Dicembre 2003

 

Indietro
Le Giravolte
AA.VV.
 
 

 

Mino Delle Site e il suo totale superamento dei confini della realtà terrestre sono i migliori testimonial del centenario del primo volo dei fratelli Wright.

 

La lirica del volo

Mino Delle Site

E’ encomiabile e lungimirante il lavoro che, in questi anni, Alitalia ha prodotto a sostegno dell’arte e in particolare quello delle mostre nelle Sale Aeroportuali italiane ed estere. Queste esposizioni hanno permesso ad un vastissimo pubblico di essere direttamente raggiunto dal carisma di un’opera originale, altrimenti difficilmente avvicinabile, nonché di essere coinvolto personalmente dalla bellezza che riescono ad esprimere, con le loro opere, i maestri italiani contemporanei.

A Mino Delle Site non sono certo mancati i riconoscimenti nel corso della sua lunga e fertile carriera artistica, ma non sono mai stati così numerosi e significativi come quelli dell’attuale periodo. E’ in questo fertile contesto che, armonicamente, si collocano una serie di coincidenze, non casuali e, al contempo, incisive, quali la personale voluta appunto da Alitalia dove, attraverso un’accurata selezione progettuale, operata fra le più rare e rappresentative opere degli anni ‘30, si esalta quel tratto lirico-cosmico che, da sempre, ha caratterizzato tutta la sua produzione artistica, riconfermandolo nel ruolo di aeropittore di spicco, proprio in occasione di quel particolare ventaglio di commemorazioni del volo che sta caratterizzando, nel mondo della globalizzazione, questo intero 2003.

Fa ancora parte di queste coincidenze o, se vogliamo, di queste convergenze, la determinante presenza delle opere del Maestro nella manifestazione espositiva “Volare!” già di ampia risonanza nazionale certificata da Palazzo Reale, a Milano, dove si sono potute riscoprire, contestualizzate in un ricercato percorso storico, tredici sue opere fra oli, pastelli, chine e sculture, peculiari di uno dei suoi momenti di più fulgida e fervida Aeropittura Futurista.
E’ ancora di questo magico periodo “Stormo”, un’opera del 1931, che è stata selezionata come la più rappresentativa per la celebrazione del “Columbus Day 2003” ed esposta nella mostra “In Volo Aeropittura Futurista” a New York presso l’Intrepid Sea-Air-Space Museum e di cui lo sponsor ufficiale, la Regione Lombardia, ha deciso la preziosa riproduzione artistica su seta stampata a mano in un numero limitato di copie riservate e donate unicamente alle autorità italiane e americane.
Ci sembra, a questo punto, logico e giusto attribuire a Mino Delle Site, in questo straordinario e miliare anno, interamente consacrato alle celebrazioni commemorative del centenario del volo dei fratelli Wright, il sensibile contributo che è riuscito a determinare rappresentando il totale superamento dei confini della realtà terrestre perché, come ha sottolineato di lui Giovanni Serrano nel 1932, «Ogni sua aeropittura contiene simultaneamente la visione completa di tutto lo spirito dell’epoca».

alitalia per l’arte

 

 

 

Perciò il movimento rallentava. Era come un lombrico gigante che deve spostare i suoi dieci miliardi di anelli per fare un centimetro di strada.

 

Gli scarabei

Notti al bistrot

Riunione d’amici in interno leccese
L’ultimo invitato arrivò alle tredici zerodue. Tutti si sforzavano per contenere l’ovvio disappunto. A capotavola il padrone di casa. Al suo fianco destro la padrona di casa. Al suo fianco destro il Signor A con relativa moglie al fianco destro. Al suo fianco destro il Signor B con relativa moglie al fianco destro.

Dall’altra parte a capotavola la Signora C, ospite esimia e assai gradita. Al suo fianco destro il Signor C, esimio e graditissimo marito di costei. Al suo fianco destro la Signora D con relativo marito al fianco destro. Al suo fianco destro la Signora E con relativo marito al fianco destro.
Dodici persone dodici a tavola. I gentili Signori in abito scuro in camicia bianca. Le gentili Signore in abito scuro da sera.
La tavola imbandita in tovaglia bianca bianchi fazzoletti bianco-argenteo stovigliame, nero vino nero.
Ore tredici zerodue. Ore tredici zerodue. Sempre ore tredici zerodue.
Sulle loro maschere bianche in bianca porcellana fessurate altezza iridi, i riflessi colorei del coloreo fruttame in central piatto. Disgustoso.

