Dicembre 2003

Don Tonino, lo scandalo della pace

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L’eco della profezia
Antonio Sanfrancesco
 
 

 

 

Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio
finale che chiuda la partita:
bisognerà sempre giocare ulteriori tempi
supplementari.
don Tonino

 

 

«La pietra rigettata da quelli che presumevano di costruire è stata posta come chiave di volta dal Signore: ed è miracolo agli occhi nostri» (Salmo 117). Di questo “miracolo” fu capace don Tonino Bello nella sua vita e nella sua missione episcopale: guardare, sull’esempio di Gesù, alle pietre di scarto rendendole “chiavi di volta”: a voi che non fate la storia, – diceva – a voi che non contate agli occhi degli uomini ma che siete grandi agli occhi di Dio, deve essere data l’opportunità di diventare cittadini, e questa non è una concessione magnanima ma una questione di giustizia. Audiant et laetentur recitava, non a caso, il suo stemma episcopale: «Ascoltino gli umili e si rallegrino».

A dieci anni dalla morte – si spense il 20 aprile 1993 – la sua figura si impone luminosa per quella umiltà divenuta regola di vita e per l’impegno ardente a favore della pace, intesa come “convivialità delle differenze” e portata avanti senza accettare compromessi, animato da una gioiosa intransigenza che lo spinse – lui, fiaccato dalla malattia – a Sarajevo, per una difficilissima testimonianza nel teatro della guerra del Golfo.

Mons. Antonio Bello (ma a lui piaceva essere chiamato semplicemente don Tonino) nasce ad Alessano nel Capo di Leuca il 18 marzo 1935. E’ ordinato sacerdote nel 1957 e il 10 agosto 1982 viene eletto vescovo della diocesi di Molfetta e lo rimarrà fino alla morte. Dal 1985 ricoprì la carica di presidente nazionale di Pax Christi.

Sui tortuosi sentieri della storia don Tonino avanzava con passo risoluto e deciso, senza tentennamenti: «Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l’anelito di voler cogliere nel “qui” e nell’“oggi” della Storia i primi frutti del Regno» dichiarò,
in occasione del raduno dei “Beati costruttori di pace”, all’Arena di Verona.
Parlava da profeta, don Tonino: quel vescovo, che poco aveva dell’ufficialità della gerarchia, agiva da lucida sentinella che, scrutando l’orizzonte, riesce a cogliere prima degli altri lo spuntare dell’alba, sin dalla prima stella del mattino. Sempre attento e rigoroso nella denuncia, non ha esitato, lui per primo, a sporcarsi le mani nel presente, a smussare gli spigoli delle contraddizioni che via via emergevano, a fare concretamente accoglienza, mettendosi in gioco più di tutti gli altri.

L’impegno per le grandi battaglie civili e umanitarie (si pensi alla protesta contro l’ipotesi del trasferimento dei caccia F16 nella base di Gioia del Colle o all’appassionata adesione al cartello “Contro i mercanti di morte” che portò, nel 1990, all’approvazione della legge 185 sul commercio delle armi) non lo distolse dal guardare allo sfrattato, al malato o al disoccupato che incontrava quotidianamente sulla sua strada. Fu eccezionale interprete di quella “teologia del volto” che vuol dire incontro e accoglienza dell’altro, di chi si sente “pietra di scarto” ed è relegato ai margini della quotidianità e della storia.

Avvertiva in maniera decisiva che la Chiesa, per adempiere meglio alla sua missione, doveva essere “chiesa del grembiule”, cioè chiesa dedita al servizio umile e fraterno, capace di chinarsi sulle piaghe dell’uomo.
Di tutti gli avvenimenti riusciva a cogliere l’essenza più intima e profonda, a trovare soluzioni, a sperimentare nuove vie di dialogo e di tolleranza.
Intuizione, profezia e coraggio nel proporre una pace mai disgiunta dalla giustizia, una pace che si epifanizza anche nelle pieghe più nascoste della storia, fatta di piccoli gesti e grandi sacrifici: «Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata». Ed è – questa – una lezione di grande efficacia per i pacifisti di oggi, per chi pensa di realizzare la pace agitando solo bandiere e slogan nelle piazze.

Don Tonino, a causa della sua dirompente carica profetica, suscitò non pochi imbarazzi e reazioni perplesse nella Chiesa italiana di quegli anni: se, da un lato, la gente comune lo amava, vedendo in lui un modello cui ispirarsi, le gerarchie ecclesiastiche più volte presero le distanze da quel vescovo al quale rimproveravano ingenuità o spregiudicatezza, accorgendosi di quanto fosse arduo seguirlo sul sentiero della speranza.
Vengono in mente le parole che Mons. Mincuzzi pronunciò il 30 ottobre 1982, rivolto a don Tonino, da poco nominato vescovo: «Per quanta mitezza e discrezione potrà mettere Tonino, dovrà annunciare le beatitudini, condannare la violenza, la possibilità di manipolazione delle masse; sarà malvisto e non avrà consolazioni neppure da coloro che gli appartengono». Parole puntualmente confermate dal tempo.
Se l’azione era il fine della sua missione, la parola ne costituiva il mezzo più efficace: dai suoi scritti vibra l’eco della profezia, e non di rado le sue pagine, toccanti e provocatorie insieme, assumono tonalità poetiche, di un lirismo delicato e, a tratti, struggente.
Abile tessitore di un linguaggio ricco di metafore e di audaci giochi di parole quando doveva annunciare la pace e indicare le vie concrete per raggiungerla: «La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. I labbri delle conquiste non combaceranno mai con quelli dell’utopia, e il “già” non si salderà mai col “non ancora”».
Alla prova dei fatti, come al vaglio del tempo, la storia, oggi impegnata sul terreno della convivenza pacifica dopo l’undici settembre e dopo le mattanze quotidiane del terrorismo internazionale, dà ragione delle sue prese di posizione e degli orizzonti intravisti.
La “convivialità delle differenze” o la “chiesa del grembiule” rimangono lettere semplici, eppure efficacissime, nell’intricato alfabeto della pace. Consapevoli, come ci ha ricordato lui stesso, che «Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita: bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari».

   
   
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