Dicembre 2003

Il colore del sud

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Il Natale
nel folklore salentino
Rossella Barletta
 
 

 

 

 

Tutto era
all’insegna
dell’eccezionale
abbondanza,
perfino le lucerne dovevano essere traboccanti di olio e il fuoco si
alimentava con
insoliti grossi ceppi perché “te Natale puru lu fuecu s’ha binchiare”.

 

Tra i luoghi comuni con i quali intercaliamo il parlare quotidiano, almeno due ricorrono con frequenza e si riferiscono alle stagioni intermedie, che si sono irrimediabilmente cancellate, e alle feste del calendario liturgico, che non si vivono più come una volta.
Per queste ultime, probabilmente, vogliamo intendere che si è del tutto rarefatta quell’impalpabile atmosfera fiabesca, quel senso di stupore che ci pervadeva, più in età infantile che adolescenziale, all’approssimarsi del tanto atteso Natale, quando, non sapendo ancora di dover riporre nella nascita del Bambino il significato religioso della speranza, vivevamo la festa con estrema semplicità, come vedevamo fare agli adulti.
Le feste che ci appaiono trasformate seguono nient’altro che la naturale evoluzione dei costumi sociali; della ritualità di un tempo, conservano tracce labilissime, a volte riproposte con ben altro spirito. Forse pochi sanno che i regali che ci scambiamo sotto l’albero di Natale mantengono intatto l’intrinseco messaggio beneaugurante che aveva, per esempio, per i nostri nonni, la strina rappresentata da una modesta, apprezzatissima arancia o lo scambio del pane appena sfornato o alcune parti del maiale ammazzato e perfino il lievito. E il gesto faceva sentire più vicini nei momenti del bisogno.

Da qualche anno, in sempre più numerosi centri del Salento, vengono allestiti presepi viventi animati da personaggi che ripropongono attività della vita quotidiana ormai passata e che usano antichi oggetti da collezionismo etnografico, spesso sono un’esposizione di materiale tradizionale troppo edulcorata e romantica. L’ultima tappa del percorso presepiale quasi sempre si conclude con la degustazione di prodotti tipici locali che registra l’affollamento dei visitatori.
Ci si chiede come mai si verifichi una così vasta partecipazione di pubblico: evidentemente non gioca un ruolo decisivo soltanto la semplicità dell’ambientazione o la riproposta della quotidianità del passato, ma la consapevolezza di possedere un’eredità di valori da salvare.
Vedere un presepe, vivente o con figure statiche, può diventare un’interessante occasione per capire l’ambiente economico in cui si svolgevano le attività artigianali e agricole delle generazioni precedenti nonché i comportamenti sociali; per conoscere i linguaggi usati nei mestieri per indicare strumenti, attrezzi, contenitori per il trasporto, costruiti con adattamenti locali; i rapporti con gli animali e le esigenze del loro allevamento, in un rapporto di mutua integrazione con l’uomo; le abitazioni rurali, coi materiali impiegati e le suppellettili d’arredo, strutturate per le già dette esigenze, per quelle della famiglia e per la conservazione dei prodotti agricoli; gli usi e le consuetudini col loro risvolto storico-culturale originario.
Tra questi usi, un posto di rilievo è occupato dal cibo, quotidiano, devozionale e quello che si preparava eccezionalmente per le feste; dalle condizioni e dai disagi alimentari vissuti, dal cibo visto come miraggio e dai surrogati che, fino agli ultimi anni Cinquanta del Novecento, sostituivano i cereali maggiori per fare, per esempio, il pane, alimento a cui si ricorreva per sfamarsi e che spesso e volentieri letteralmente mancava.
In proposito diventa estremamente interessante sapere che proprio il consumo del pane – ma anche del pesce – rivelava sostanziali differenze sociali tra i “mangiatori di pane bianco”, i ceti benestanti, e i “mangiatori di pane nero”, i ceti popolari; i ricchi erano consumatori di pesce fresco e i poveri di pesce conservato, salato o essiccato, tra cui il comunissimo ed economicissimo baccalà che, comunque, si cucinava soltanto per le feste.