Spesso un incontro unico, cioè quello e mai più
Il giorno del matrimonio lei indossava un vestito lungo di seta azzurra cielo. Il viso piegato all’ingiù e gli occhi che sbirciavano, maliziosi, da sotto.
Lui era scalzo. Elegante e impeccabile, e scalzo.
Di amici ce n’erano il giusto. Non troppi. Non pochi. Il giusto. Il tempo rallentò fino quasi a fermarsi mentre ballavano. Erano tanti movimenti unici, spezzettati ma solo rispetto a se stessi. L’insieme sprizzava armonia.
Ognuno si osservava dall’alto, dal molto in alto. E aveva cosciente, viva, la sensazione della propria meravigliosa frazionalità. Perciò il movimento rallentava. Era come un lombrico gigante che deve spostare i suoi dieci miliardi di anelli per fare un centimetro di strada.
La musica non c’era. Del resto non c’è mai bisogno di musica quando si è musica. E ogni cosa non ebbe mai termine. Perché la felicità non ha confini né si espande.
Poi aprì gli occhi. Lei forse usciva presto quella mattina. Il letto e il cuscino a fianco a lui erano intatti. Forse non tornava proprio quella notte...
Già. Lei riposava e viveva e usciva e tornava e ogni cosa solo nella sua mente.

(Notti al bistrot) L’Angelo azzurro
Cala il sole. Cielo rosa rosso grigio topo blu nero. E’ ora. Cielo nero da un po’. Escono gli scarafaggi e invadono la città, occupandola capillarmente, via per via piazza per piazza locale per locale sedia per sedia. Al bistrot.
Intorno c’è musica e sorrisi e facce allegre o tese o stanche o stressate. E ragazzi e ragazze e uomini e donne che si sbirciano si osservano si guardano si cercano si trovano a volte combinano e proseguono di fuori. Oppure no.
Scorre poca acqua, della birra e un po’ d’alcool. Si mescolano incrociano uniscono gli elementi, le percentuali. Si agitano dei recipienti in alluminio argentati. I movimenti plastici delle barwomen a volte rallentano. Ciò dipende dall’armonia dell’insieme. Dalla quantità di onde che si muovono all’interno del locale e degli scarafaggi.
Qualcuno siede in un angolo. Oppure in un altro angolo. E osserva attraverso le sue speciali lenti blu dei suoi specialissimi occhiali blu. Gli piace credere di aver deposto le ali. Ma all’occorrenza sa di poterle inforcare in un attimo.
Per volar via, all’ora giusta, nel suo cielo sempre blu.

armando mancuso

 

 

 

La lingua italiana è destinata nel medio periodo a diventare una lingua semi-morta o addirittura morta?

 

Versi vernacoli

Voci del popolo

Una recente indagine ha messo in rilievo che gli italiani utilizzavano, nel non lontano 1975, una media di 1.600 vocaboli in lingua, mentre nel 2002 ne hanno utilizzato appena 650. La lingua sembra restringersi, prosciugarsi fatalmente, molto probabilmente condizionata dai mass media, col fenomeno speculare dell’avanzata della lingua inglese, agevolata dalla diffusione crescente dei computer. Dunque, siamo in presenza di una straordinaria involuzione dei nostri strumenti e modi espressivi, il che ci fa lasciare sul terreno una parte della nostra identità nazionale, della nostra stessa antropologia culturale. Allora: la lingua italiana è destinata nel medio periodo a diventare una lingua semi-morta o addirittura morta? E nel contesto europeo che si sta profilando avrà più diritto di cittadinanza?

L’indagine si ferma qui, senza offrirci analisi predittive. E in particolare non affronta una domanda complementare: che ruolo ha, nella comunicazione, il dialetto? Ecco: parlando di lingue vernacolari possiamo riferirci esclusivamente alla poesia. E in questo generale contesto (il mosaico di lingue tagliate che sono fiorite in Italia), si innesta il volume di Totò Fusaro, Autori matinesi, che raccoglie un gran numero di verseggiatori locali, di vario spessore, e di diversa caratura, tutti accomunati da schiettezza di sentimenti e semplicità di temi, come del resto richiede ogni esercizio di poesia nativa.

