Dicembre 2003

Magnifiche prede

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La tratta nordista
degli ulivi
Tonino Caputo - Michele Orefice - Fernando Gerosi
 
 

 

 

Poter esibire
un ulivo in un
giardino pensile
è tendenza esplosa da qualche anno
a questa parte,
un lusso che
si permettono vip, industrialotti e
altre faune opulente.

 

 

 

Coll.:
Arnaldo Celli
Lucio De Rosa
Leda Maccagli

 

Qualcuno lo ricorda ancora: i contadini che lasciavano i paesi-dormitorio e si recavano in campagna, all’alba, per lavorare la terra, passando vicino a un albero secolare d’ulivo si toglievano la coppola, in segno di saluto, di rispetto, e di gratitudine verso quei monumenti verdi. Così facevano anche al ritorno, mentre il sole, tramontando, allungava le ombre delle foltissime chiome, rifugio di gazze e di merli dal becco giallo. Passavano generazioni di uomini, e quei tronchi sempre più robusti, sempre più contorti, e sempre più vitali, erano là, radicati nella terra rossa, a fruttificare con i loro cicli naturali: monumenti vegetali, certo; ma soprattutto miracoli dei nostri campi e della civiltà del lavoro dei nostri padri, che con quei monumenti dialogavano confidenzialmente, dopo il saluto mattutino, con il linguaggio semplice e schietto degli uomini terragni che andava diritto al cuore dei problemi: invito a una buona produzione, alla qualità del raccolto, alla ricchezza di quel succo d’oro che sarebbe stato l’olio premuto dalle leccine, dalle bitontine...

E’ sempre stata ordinata la campagna pugliese e salentina. E dunque umanizzata. Con le terre coperte dai vigneti (ad alberello, i più antichi; poi a tendone, o a spalliera), e con quelle meno polpose, più aride e innervate da inestirpabili scogli, segnate dai filari degli ulivi piantati a distanze regolari, in perfette geometrie che consentivano a Folco Quilici, nel suo Puglia dal cielo, di creare immagini dinamiche suggestive con le riprese in diagonale: un mosso mare verde che veniva incontro all’elicottero che sfiorava le punte laminate degli alberi!

Questa puglia, scriveva Mario Praz, bisogna infilarla tutta, per giungere fino al fondo dell’infinita pianura, nella quale si assiste ancora all’incontaminato spettacolo di interminabili distese di una flora anteriore alla discesa degli indoeuropei: solo ulivi e viti, viti e ulivi, «le piante che nel nome, tenacemente conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli invasori ariani... In realtà, il severo paesaggio della Puglia è in queste distese di mastodontici ulivi, in questi tappeti a non finire di viti basse, che si tengon ritte da sé...». Sotto il sole rovente, che in un piccolo testo – quasi clandestino, comunque oramai introvabile – così fu descritto da Ungaretti, in Tavoliere di luglio: «Il sole vuole lo si sappia bene, che sia, questo giorno, tutto quanto preda sua. S’è messo di buon’ora a arrosolirgli le ultime erbe. Sulla pietra ulcerata investendo d’un fulgore favoloso la vecchia croce, non si stancherà mai di renderle, tra i due bracci di ferro, più lievi martello e lancia, chiodi e tenaglia. E già ha fulminato la seconda rondine...». Blu del cielo e del mare, dalle frastagliate rocce di Leuca a Finisterre allo sperone bauxitico del promontorio garganico: «L’attimo che ci ha scosso il cuore: il divino trova qui il colore del tempo».
Gli ulivi. Sono essenziali, quasi fantasmatici, nelle tele di Luigi Gabrieli, pur così intense nell’impasto dei colori (vi predomina un rosso deciso, folgorante) che sottendono, appunto, quel sole ungarettiano, ardente, prepotente. Comparivano qua e là nelle campagne arse, segnate da scheletrici pali di telegrafo, come a segnare i limiti estremi d’una desertica aridità, antica maledizione della Puglia e di Terra d’Otranto: pure vinta dal disossamento delle terre dal loro osso, dai filamenti nervosi delle pietre, dalle rudi scogliosità delle macchie, con sconosciute epopee rurali e faticose redenzioni di campi altrimenti indominabili.
Ed erano, fra muricce e sassi spatolati, opulente cattedrali solitarie, a volte quasi trasparenti, ma sempre con chiome imperiali, quelli di Vincenzo Ciardo, i dominatori del paesaggio del “Capo”, con distese a perdita d’occhio: magiche divinità vegetali sulle brevi pianure che celavano dolmen e menhir, millenarie divinità vegetali che scollinavano le creste delle Serre, senza che da queste si potesse presagire la salsedine delle brezze ioniche o adriatiche, umide fra crepuscolo e crepuscolo.
E sono umanizzati in Lionello Mandorino: ulivi-esseri-umani, emblematici testimoni della sofferenza del mondo otrantino, del dolore di una storia matrigna. Eppure ulivi sopravvissuti a quell’antico e costante dolore, profondo come le radici dalle quali sorgono tronchi di sofferta nodosità ma di simultanea determinazione a manifestare la propria identità e l’identificazione con l’uomo. Ulivi che vivono fra noi come nostri padri, e in quanto tali emergono dalle tele mandoriniane in campo lungo e in primo piano, indifferentemente, con i fusti tormentati, con le chiome mosse: linfa vitale della nostra civiltà e cultura, della nostra disgraziata intelligenza, del nostro amore e del nostro furore.