E si potrebbe continuare parlando ancora della disponibilità alimentare nei periodi dell’anno: soddisfacente o maggiore in estate, quasi nulla in inverno, prevalentemente per i ceti disagiati; della gioia dell’attesa di poter gustare i dolci... quando si avvicinava il Natale e qualsiasi gesto o piatto assumeva una rispettosa sacralità. Come sacrale era il mangiare insieme, dividendo con gli altri la stessa pietanza, per poca che fosse, perché così si rinsaldava il vincolo tra parenti e amici.
Probabilmente attraverso questa lente d’osservazione (non l’unica) l’annuale allestimento dei presepi non apparirà un recupero – a volte nostalgico, certamente impossibile – della società passata, ma una rivisitazione delle testimonianze di lavoro, di cultura, di tradizioni, ben sapendo che la comprensione sarà difficile a chi ha disponibilità e sensibilità completamente diverse.


Calendario rituale

La società rurale non ha mai avuto familiarità e dimestichezza con le date del calendario ufficiale, ritenendole astratte e non funzionali ai ritmi e ai cicli stagionali. Non ricorrendo alle cifre, si è costruito un proprio calendario (diverso da quello della città), fondato sui santi e le celebrazioni liturgiche, meglio memorizzati perché connessi al ritmo degli eventi agricoli, e connaturato alla mentalità contadina.
Dicembre è il mese più ricco di santi e di riti sacri che culminano il 25, non soltanto giorno di Natale, ma data significativa dal punto di vista meteorologico-agricolo.
Dalla quarta domenica precedente il 25 dicembre, l’Avvento – dal latino adventus, venuta – dà inizio all’anno liturgico, al periodo di preparazione all’evento che ha cambiato il corso dell’umanità ovvero al tempo che precede la rinascita del sole solstiziale, del sole bambino, del Sole Invitto (la nascita di Cristo), annunciato dai profeti nell’Antico Testamento.
L’inizio dell’Avvento coincidente con l’autunno inoltrato prossimo al rigido inverno, non rappresentava soltanto il periodo di penitenza da rispettare, ma era associato ai lavori da effettuare in campagna.
Non è casuale che nel periodo dell’Avvento si festeggino santi cristiani legati al Natale e al suo sincretismo culturale, la cui e vocazione è contenuta in detti, proverbi, modi di dire che racchiudono prevalentemente previsioni atmosferiche legate al tempo lavorativo.
Apre l’elenco S. Nicola di Myra, benevolo protettore delle più svariate categorie di persone, nonché dei bambini, ricordato solennemente il 6 dicembre a Bari – di cui è patrono principale e dove i suoi resti furono trafugati nel 1087 –, festeggiato in altri tredici centri in Puglia e in provincia di Lecce, dov’è invocato dalle fanciulle in età da marito, ma ancora zitelle in affannosa ricerca dell’altra metà. In seguito ad una radicale metamorfosi è popolarmente conosciuto come Santa Claus, ossia Babbo Natale.

