Dicembre 2003

PER VITTORIO PAGANO

Indietro
Parole dalla terra sgretolata
Antonio Errico
 
 

 

 

Ascoltare le
proprie voci di dentro, guardarsi vivere macinando il tempo, è una pena che soltanto la poesia può
lenire.

 

Uno si chiede con quali occhi abbia guardato la sua terra, Vittorio Pagano. E in quale antro s’infossasse per guardarla, su quale nuvola salisse, quale campanile, in quale bosco si addentrasse, dentro quale torre dirupata.
Uno si chiede come abbia fatto ad avere uno sguardo così profondo e lungo, pluriprospettico, microscopico, macroscopico, totale. Come se guardasse a volte da una feritoia, altre volte dagli abissi o dalla cresta di un’onda, da un altare, una tomba.
E poi si chiede, uno che ha letto Pagano e lo ha riletto e lo rilegge ancora, poi si chiede come facesse ad auscultare il vento, le voci delle ombre, le preghiere degli alberi di ulivo, le bestemmie delle zolle, le parole del mare, il pianto delle statue, il silenzio dei viventi, le urla dei morti.
Come facesse ad assaporare il dolore di questa terra: il dolore duro, concreto, che si tocca, si assapora come acino acerbo.

Come facesse noi non lo sappiamo, o almeno io non so capirlo. Riesco solo a vedere una tensione disperata, l’ansia di far combaciare i versi col colore di una lucertola, con una punta di scoglio, il muschio, lo sfibrarsi di un tramonto.
Capisco solo quel suo lasciarsi risucchiare dai vortici del ricordo e dell’oblio, per narrare la morte sorpresa in un’assurdità che lo innamora, per raccontare di bianchi e catastrofici paesi che ripetono ancora – sempre – l’antica inutile scena di un diluvio.
Nemmeno egli stesso, forse, ha mai capito razionalmente come facesse a guardare quella sua pianura di sogno in quel modo così straniato, stravolto, oppure non lo ha più capito a un certo punto.
“Terra del Sud, o volto in me sommerso, / se non sai darmi che quest’ebbro pianto, / distruggi anche il mio verso”.
Ecco, dunque, forse il punto è questo: la terra, che non sa dargli altro che un pianto, tenta di distruggergli anche la poesia.
E’ a questo punto che comincia la sfida di una discesa in interiore nelle viscere di se stesso e del tempo, alla ricerca spasmodica, smaniosa, di quel volto della terra “in sé” sommerso, della sua cultura, della sacralità, della sua origine, del suo mistero. E’ a quel punto che Pagano serra il verso, costruisce spirali perfette, avvolgimenti a coda di serpente, trombe d’aria di parole che smantellano e travolgono e trascinano il paesaggio, i miti, i riti, le storie, le folle di creature, le immagini illusorie.
A questo punto si sgretola, la terra, si frantuma, si polverizza, si trasforma in luce rappresa, nella fantasmagoria di una finzione, ritorna ad essere quel che forse è stata quando fu soltanto caos, un’esplosione dal nulla o la creazione di una mente divina, un mistero di luce “che splende e non esiste”.
Uno si chiede se Pagano abbia trovato mai – in un istante, un attimo, una visione, un sogno – quel volto della terra dentro sé. Si chiede se poi non fosse vano il suo cercare, se il volto della terra non gli rassomigliasse, se non fosse esattamente uguale al volto suo, se i due volti non fossero, ognuno, il rispecchiamento dell’altro.
Forse il volto sommerso della terra non era altro che il cuore.
Forse il Salento di Vittorio Pagano non era altro che il suo cuore.
Su questa terra, su questo cuore, ha misurato la sua vita e la sua poesia, in questa essenza si è cercato per riconoscersi o non riconoscersi, per ritrovarsi oppure per disperdersi.
Ha fatto questo: fino a quando il cuore ha tenuto; fino a quando si sono incontrate la luce della terra e dei suoi occhi.
Tutto si sgretola, nella poesia di Pagano: la terra, gli uomini, i miti, la pianura, gli uliveti, le scogliere, i frontoni delle chiese. Tutto si distrugge, in natura, per Pagano. Il senso del creato è solo questo: procedere, rotolare verso una qualsiasi fine, verso l’inferno inconoscibile del niente; aspettare, istante dopo istante, solamente l’urlo, lo schianto, l’oscurità che copre l’essere e l’esistere, i paesaggi, le storie che corrono nel pensiero o sopra un foglio di parole rutilanti.
Nulla si salva. Nulla. Non la carne, né le ombre dei morti che ritornano sospinte da un vento di geenna, non si salvano i sogni, non si salva l’amore. Si rivela vano qualsiasi tentativo di sfuggire al vuoto che si apre ad ogni passo.
E la terra – la sua terra – non è altro che una tomba che lo accoglie, vivo, mentre un Dio con un volto di mostro gli compare davanti, lo sorprende nel corso di una fuga disperata che ha come motivo e come fine solo il gioco che fa dimenticare il travaglio e la malinconia dei giorni, la disfatta, la paura scatenata dall’ascolto di se stesso.
Ascoltare le proprie voci di dentro, guardarsi vivere macinando il tempo, è una pena che soltanto la poesia può lenire, forse quella poesia che stringe l’illusione di riuscire in qualche modo a sopravvivere alla fisicità attraverso la magia della parola, quella trasposizione in forma rigorosa dell’improvvisata messinscena che l’uomo si ritrova ogni giorno ad allestire.
E allora: allora quello stile fosforescente e lucido, quella forma armoniosa, ondeggiante sono coerenti con un modo di pensare, aderenti ad una visione del mondo, ad un’idea del destino. Sono la traduzione di una percezione e di una riflessione sul vivere la terra e sul viverci dentro fino ad esserne sommerso, sul senso delle storie che ci portiamo dentro e che ci accadono intorno, sull’incastonarsi tra uomo e uomo in una creta informe.
Vittorio Pagano avverte la vita come un percorso sugli argini di un baratro di cui non si vede il fondo. Il suo versificare è la mimesi dello sforzo di restare in equilibrio: la tensione alla perfezione formale è l’equilibrio; la nodosità dei concetti rappresenta lo sforzo.
Pagano pretende di catturare nella rete della forma tutto quello – gli esseri, le cose – che gli passa sotto gli occhi, nel pensiero, nel sonno, nel ricordo. E che gli sfugge, che si perde, irrimediabilmente. E’ la pretesa disperata di un poeta che resiste all’assalto del tempo – solitario, sfidante – sui merli del castello di parole che ad ogni istante gli crolla sotto i piedi e che lui ricostruisce sillaba su sillaba, ogni volta più bello, più fragile ogni volta.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003