Dicembre 2003

Musicisti salentini

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Cafaro, per esempio,
per non dimenticare
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

Ci sono,
in terra salentina, compositori,
musicologi,
musicofili,
esecutori di ottimo livello, ma troppo spesso isolati.

 

E’ stato scritto che la musica sacra italiana del XVIII secolo costituisce un repertorio in grandissima parte ancora da esplorare, la cui conoscenza rimane affidata a pochi capolavori isolati, in attesa di ricognizioni sistematiche su generi, forme, stili e centri di produzione, nonché di più frequenti iniziative di edizioni critiche dei testi, esecutive e discografiche, che consentano agli studiosi e agli appassionati di venire a contatto con autori meritevoli di attenzione.
La notazione è di un fine saggista, Lucio Tufano, il quale a suo tempo accolse con un plauso schietto l’apparizione del pregevole “Stabat mater” del galatinese Pasquale Cafaro, riproposto in edizione moderna da Giovanni Acciai e Marco Berrini. Penso, fra l’altro, ad alcuni autori piuttosto negletti, due matinesi che hanno svolto ruoli importanti nel campo della creatività musicale, lo Scarlino, immeritatamente noto solo in ambito meridionale, e il Romano, di cui dovrebbero esistere nella discoregistroteca della Rai di Torino documenti musicali anch’essi di grande respiro e spessore: ma l’uno e l’altro stratificati nelle pagine ingiallite delle antologie d’antan, mentre la loro modernità andrebbe scandagliata e riproposta all’attenzione dei musicofili, e perché no, dei compositori dei nostri giorni come lezione di continuità della tradizione melodica italiana, se vogliamo dal Cafaro ai nostri giorni.

Cafaro, infatti, fu personaggio di gran rilievo nell’affollato panorama della Napoli musicale del Settecento, dal momento che «nel catalogo delle sue opere è dato rinvenire melodrammi, cantate e pezzi sacri, ma la fama che egli si guadagnò presso i contemporanei va ricondotta anche e soprattutto alle sue capacità di didatta, che gli valsero l’incarico di maestro di musica della regina Maria Carolina».

Il suo “Stabat” è datato 1785, dunque appartiene all’estrema maturità, visto che precedette di due anni soltanto la morte del compositore: un compositore longevo, vista l’età media dell’epoca. E caso rarissimo rispetto alle consuetudini coeve, l’opera fu pubblicata a stampa, «e in ciò è probabilmente da vedere una riprova, e, insieme, un effetto del prestigio di cui l’autore godeva e dei suoi ottimi rapporti con la corte napoletana». Il saggista sottolinea che nella sua dedica ai sovrani partenopei Cafaro non nascose il proprio timore ad intonare la sequenza latina dopo l’inarrivabile esempio del Pergolesi, e indicò quale occasione e destinazione del lavoro l’annuale celebrazione dei “dolori di Maria” presso la Chiesa della Solitaria.
Questa straordinaria composizione, che il frontespizio settecentesco designa “musica a quattro voci e a due in canone con violini, viola e basso”, è formata da undici sezioni, che frammentano il testo in porzioni di estensione variabile da una a quattro terzine: il principio organizzativo che ne costituisce la successione è l’alternanza tra duetti in canone e brani a quattro voci. I duetti non sviluppano rigorosamente il procedimento canonico, (introdotto dagli archi che ne anticipano l’intreccio, le due voci vengono condotte in imitazione per lungo tratto, ma poi si appaiono in estese formule cadenzali, come rileva Tufano), e mostrano una certa uniformità e ripetitività di trattamento, sebbene Cafaro sappia creare atmosfere espressive differenziate, assecondando le suggestioni del testo: una limpida dolcezza permea, ad esempio, il “Vidit suum”, mentre il “Fac me tecum” è molto intenso e dolente.
Più vario e brillante è lo stile delle cinque sezioni a quattro voci, nelle quali il compositore impiega, con dosaggio calibrato e sapiente, modi di scrittura diversi: il discorso vocale assembla blocchi omoritmici, episodi imitativi e scambi “dialogici” tra le parti, mentre nello strumentale emergono forme di accompagnamento solitamente poco elaborate, senza che manchino passi nei quali il soprano sviluppa da solo linee melodiche estese oppure, o insieme, fiorite, che a volte ingannano chi scorre la partitura, inducendo a credere di trovarsi di fronte ad un’aria solistica.
Come rileva il critico, sarebbe interessante «conoscere l’organico per il quale la composizione venne concepita: momenti come quelli appena menzionati sembrano suggerire – pur in presenza di specifiche indicazioni in tal senso – una giustapposizione solista/coro all’interno delle sezioni a quattro voci, ma è anche possibile ipotizzare che queste ultime fossero pensate per un’esecuzione affidata ad un solo cantante per ciascuna parte». In conclusione, lo “Stabat” di Cafaro esemplifica una convivenza in vivace osmosi tra antico e moderno, tra severità contrappuntistica e brillanti disinvolture che ammiccano anche ai generi profani.

Ci sono, in terra salentina, compositori, musicologi, musicofili, esecutori di ottimo livello, ma troppo spesso isolati, eroicamente impegnati a portare avanti attività professionali e iniziative di promozione della cultura musicale. Forse, una maggiore attenzione delle istituzioni pubbliche potrebbe aiutare costoro a progettare percorsi conoscitivi e di divulgazione, cioè di educazione della gente all’ascolto, senza dubbio di grande valore, anche sociale. Non a caso il gusto della gente si è affinato e la domanda di scoperte e di riscoperte culturali è notevolmente cresciuta in questi ultimi anni.
Cominciare dai propri autori, riproporli in chiave di avvio di una lettura rigorosa di opere di alta caratura può significare ristabilimento di un “contatto” selettivo e scandito per valori con gli uomini più rappresentativi di quella che è stata genericamente (e quasi indistintamente) definita “Scuola napoletana”, nella quale ebbero diritto di cittadinanza compositori pugliesi di prima grandezza. Vale la pena di promuovere un progetto del genere, anche per mettere allo scoperto uno strato nobile ma finora negletto dei nostri giacimenti culturali.

   
   
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