Il periodo natalizio che oggi trascorriamo tra banchetti e giochi d’azzardo rinvia ai Saturnali (celebrati fra il 13 e il 23 dicembre), quando erano permessi tali giochi (prevalentemente coi dadi) perché considerati rituali e divinatori, riscontrabili nell’intramontabile gioco della tombola e nell’ormai dimenticato gioco con l’aliosso o astragalo, cuntrice o pallice nel dialetto leccese, che è l’osso del tallone delle zampe posteriori degli agnelli.
Ogni famiglia aveva le proprie regole che applicava quando giocava con gli aliossi – con i quali si intrattenevano chiassosamente non soltanto bambini, ma pure adulti –, e usava ormai memorabili espressioni per commentare l’andamento del gioco; per esempio, quando l’astragalo cadeva di vincita, ma non reggeva in tale posizione, si sentiva dire: inta stuccata, persa chiamata: vincita soffiata, perdita assicurata.
Nei confronti dell’Immacolata Concezione l’intera comunità salentina tuttora tributa una particolare devozione, oltre che con i rituali religiosi (novena e processione), nel rispettare il digiuno il giorno di vigilia, il 7 dicembre.
La pratica del digiuno, inteso dalla Chiesa quale forma rituale di sacrificio e di purificazione del corpo e dell’anima, originariamente iniziava il mattino e durava fino all’Avemaria (attuali ore 19); in tempi recenti, mitigando la regola al riguardo, il digiuno termina a mezzogiorno quando si usa mangiare la puccia, un piccolo pane molto soffice, preparato con lo stesso impasto del pane, ma più diluito con acqua, cotto al forno di pietra soltanto qualche minuto, tant’è che si definisce puccia alla vampa, puccia (cotta) appena alla fiamma.
La semplicità degli ingredienti e il simbolo della purezza e della verginità (che rimanda a quella dell’Immacolata), cioè l’abbondante fior di farina che si spolvera sulla puccia appena sfornata, si addicono al rito del digiuno.
In alcuni paesi a vocazione agricola, nell’impasto si aggiungono olive nere da poco raccolte e che, a dicembre, non ancora mature, sono alquanto aspre; proprio questo gusto conferisce alla puccia l’allusivo carattere penitenziale. Questo pane devozionale si gusta tuttora imbottendolo con ingredienti rigorosamente di magro che si sposano mirabilmente con la soffice mollica: tonno e capperi o pesciolini sott’aceto, formaggio “svizzero” e pezzetti di capetune, anguilla marinata.
Era ed è rigorosamente vietato mangiare carne perché non si doveva ncammerare, ossia interrompere il digiuno prescritto dalla Chiesa e consumare cibi a base di carne il giorno consacrato al digiuno e all’astinenza.
Il giorno del digiuno era rispettata (in alcuni casi lo è ancora) una simpatica consuetudine: i datori di lavoro provvedevano ad offrire le tradizionali pucce ai propri dipendenti, che se le marendavano, le consumavano nella pausa della merenda.
Un’ingenua credenza interessava, invece, i bambini e la possibilità di ricevere un dente d’oro: per indurli a non mangiare fino a mezzogiorno, erano adescati col premio del dente d’oro che la Madonna faceva uscire a chi avesse osservato strettamente il digiuno e, sicuri di aver digiunato a modo loro, al passaggio della processione aprivano la bocca perché la Madonna ve lo lasciasse cadere quale premio della penitenza eseguita. Naturalmente la loro speranza veniva sempre delusa!

Secondo il detto: sule trasutu, desciunu furnutu, sole tramontato, digiuno finito (assolto, osservato), oltre alla puccia si mangiavano le tradizionali pittule (con le diverse ortografie dialettali: pèttula, pèttola, pèttule, piccola pezza ed anche focaccia, dal latino pitta), che cominciavano a farsi proprio il 7 dicembre, come decretava il detto: Te la Mmaculata, la prima pittulata, dell’Immacolata (si preparano) le prime pittule. A Galatone, in concomitanza con la preparazione delle gustose frittelle, la Madonna Immacolata era confidenzialmente chiamata dal popolo “Madonna delle Pettole”.
Le pittule sono ottenute con pasta lievitata a lungo, che si lascia cadere nell’olio bollente dalla mano chiusa a pugno; la crosticina croccante che si forma deve racchiudere un impasto particolarmente morbido, quasi spugnoso, e per ottenerlo è importante rispettare il tempo della lievitazione che, altrimenti, può pregiudicare la bontà della frittella. Per gustarle al meglio, le pittule vanno mangiate calde, appena tolte dall’olio di frittura; il breve tempo che intercorre tra la cottura e la degustazione sta alla base del detto: e ce be’... pittula, volendo alludere a questa particolarità di tempi brevissimi che, tuttavia, concludono un preliminare per niente breve, appropriatamente espresso dal verbo “temperare”, ossia lavorare molto e a lungo; anzi, nel vecchio linguaggio vernacolare si diceva ttrimpare, dal latino temperare, mescolare in proporzione, mitigare, dare la tempra ai metalli e indurirli.
Alla variante “rustica” delle pittule, ottenute friggendo la semplice pasta lievitata o aggiungendovi pezzetti di cavolfiore o di baccalà lessi o filetti di acciughe o di pomodoro, capperi, olive nere snocciolate, si affianca la versione dolce: dopo averle fritte, le pittule vengono cosparse di miele o inzuppate nel vincotto, che si ottiene facendo bollire il mosto fino a farlo diventare denso come uno sciroppo.

