistra, dall’altro economicamente “rivoluzionaria” con i suoi consumi al centro degli obiettivi commerciali delle più importanti imprese industriali. Impiegati pubblici e privati, insegnanti, piccoli e medi commercianti, artigiani, professionisti: sono loro che hanno formato e poi irrobustito il mercato interno, a partire dalla celeberrima “Seicento” della Fiat. Sono loro che hanno fatto la fortuna di tante società nazionali di elettrodomestici, che hanno mandato per la prima volta all’Università i figli, che hanno sostenuto l’industria delle costruzioni con il costoso desiderio della casa in città e della villetta al mare o in montagna. E sono loro, infine, che hanno influenzato i comportamenti di consumo della stessa “classe operaia” dell’epoca. In buona sostanza, hanno avuto il merito di allargare l’Italietta e di trasformarla, quanto meno nella dinamica offerta-consumi, in un Paese di livello europeo.

C’era una volta, appunto, questa classe di mezzo. C’era: perché le vicende economiche e politiche dell’ultimo decennio si sono abbattute come un tifone tropicale su tutti i suoi comportamenti. In particolare, sui figli e sui nipoti di quella generazione, i quali oggi si ritrovano con lavori retribuiti con 500 o con 1.000 euro al mese, il che li costringe a restare a carico dei genitori. Si è abbattuta sui commercianti (di fascia più modesta), i quali hanno cercato di restare a galla bilanciando i consumi declinanti con il rialzo dei prezzi (al limite, parificando un euro a mille lire). Sui professori, il cui livello di retribuzione fotografa perfettamente il loro ridimensionamento sociale. Sui vecchi e nuovi pensionati, costretti dal passaggio all’euro a fare i conti con la “loro” più elevata inflazione. Non sembri un paradosso: molti componenti la classe media sono scesi di un gradino nella piramide sociale, collocandosi – essendo pressoché scomparse le tute blu – un po’ al di sopra degli ultimi arrivati, gli immigrati extracomunitari.
Per contro, i commercianti più robusti, i liberi professionisti, gli artigiani, hanno realizzato forti aumenti di reddito e di ricchezza. Anch’essi si sono mossi lungo la piramide sociale, ma in direzione opposta: hanno guadagnato le prime posizioni, affiancando e (secondo autorevoli rilevazioni) talora superando i fin troppo remunerati manager delle imprese.
In questo modo si è prodotto un vuoto al centro della piramide: la classe media si è assottigliata, mentre si è allargata la forbice tra i primi e gli ultimi della scala sociale, con le contrapposte ricadute sulla nostra società.
Se è compito dei sociologi approfondire tutti i risvolti di questo fenomeno, una considerazione di ordine politico però si impone. Nessuna forza politica può attribuire la responsabilità esclusiva di questo sconvolgimento ai soli avversari. Nel decennio trascorso, tutti quanti, (partiti al governo e all’opposizione, indiscriminatamente), lo hanno sottovalutato, anche se le agevolazioni fiscali più recenti, insieme ai mancati controlli dei prezzi nel passaggio alla moneta unica europea, hanno contribuito ad aggravarlo e probabilmente a creare un nuovo blocco sociale nella parte alta della piramide.

La crisi economica in atto sta facendo il resto. Prospettive dalle quali si è autorizzati a trarre almeno una conclusione. La lotta politica tra esponenti di ideologie quali quelle in campo in Italia pare destinata a divenire sempre più aspra, stanti i divaricanti interessi sociali. Essi rischiano di sbranarsi ad ogni tornata elettorale, mentre dovrebbero riflettere sui rischi seri di una radicalizzazione selvaggia dello scontro e di un’ulteriore perdita della loro rappresentatività. Tutti costoro, al pari dei sindacati, devono chiedersi: dove abbiamo sbagliato? E anche, citando un noto testo letterario: a che punto è la notte?

   
   
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