Numerosissimi gli autori (ma perché non è incluso, ad esempio, un Edmondo Angelè, che è stato uno dei più prolifici autori in vernacolo?), raccolti con paziente costanza da Fusaro in questo spaccato interessante soprattutto sotto il profilo dell’evoluzione del dialetto, del suo farsi mezzo espressivo a tratti anche più immediato della stessa lingua nobile. Nello stesso tempo, dunque, il dialetto conserva ed espande se stesso, coltivandosi, come in questo caso, in un coro di voci e in un mosaico di neologismi innestati con genuina sapienza popolare.

s.b.

 

 

Civiltà, storia e cultura sono quelle dell’universo contadino, della sua miseria e della sua lindura, della sua povertà e della sua pulizia morale.

 

Dentro le corti matinesi

Architettura spontanea

E’ quanto mai gratificante leggere un saggio sulle corti matinesi, sul tipo di architettura spontanea cioè che identifica e caratterizza il Salento e questa cittadina che fu patria di Raffaele Gentile, il massimo studioso italiano delle volte. E’ come scoprire un segno di continuità, non fosse altro che per l’attenzione di cui è stata oggetto quella che il più celebre “pellegrino di Puglia”, Cesare Brandi, definì la nostra ininterrotta civiltà neolitica, evolutasi con la liberazione delle campagne dagli ossi di pietra che le innervavano, e con l’uso di quella stessa pietra per la realizzazione di rustiche costruzioni a secco, rifugio di contadini e di animali, e di muri di confine e muricce di contenimento di gradoni anche terrazzati; e in seguito con ordinate sequenze di domestiche dimore negli splendidi centri storici salentini.

Autore del testo (La Corte Salentina nel Centro Storico di Matino) è un architetto, Giuseppe Romano, non nuovo a scritture sul tema, avendo già dato alle stampe un altro titolo (Matino. Valorizzazione Centro Storico. Esperienze ed analisi), anch’esso incentrato sulle case a corte. Dunque, un filone di scavo che prosegue, con un’esplorazione tecnico-professionale che tuttavia sottende i valori di una civiltà, di una storia e di una cultura. Civiltà, storia e cultura che sono quelle dell’universo contadino, della sua miseria e della sua lindura, della sua povertà e del suo gusto schietto, delle sue relazioni umane e sociali e della sua pulizia morale.
L’analisi approfondisce gli aspetti estetici, oltre che architettonici, delle corti matinesi, e individua le diverse tipologie curtensi, con le varie scansioni degli “interni” inclusi fra ingressi e parti terminali, con lo sviluppo dei rapporti sociali che quasi con naturalezza vi si innestavano, con l’antropologia umana che vi dominava. Ne emerge non tanto una narrazione divulgativa (i lessemi specialistici non lo consentono, eppure sono di rigore), quanto un discorso che induce ad altre e più larghe riflessioni sulla vita, sull’economia, sui comportamenti civici della comunità. E in questo contesto, un posto di rilievo ha quel poggiolo o ballatoio esterno noto come “mignano” (da C. Maenius, che per primo lo introdusse negli edifici già nel III secolo a.C.): luogo di lavoro e d’incontro particolarmente per le donne, le quali, comunque, se ne varcavano senza motivo il limite – avverte l’Autore – erano considerate di strada. E, insieme col mignano, sono presenti altri servizi, privati o collettivi: la cisterna (“pustale”), il deposito per il traino (“sappuertu” o “simpuertu”), l’uscita posteriore (“ssuta”) su un orticello adatto alla coltivazione di ortaggi e spezie, e ancora scale, pile, edicole votive...
Più complesso il discorso su quella che Luca Pacioli, nel 1509, definì la “Divina Proportione”, e che nel XIX secolo divenne la “Sezione aurea” che presiede alla proporzione estetica di un edificio, in rapporto alla figura umana. I proporzionamenti statici e dinamici (riportati negli schemi) sono simultaneamente esemplati in una sorta di antologia fotografica, filtrata dagli obiettivi di Walter Sabato.
Due curiosità, infine. Romano riporta: «E’ un diploma rilasciato nel 1099 da Goffredo, conte normanno di Nardò, in cui leggiamo per la prima volta il nome di Matino insieme con la Chiesa di Santa Anastasia». E, in un bel segnalibro, quasi a coronamento del saggio, versi in dialetto matinese di Giuseppe Greco, con la splendida chiusura: «Vversu sira / cuncertu te memorie / a llu silenziu / t’intr’a ddhre corti e / dde ddhre strittuleddhre». Per la traduzione di Rossella Cacciatore: «Verso sera / sinfonie di ricordi / nel silenzio / di quelle corti e / di quei vicoli».

aldo bello

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003