Al giorno della festa che ricorda Santa Lucia, vergine siracusana – martirizzata il 13 dicembre del 304 sotto Diocleziano –, promessa e segno di luce materiale, di future giornate luminose ormai lontane dal buio inverno, si lega il gruppo più numeroso di proverbi tra quelli dell’intero ciclo annuale, collegabili a fenomeni astronomici e principalmente alle date dei solstizi e degli equinozi.
Il fenomeno certamente di più immediato interesse per l’uomo è stato l’alternarsi del giorno e della notte in quanto ad esso si legavano aspetti ed episodi della vita pratica. Oggi su questi legami non ci soffermiamo più di tanto, ma in passato, quando le attività lavorative erano in gran parte regolate dagli eventi naturali, tali legami erano strettissimi e rispettati; un’eco è rimasta nei proverbi, efficaci ed espressivi quanto mai.
Quello che recita: Te Santa Lucia llunghisce la tia quant’all’ecchi te l’addhrina mia (Di Santa Lucia si allunga il giorno quanto gli occhi della gallina mia) si riferisce all’allungamento del giorno in attesa del solstizio d’inverno e contiene una tacita invocazione al ritorno della luce.
Una variante del proverbio racchiude la versione più vera del fenomeno astronomico: Te Santa Lucia ncurtisce la tia..., a Santa Lucia si accorcia il giorno..., perché, in verità, le giornate dal 13 al 20 dicembre diminuiscono sia pure di pochi minuti, aumentando più sensibilmente soltanto verso il 25. Bisogna attendere l’Epifania (6 gennaio) per vedere il sole un po’ più alto nel cielo, o addirittura il 2 febbraio (della Candelora), quando è evidente che la luce del giorno è cresciuta di un’ora e si può avere la certezza che la buona stagione non tarderà a venire.
Indubbiamente la tradizione di offrire doni ai bambini nel giorno di S. Lucia (e di S. Nicola a Bari e dintorni), in vigore tuttora in alcune regioni dell’Italia settentrionale, si richiama all’uso pagano di portare offerte al Sole appena nato, al Sole bambino, nel giorno del solstizio invernale. Questo uso, di riflesso, lo possiamo riscontrare nei doni che i pastori di terracotta, i caratteristici pupi del presepe, recano a Gesù Bambino.
A Lecce il giorno di S. Lucia si dà inizio alla tradizionale antichissima fiera dei pastori e del presepe, già semplicemente fiera di S. Lucia, che annuncia ufficialmente l’inizio del periodo natalizio. Protagoniste assolute sono quelle graziose figurine di creta prodotte per popolare il presepe tradizionale e che riproducono momenti di lavoro (il pascolo, la vendita di uova, la tessitura, ecc.), di svago (l’albero della cuccagna), di commercio (ambulanti, ortolani, pizzicagnoli), assieme a taglialegna, ciabattini, arrotini.
Tra gli esemplari non manca il gruppo della Natività o Sacra Famiglia, alcuni personaggi da situare nei pressi della grotta come lu santu Sciuliesciu, San Silvestro, il primo pastore a raggiungerla nella notte di Natale; lu uarda stelle, il guarda stelle, vestito solitamente di una pelle di pecora (il primo ad accorgersi della cometa e ad avvisare gli altri del lieto evento); i tre Re Magi (Gaspare, Melchiorre e Baldassarre), in groppa ad un dromedario, affiancati dai rispettivi palafrenieri o valletti, li vulanti de li re Magi, simili per età e origine ai rispettivi cavalieri che sono raffigurati da uno di età avanzata, uno di carnagione scura e un altro di età giovanile.