Che cosa ci fanno questi ulivi nei terrazzi degli attici e nelle chiazze dei giardini del Nord? Che senso ha depredare gli uliveti del Sud, inzollare gli alberi tosati come capre, pesarli, avvolgerli nei contenitori di plastica, e deportarli nell’Italia boreale? Perché condannarli a morte, dopo una lenta, inesorabile agonia?
Poter esibire un ulivo in un giardino pensile, accanto alle pareti di un “attico terrazzatissimo”, o ai vertici di un miniparco domestico, è tendenza esplosa da qualche anno a questa parte, un lusso che si permettono vip, industrialotti, finanzieri, grossisti e altre faune opulente che prosperano al di là della Linea Gotica, e che trovano facile venire in possesso di piante di veneranda età grazie alla complicità di personaggi (proprietari di uliveti, commercianti che hanno scoperto questo ricco filone) delle varie aree meridionali che comunque restano in ambito legale: un decreto luogotenenziale del luglio 1945, infatti, vieta l’abbattimento degli ulivi, ma lo consente nei casi di “permanente improduttività”, purché il proprietario dell’uliveto collochi una pianta nuova al posto di quella eradicata. E’ sufficiente una semplice domanda (una volta alla locale Camera di Commercio, oggi all’Ispettorato provinciale dell’Agricoltura), e il gioco è fatto.
Alcune regioni hanno varato regolamenti rigorosi, al fine di vietare le deportazioni: il Piemonte nel ‘95, la Toscana nel ‘98, il Veneto nel 2002. Tra quelle che non hanno mosso un dito, le due più ricche di ulivi secolari, e in alcuni casi persino millenari: la Puglia, nella quale si ritiene che si siano sviluppate storicamente le prime coltivazioni, risalenti agli anni della Magna Grecia, e la Calabria, che vanta anch’essa i più antichi uliveti del bacino mediterraneo.
Secondo alcuni censimenti (in realtà piuttosto approssimativi) il nostro Paese ospiterebbe tra i 120 e i 130 milioni di ulivi, contro i circa 50 milioni della Spagna, i 30 milioni della Grecia, i 20 milioni della Turchia, i 25 milioni di Israele e i 10 milioni del Marocco. Per quel che ci riguarda più da vicino: un quarto del territorio della Puglia è piantato ad uliveti, ospitando tra i 15 e i 20 milioni di alberi. Anche grazie a questa folta presenza, l’Italia è primo produttore al mondo di olio d’oliva.
I dati del massacro si riducono a un paio di cifre: un ulivo inzollato, dell’età di uno o due secoli, viene pagato 5.000 euro, poco meno di dieci milioni delle vecchie lire; invece uno che sfiori il mezzo millennio raggiunge la cifra di 10-12 mila euro. E nella nostra regione, come in Calabria, piante di questa età sono tutt’altro che rare, al punto che alcuni gruppi attivi del Wwf si stanno prodigando per salvarle, spingendo l’Unesco a dichiararli Patrimonio vegetale dell’Umanità. Sulla stessa linea d’onda sono alcuni esponenti d’Italia Nostra, che teme il depauperamento della memoria storica di una civiltà, quella contadina, che rischia un tramonto definitivo.

