Dicembre 2003

Il corsivo

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Radici d’Europa
Aldo Bello
 
 

 

 

«Se il
Cristianesimo
se ne va, se ne va tutta la nostra
cultura. E allora
si dovranno
attraversare molti secoli di barbarie».
Thomas S. Elliot

 

Era il V secolo, un’epoca di massima crisi, quando si verificarono due fenomeni che determinarono una grande trasformazione storica in Europa: le migrazioni germaniche, con insediamenti stabili che si costituirono in regni romano-barbarici; e la fine del paganesimo, con il graduale trionfo del Cristianesimo. La nuova religione ebbe una doppia funzione. Intanto, essendo la religione del Libro, cioè una religione dotta, poteva utilizzare le componenti della cultura classica, conquistando le élites; e simultaneamente, per la sua stessa natura, era attenta alle realtà locali, alle loro origini e radici popolari che rafforzava con l’alfabetizzazione latina. Fu il Cristianesimo a tramandarci la cultura classica. E il latino resterà ancora per molti secoli la lingua viva dei dotti, anche quando le lingue volgari nacquero alla scrittura. Questo aspetto ebbe un alto valore per le saghe e le leggende che, una volta affidate alla tradizione orale, vennero allora fissate in testi scritti, conoscendo una straordinaria fioritura, proiettata fino a noi (si pensi, ad esempio, al “Parsifal” di Wagner).

Sul versante storico-politico, il momento aurorale si ebbe nel Seicento, quando il monaco Colombano, in una lettera a Gregorio Magno, parlò di «tutta l’Europa» per deprecarne il disfacimento: per la prima volta l’Europa veniva citata come unità etico-culturale, non più come pura e semplice espressione geografica.
Verrà in seguito l’età dell’Impero Carolingio, percepito dagli intellettuali del tempo come rinascita europea di Atene e di Roma. Scrivendo a Carlo Magno, Alcuino auspicava la fondazione di una nuova Atene, «oserei dire più bella dell’antica. Infatti, in quanto nobilitata dall’insegnamento di Cristo, la nostra supererebbe tutta la sapienza dell’Accademia». E altri intellettuali identificarono in Aquisgrana, capitale dell’Impero di Carlo, la Terza Roma.
Dunque, già nel tramonto dell’universo antico, subìto dai contemporanei come una tragedia irreparabile, possiamo intravedere la nascita di un mondo diverso, caratterizzato da un altro segno spirituale che sarà determinante: la centralità del Cristianesimo nel processo di formazione dell’Europa. Senza il Cristianesimo, noi non avremmo questa Europa.

Che cosa significa essere europei? Per dare una risposta, a lungo elusa assieme alla stessa domanda, occorre tornare in pieno XVIII secolo e interrogare Montesquieu, il quale, nelle sue “Riflessioni sulla monarchia universale in Europa”, così definì il Vecchio Continente: «Non è altro che una nazione composta di molte nazioni». E aggiunse: «Ognuna di esse ha bisogno dell’altra». E infine rincarò la dose, a futura memoria dei suoi spocchiosi concittadini, degli altezzosi inglesi e di coloro i quali all’epoca erano prussiani e che poi sarebbero diventati tedeschi: «Lo Stato che crede di accrescere la propria potenza con la rovina di quello confinante di solito si indebolisce insieme con esso». Nel secolo successivo, invece, Nietzsche – il cui superuomo era profondamente europeo – considerava l’Europa alla stregua di una propaggine asiatica.
Se tutti fossero tornati senza indugio alla Grecia classica, dove fu creata la nostra anima, e dove l’Europa imparò a ragionare, molte cose sarebbero state più chiare. E la prima è che la teoria delle idee di Platone rappresentò una sorta di Magna Charta ante litteram della spiritualità europea. Il filosofo, pur non potendo affrontare con la nostra mentalità i grandi problemi, ha lasciato in eredità al nostro pensiero gli strumenti per risolverli. E questi strumenti si incentrano (sulla lezione di Socrate) nella mentalità speculativa dell’Ellade, sulla quale è basato tutto l’edificio dell’Occidente. Ha scritto Husserl: «L’Europa spirituale ha un luogo di nascita in una nazione [...]. Questa nazione è l’antica Grecia del VII e del VI secolo a.C.».
In quell’arco di tempo ci fu l’inizio della geometria e della medicina scientifica, e ci fu l’ampliamento delle conoscenze della fisica e dell’astronomia; e sempre intorno a quegli anni si arrivò a definire, con Platone, con Aristotele, con Plotino, che cosa fosse l’uomo. Stiamo parlando non della Grecia pagana amata da Nietzsche, ma di un immenso laboratorio spirituale che preparò, fra l’altro, il percorso storico del Cristianesimo.
A questo punto si innestò la nuova realtà, senza la quale sarebbe impossibile capire l’Europa: il Cristianesimo, appunto. Se nel “Fedone” platonico l’anima si trova nel corpo come in una cella, nel Vangelo di Giovanni Dio si incarna: quel logos che aveva signoreggiato sul sapere ellenico assume le nostre sembianze, e l’anima può rispondere con la vita all’amore divino che l’ha creata. In questa rivoluzione c’è l’orizzonte dell’uomo europeo.