Da Santa Lucia a Natale... corrono appena dodici giorni tra il 13 dicembre e il Natale, che volano in un baleno tra i preparativi per la festa. A questo periodo il popolo faceva corrispondere i dodici mesi dell’anno seguente, le cosiddette Calen-nule, Calendule, traendo auspici sul carattere meteorico di ognuno di essi, osservando quello di ciascun giorno successivo a Santa Lucia e fino a Natale.
Nel senso che se il giorno 14 che corrisponde a gennaio, sarà bello, gennaio sarà anche bello; se il 15, che è febbraio, sarà piovoso, piovoso sarà quel mese; se il 16 è ventoso, tale pure sarà il mese che gli corrisponde, e così via.
Un secondo pronostico dei singoli mesi dell’anno di riprova, che deve confermare o modificare in parte il primo, va dal 26 dicembre al 6 gennaio e il 25 dicembre viene considerato il baricentro fra le due sezioni simmetriche. Volendo sapere, per esempio, il tempo del mese di marzo, si osserva il tempo del 15 dicembre e poi si attende la conferma del 28 dicembre: se questa viene, il pronostico è sicurissimo; se la seconda predizione contraddice la prima, vuol dire che il mese sarà incostante.
Con la ricorrenza di Santa Lucia si entra nel clima natalizio e l’acquisto dei pupi ricorda a tutti che è tempo di preparare il presepe; quello salentino è mosso da un paesaggio roccioso caratterizzato da valli e strapiombi ottenuti manipolando in modo molto approssimativo carta di giornale che, una volta indurita, si riveste con altra carta non stampata dipingendola con tonalità di verde e marrone, su cui successivamente si collocano modelli di abitazioni popolari e costruzioni turrite. Stagni e rigagnoli pieni di immaginaria acqua danno l’idea della frescura e permettono al pescatore di pescare o al gruppo di paperelle di abbeverarsi; l’uso di collocare rametti di mortella, lentisco, ginepro veniva dalla credenza che queste piante scacciassero le streghe e gli influssi maligni.
Sulle alture si collocano i Magi coi palafrenieri che si fanno avanzare lentamente dal 24 dicembre in poi, fino a collocarli dinanzi alla grotta il 6 gennaio, mentre sul piano si collocano le figurine raffiguranti il popolo minuto, intento alle attività e ai mestieri della vita quotidiana, in una mescolanza pullulante di lavori e di personaggi sacri, confondendosi in questo “specchio” dei tempi.

Qualcuno si diverte ad incastonare conchiglie marine (particolarmente cuzzìuli) sulle casette e sulla grotta; tra i più belli di questo genere si ricordano i presepi realizzati dall’artista Stanislao Sidoti (1873-1922), che utilizzò esclusivamente conchiglie di sorprendente luminosità, dando agli stessi presepi una struttura spiraliforme.
A molti apparirà strana la collocazione nel presepe di mura merlate, di porte che circondano vecchie città, di castelli e fortificazioni distribuiti su di un terreno sassoso e arido: sono particolari verosimili, riscontrabili a Gerusalemme, situata su di un disteso altopiano leggermente ondulato, alto 700 metri sul livello del mare, dove la vegetazione spontanea è costituita prevalentemente da cespugli e arbusti su di un terreno sassoso e arido per la gran parte.
Solitamente al centro della scena si colloca, come si è già detto, la grotta che ospita la Matonna, la Madonna, San Giseppu, San Giuseppe, la mangiatoia dove si deporrà lu Mmamminu, Gesù Bambino e, sul retro di questa, le statuine del bue e dell’asinello, lu bue e l’asinellu, così tradotti eccezionalmente perché nel linguaggio dialettale corrente il bue è detto oi e l’asinello ciucciarieddhru.
«La grotta, nel simbolismo precristiano cui si ispiravano anche gli autori dei Vangeli apocrifi, era il simbolo del cosmo, l’imago mundi e anche il luogo di nascita di molti dèi: Dioniso, ad esempio, vi nasce, e la sua nascita è avvolta di luce; anche Hermes nasce in una grotta, sul monte Cilene, e Zeus in un antro sul monte Diktos, mentre Mitra sorge da una roccia» (CATTABIANI).