E non soltanto di ulivi, si tratta. Ma anche di carrubi, anch’essi eradicati, inzollati, imballati e deportati in aree le cui temperature sono proibitive per piante che vivono bene solo in zone climatiche che registrino da dieci gradi in su. Dove le temperature sono basse per buona parte dell’anno, vanno bene gli aceri o i tassi, fanno paesaggio le abetaie (quelle che gli sciocchi neoricchi delle nostre contrade hanno piantato ai confini delle loro ville pretenziose) o al limite i castagneti o i faggeti. Ulivo e carrubo sono piante d’un altro pianeta, e non c’è “moda mediterranea” che tenga a consentire il saccheggio per l’innaturale trapianto.
Come non c’è per le altre cose che sono oggetto di predazione. Ci riferiamo ai veri e propri furti di trulli, sia quelli conici che caratterizzano la Puglia centrale, sia quelli a tronco di cono o a tronco di piramide che sono tipici delle campagne di Terra d’Otranto: che vengono smontati, numerati pietra per pietra, spediti al Nord e lì rimontati, ad onore e gloria di molti personaggi trimalcioneschi. Ai quali sono destinati persino interi muri a secco, le muricce di confine tra campo e campo o tra strada e campo; e anche le “chianche”, la cui tratta va crescendo di giorno in giorno, vanno a lastricare pavimenti nordici su indicazione di architetti che ne conoscono la rarità e il valore.
A scrivere delle muricce, del duro lavoro di scavo delle campagne e della messa in luce, del riordinamento in sistemi e gradoni, a scalinate, a geometrie complesse nelle zone pianeggianti delle pietre affioranti, è stato Giuseppe Cassieri. E se Cesare Brandi parlò di questo e di altri fenomeni della “Puglia arcaica” come della manifestazione di una lunga civiltà neolitica, il garganico Cassieri incentrò il suo discorso sulla fatica immane che nei secoli ha impegnato generazioni di contadini per trasformare le terre “macchiose” in terreni coltivabili, finendo col creare un paesaggio unico al mondo.
Così come dai letti delle fiumare della Calabria si continua ad asportare pietrisco, con il quale si pavimentano i viali e i sentieri di chi può consentirsi la spesa del furto e del trasporto. Si sono creati persino fondi sassosi di laghetti artificiali, con le piccole pietre levigate dalle acque torrentizie calabresi portate lontano dai loro bacini naturali. Così si va spogliando una miniera di alberi, di case, di pietre a cielo aperto, si saccheggia in lungo e in largo il Sud, nella generale disattenzione delle istituzioni.
Ricordiamo l’altra rapina diffusa a mano disarmata, proprio negli anni della ricostruzione, alla vigilia del boom. Allora passavano per le case di città e di campagna, e soprattutto dalle masserie, personaggi che ritiravano “mobili vecchi” (cioè antichi, di valore anche altissimo), arredi, oggetti ornamentali, e quant’altro, con in più un po’ di soldi, in cambio di “mobili nuovi”, gli orribili mobili svedesi la cui moda tramontò fortunatamente una decina di anni dopo, ma a saccheggio compiuto, a beneficio di antiquari callidi dell’Italia del Centro-Nord. Analogo discorso dello scambio di oro vecchio per oro nuovo, sempre con conguaglio di denaro, e sempre facendo leva sull’ignoranza della gente!
Del resto, ancora oggi i furti su commissione rastrellano abbeveratoi, “stompi”, carrucole in pietra e in ferro, “piloni”, canalette di carparo, colonne, stemmi, mensole, lastricati, ferri battuti, e tutto ciò che testimonia della civiltà contadina e della vita rurale degli anni che furono. Niente è ormai risparmiato. Niente è stato mai protetto. E adesso che scopriamo i danni prodotti dall’incuria (nostra) e dalla furbizia (altrui), e facciamo i calcoli sommari delle chiazze pelate nelle campagne di Bari, di Mola, di Rutigliano, di Conversano, dell’intero Salento, e di Reggio Calabria, di Cirò Marina, del Catanzarese, dei bacini aspromontini e silani, adesso, dicevamo, ci mettiamo in gramaglie; mentre è tempo di varare norme severe, rigorose, invalicabili per proteggere flora, ambiente e patrimoni che non hanno ragioni storiche, economiche, persino estetiche, di esistere oltre i confini naturali di nascita.

   
   
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