Ultimo innesto, quello che stiamo vivendo: il predominio della scienza e della tecnica. I greci inventarono l’una e l’altra, dall’una e dall’altra noi cominciamo a difenderci, anche se la nostra vita è ormai inconcepibile senza la loro presenza.
L’altra domanda è: l’Europa è qualcosa che si può unificare? Risponde il filosofo ceco Jan Patocka: «Dobbiamo innanzitutto comprendere che essa è un concetto che si basa su fondamenti spirituali». Ciò spiega perché Platone sia un punto di riferimento morale per l’Occidente. Senza di lui, una visione come quella del sofista Trasimaco non avrebbe trovato, prima di Cristo, alcun ostacolo. All’inizio della “Repubblica” platonica, Trasimaco offre una definizione tutta politica e disincantata della giustizia: «E’ l’utile del più forte». In originale: «Ton kreittonos xympheron». Platone la combatterà con tutto il vigore della sua intelligenza. Forse oggi alcuni non riescono più a capire chi dei due avesse ragione. Ma debbono comunque ammettere che il cuore europeo, grazie anche al Cristianesimo, batte ancora per Platone. E probabilmente proprio per questo quasi tutti i Padri della Chiesa furono platonici; e anche per questo schiodare un crocefisso da un’aula scolastica imbarazza molti laici e tutti coloro i quali hanno contratto debiti con Platone, prima ancora dei cattolici.

Scandalo vuol dire impedimento, inciampo in una pietra, insidia, ed è sempre uno sconvolgimento della coscienza, della sensibilità e della moralità che viene suscitato da atti contrari agli usi di un popolo, da gesti che mettono in discussione le leggi non scritte del suo decoro. Sempre è una tribolazione per chi viene provocato oppure offeso, e nello stesso tempo è anche un avvertimento, una prova che impone di verificare con umile puntiglio l’autenticità e la profondità delle proprie convinzioni, la veridicità della propria moralità, il valore di costumi sedimentati nei secoli.
Allora: lo scandalo di Cristo crocefisso è qualcosa che ci fa ancora riflettere, e penare, oppure è qualcosa che ha perso per strada il suo significato trascendente, trasformandosi in un feticcio o in un vacuo orpello? L’Occidente che siamo prima di chiunque noi, e solo in subordine il mondo anglosassone, wasp, scandinavo, nell’ignoranza indotta dall’imperante economicismo sa che cosa è stato il Cristianesimo, che cosa ha veramente significato la Croce nella nascita dell’idea di Europa?
Se lo sa, se lo percepisce, sia pure in maniera vaga, non si deve stupire che sia divenuto così vitale, per coloro i quali hanno a cuore una più chiara definizione di quel che siamo, iscrivere nella Costituzione d’Europa le sue più autentiche radici, e comunque il suo retaggio. Lo studioso (e nostro collaboratore) Khaled Fouad Allam, europeo di origine musulmana, lo ha scritto con parole molto semplici: «L’Europa è debitrice verso il Cristianesimo [...]. Come accogliere l’altro, se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità, se l’Europa rifiuta di riconoscersi? L’incontro è possibile solo se si è consapevoli delle proprie radici».
Ed è stato un pensatore laico come Popper ad asserire che si deve alla tradizione cristiana il valore attribuito alla coscienza di ogni singolo individuo: «Per un umanitario, e soprattutto per un cristiano, non esiste uomo che sia più importante di un altro uomo [...]. E riconosco che la gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza, li dobbiamo all’influenza del Cristianesimo». E’ perciò davvero impossibile dare torto a Thomas S. Elliot quando scrive: «Se il Cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
Se è così struggente il desiderio di indicare il Cristianesimo in quella Costituzione, è perché oggi, nella società materialista del consumismo, esso ci appartiene in maniera ambigua? E’ perché, come non si stanca di ripetere Giovanni Paolo II, l’Europa «sembra vivere come se Dio non esistesse»?
Il problema è che della Croce non si dimentica soltanto lo scandalo del Dio-uomo inchiodato per colpa dell’umanità. Si dimentica anche la profonda laicità religiosa, che è nel messaggio ordinario del Cristo, sebbene le complicate vicende storiche del mondo abbiano imboccato spesso strade opposte. All’inizio la Croce è stata simbolo di laicità, e non soltanto perché si doveva «dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio». La stessa figura del Cristo vivente, crocefisso e risorto, fissa per sempre una separazione fra regno della terra e del cielo. Lui solo, straordinariamente e fino alla fine dei tempi, occupa quel punto dove cielo e terra si congiungono, impedendo la fusione sacrilega tra il politico e il religioso. Poi, per sempre, la separazione dei poteri sarà la realtà verso cui l’Europa tende, sia pure ripetutamente sbandando: fin dal Medioevo, fin da quando, nel 494, papa Gelasio affermò che una cosa è il trono del mondo e un’altra il trono del cielo: l’uomo di Dio è superiore nelle cose superiori (spirituali), ed è inferiore nelle cose inferiori (temporali).
La separazione non è stata ancora attinta nel mondo ebraico né in quello musulmano, mentre è l’autentico fondamento dell’Europa. Questo vecchio Continente è in realtà il più Nuovo, perché non respinge la laicità. Se, anzi, la afferma con forza, è anche perché il Cristianesimo la giudica legittima (“Lumen Gentium” e “Gaudium et Spes” sono le encicliche di riferimento) e soprattutto atta a preservare dal duplice rischio del laicismo ideologico e dell’integralismo settario. Perché opporsi, allora, al riferimento identitario nella Carta Costituzionale dei Venticinque? Non è un po’ come allinearsi alla blasfema richiesta di strappare dalle pareti «quello scheletro rinsecchito di un ebreo suicida»?

   
   
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