Usanze gastronomiche

Già dal giorno di Santa Lucia le cucine del Salento cominciano ad animarsi di un’attività febbrile che vede riunite le componenti femminili della famiglia, interpreti magistrali di un antico copione che si rinnova nei ruoli di chi impasta, ritaglia, frigge, decora, compone.
La preparazione dei dolci natalizi è parte integrante di una liturgia domestica fortunatamente conservatasi immutata nei gesti da cui scaturiscono purceddhruzzi, ncarteddhrate e pasta di mandorla, un tempo doni di scambio tra familiari e i vicini di casa.
Del tutto scomparsa la consuetudine di preparare un pane speciale chiamato natale, un ciambellone ripieno di uva passa, fichi, noci, mandorle e miele, che si gustava accompagnandolo con un bicchierino te rosoliu, un liquore fatto in casa.


La vigilia di Natale

Era un giorno di rigoroso digiuno perché, recita un antico proverbio, ci nu fasce lu degiunu te Natale, o ca è turchiu o ca è cane... o nu ttene mancu pane, chi non fa il digiuno a Natale o è turco (ateo, non credente) o è cane... o non ha nemmeno pane, che terminava col cenone, così detto per il numero di pietanze contemplate, nove o tredici, tra cui le immancabili pittule, le rape caule (dal latino rapae caules) lesse e ‘nfucate, affogate, gli spaghetti alla pizzaiola, la spicanarda, spiganarda col sugo di baccalà, le verdure fresche, la frutta secca, l’anguilla o il capitone arrostito o fritto, i purceddhruzzi e le ncarteddhrate.
Tutto era all’insegna dell’eccezionale abbondanza, perfino le lucerne dovevano essere traboccanti di olio e il fuoco nel camino o, meglio, nel focolare posizionato nella cucina o “stanza del fuoco”, si alimentava con insoliti grossi ceppi perché te Natale puru lu fuecu s’ha binchiare, a Natale anche il fuoco si deve saziare di legna.
Ai pasti festivi devono partecipare tutti i componenti della famiglia, intanto perché ci mangia sulu scatta, chi mangia da solo scoppia, poi per rinsaldare i vincoli di parentela e per rinnovare credenze radicate nella società tradizionale, tra cui quella che mangiare insieme aveva valore sacrale, come ricordano i proverbi locali (comuni in moltissimi dialetti regionali): Natale cu lli toi, Pasca cu cci uei o a ddu uei o a ddu te ttrei, Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi o dove vuoi o dove ti trovi, e se c’è qualcuno che non ha potuto raggiungere la propria famiglia lontana, per la circostanza lo si invita considerandolo come un parente.
Le pietanze si dovevano consumare prima della mezzanotte per permettere ai commensali di assistere alla messa nella più vicina chiesa, annunziata dai rintocchi della campana; la tavola imbandita non si disfaceva per consentire ai defunti, che si credeva ritornassero sulla terra il giorno di Natale, di poter assaggiare ciò che si lasciava appositamente. Prima di recarsi in chiesa si controllava che il ceppo, generalmente di quercia, precedentemente posto nel camino dal capofamiglia dopo averlo spruzzato con acqua benedetta, ardesse con vivacità. Una volta consumatosi, le sue ceneri, ritenute apotropaiche, si conservavano gelosamente perché si credeva che guarissero da alcune malattie e allontanassero gravi calamità naturali.
Terminato il cenone (o prima, a seconda delle abitudini di ciascuna famiglia), si usava mintere lu Mamminu, mettere il Bambino, e questo incarico era devoluto al più piccolo dei presenti, mentre gli altri, reggendo in mano candeline accese cantavano “Tu scendi dalle stelle” (composto nel periodo natalizio del 1754 da S. Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), ospite a Nola della famiglia Zamparelli.
Al mettere, ma anche quando se llea lu Mmamminu, si toglie il Bambino, si facevano bruciare alcuni profumi: grani d’incenso, bucce d’arancia, zucchero, per profumare l’aria e, mentre in strada si sentiva il fracasso di tricchi-tracchi, mortaretti, di trunetti, piccoli fuochi d’artificio, fatti scoppiare in segno di giubilo, i più piccoli recitavano i sunetti, componimenti in prosa contenenti un elogio a Gesù Bambino, dal carattere popolare e, quasi sempre, conditi con un pizzico di umorismo.

E’ nato un bel bambino
biancu e russu comu nu milu


I Vangeli non dicono nulla sul giorno della nascita di Gesù e anche la Chiesa paleocristiana non la celebrava, benché il soggetto della Natività compaia in affreschi catacombali del II-IV secolo a.C. e in bassorilievi di sarcofaghi del IV secolo a.C.; d’altronde, nessuno allora sapeva in quale anno fosse nato Gesù, come del resto tuttora si ignora. Alcuni antichi Padri della Chiesa dissero che nacque il 20 marzo, altri il 20 aprile e la Chiesa Orientale il 6 gennaio. Col tempo, tuttavia, i Cristiani d’Egitto, non si sa bene in base a quali deduzioni, cominciarono a considerare proprio il 6 gennaio come la data più probabile della Natività, e l’usanza di celebrarla in quel giorno si diffuse gradualmente fino a che, nel IV secolo, fu universalmente stabilita in Oriente.
Attraverso quali considerazioni i Padri della Chiesa, sempre nel IV secolo, stabilirono di fissare al 25 dicembre la data della nascita di Gesù? Certamente mutuando diversi usi pagani. In Siria e in Egitto al solstizio d’inverno i celebranti si ritiravano in certi santuari da cui uscivano a mezzanotte gridando: «La vergine ha partorito! La luce cresce», riferendosi alla grande dea orientale, una forma di Astante, chiamata la Dea Celeste. Gli Egiziani, inoltre, rappresentavano il sole appena nato con l’immagine di un bambino che mostravano agli adoratori presenti.

La religione mitraica (che contese la supremazia al cristianesimo durante i primi quattro secoli dell’èra cristiana), nata in Persia verso il 60 a.C., collegata al “dio della luce” Mitra che fecondava la terra e dava origine alla vita, celebrava il 25 dicembre una festa solenne, il dies natalis solis invicti, la nascita del sole vincente (sulle tenebre invernali).
Ragioni di opportunità portarono a scegliere la data del 25 dicembre (data simbolica, s’intende, non storica), per celebrare l’“adorazione” di Colui che era chiamato il Sole della Giustizia e che del sole era il creatore, ossia la nascita di Gesù, e quella del 6 gennaio per la ricorrenza dell’Epifania.
Cristo, nato in un mondo di tenebre per portarvi la luce, è stato fatto nascere nel giorno del solstizio d’inverno che segna la massima declinazione del sole; è il giorno in cui la morte apparente della natura invernale e delle giornate che si abbreviano raggiunge il suo apice, ma è anche il giorno a partire dal quale la luce del sole si allunga, ricomincia a rubare tempo alle tenebre. Moltissimi i proverbi che ribadiscono questa peculiarità.
«Ma – e non sembri un paradosso – più che alla terra il contadino guarda il cielo, là dove è possibile scorgere gli indizi e i presagi del nuovo che, misteriosamente, sarà simile al vecchio, perché niente nel mondo sublunare si configura come l’assoluta novità» (CAMPORESI).

Nel mondo contadino, il Natale rimaneva una data solstiziale, vissuta, nella notte di vigilia, come momento intriso di magia, dedicato ai presagi; come gli antichi cercavano nella posizione degli astri un indizio per ricavarne auspici, così i contadini scrutavano il cielo e il tramonto nella notte di Natale per decifrare possibili andamenti dell’annata agricola: la luna calante non promette nulla di buono, la luna crescente fa ben sperare; il tramonto in un cielo limpido è buon auspicio.
Il Natale rappresentava la data di passaggio tra un’annata agricola e l’altra, il periodo di tregua tra le operazioni dell’autunno e quelle dell’inverno e della primavera successiva, originando una proficua serie di proverbi meteorologici.

   
   
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