Dicembre 2003

 

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L'ironia filosofica
del Medioevo arabo
Giuseppe Moscati
 
 

 

 

 

 

Quella proposta da queste storielle arabe è un’esplorazione dell’ingenuità più disarmante attraverso un viaggio assai variegato tra i poeti di Bassora e i beduini del deserto, tra i mistici dell’Iran e i giudici di Baghdad.
 

«‘Abn Allâh Ibn Muhammad riferisce: “Una volta chiesi a un uomo: – Che giorno del mese è [oggi]? Mi guardò e disse: – Veramente non sono di questo paese”». Mi piace cominciare da qui, da questa ironia un po’ alla Achille Campanile, per leggere la silloge di ‘Abu al-Faraj Ibn al-Jawzî, umorista arabo nato a Baghdad nel 1117 d.C. e autore di scritti divenuti classici della letteratura medioevale.
Il sale nella pentola costituisce in assoluto la prima traduzione in lingua occidentale di questo testo, che tratta appunto di una materia allo stesso tempo curiosa e profonda e indaga da vicino il tema della stupidità. Ma lo indaga, come ci suggerisce l’attenta cura di Rosanna Budelli, trasversalmente, vale a dire senza differenze di classe sociale e senza risparmiare emiri, governatori né coloro che sono pubblicamente ritenuti “sapienti”.
Ibn al-Jawzî si dimostra anzi particolarmente abile nel compiere delle incursioni coraggiose e finemente critico-umoristiche nel mondo degli imâm e dei muezzin, dei gran maestri, dei saggi e degli interpreti del Corano: proprio dalla lettura delle sacre scritture, del resto, nascono i più ricercati equivoci (spesso di natura lessicale o fonetica), che “danno il la” alle incredibili performances di sciocchi e uomini “semplici”.
E bene scrive la curatrice a proposito di quello che è il grande potere liberatorio dell’umorismo, arma che l’Autore dà prova di saper maneggiare sapientemente e che non dimentica di agitare anche contro la cultura erudita, enciclopedica, scolastica nel senso più deteriore.
Ecco perché il “sale nella pentola”: l’ironia offre alle cose della vita il sapore, il gusto di interpretarle con il sorriso sulle labbra (o sotto i baffi!), o comunque corrisponde alla preziosa abilità di sdrammatizzare, di fare in modo che persino gli eventi più nefasti non abbiano il potere di allontanare quel buonumore che, cosciente e direi quasi “responsabile”, non assomiglia neanche lontanamente alla superficialità.
Ma, naturalmente, l’umorismo ha da porsi come intelligente misura e lettura delle cose, altrimenti sarebbe a sua volta atteggiamento di sovrabbondante e perfino arrogante sfoggio di cultura: se, come recita la Torah (qui richiamata come auctoritas), la barba è un’emissione del cervello, è bene che essa non sia lunga più di tanto, pena l’impoverimento dell’intelletto stesso.
Quella proposta da queste storielle arabe, insomma, è un’esplorazione dell’ingenuità più disarmante attraverso un viaggio assai variegato tra i poeti di Bassora e i beduini del deserto, tra i mistici dell’Iran e i servi intenti nei salassi a beneficio (a danno?) dei loro padroni, tra i giudici di Baghdad e gli asceti-predicatori dei più sconosciuti angoli del mondo islamico. Che poi sono luoghi fisici e non, personaggi reali o semi-mitologici, narrazioni al confine tra il credibile e l’incredibile.
Ma l’ingenuità alla quale accennavo – «Fu detto ad uno sciocco: “Ti è stato rubato l’asino”. Ed egli rispose: “Ringrazio Iddio che non vi ero sopra!”» (p. 109) – lascia spesso il posto alla malizia: «Un uomo guardò nel pozzo e vide il proprio volto. Tornò da sua madre e le disse: “Nel pozzo c’è un ladro!”. La madre si recò [al pozzo], si affacciò ed esclamò: “Sì, per Dio, e con lui c’è una sgualdrina!”» (ibidem).

Tornando alla questione generale dell’umorismo, però, è interessante segnalare – ancora con la curatrice del libro – che esso vive, o meglio subisce un rapporto di forte ambiguità nei confronti dei dettami e dei precetti propri dell’Islam, dove quest’ultimo a volte lo condanna e a volte lo incoraggia (cfr. pp. 14-16): la stessa figura del Profeta, d’altra parte, in alcuni luoghi coranici viene descritta come lontana dallo scherzo e dalle facezie, visti addirittura come condannabili alla stregua della menzogna e dell’inganno, mentre in altri appare ben disposta alla scanzonata fruizione di episodi esilaranti, complice dei suoi prossimi e allievi.
Noi ricorriamo peraltro volentieri, imperterriti, all’elemento ludico presente nella silloge di Ibn al-Jawzî: «Un uomo disse al suo schiavo: “Esci e guarda se il cielo è sereno o nuvoloso. Quello uscì quindi tornò e disse: “Per Dio, la pioggia mi ha impedito di vedere se è nuvoloso o no”».

 

   

le caratteristiche dell’uomo sciocco

Le caratteristiche dello stolto si dividono in due categorie: la prima concernente l’aspetto esteriore, la seconda l’indole e il comportamento.

Prima categoria. I medici affermano: «Quando la testa è piccola e di forma irregolare, è indice di malformazione nella struttura del cervello».

Galeno disse: «La testa piccola è decisamente sintomo di malformazione cerebrale, mentre il collo corto è segno di debolezza [mentale] e di scarso cervello. Chi poi ha una costituzione fisica sproporzionata è corrotto anche nell’animo e nell’intelletto, e così pure l’uomo che ha la pancia grossa, le dita corte e il viso rotondo o ancora chi è alto di statura ma piccolo di testa, con la fronte, il volto, il collo e i piedi carnosi e la faccia che sembra una mezza sfera. L’uomo dalla testa e dal mento rotondi, il quale presenti una certa grossolanità nei tratti, un’espressione ottusa e un tic degli occhi è un mascalzone. Chi ha gli occhi sporgenti, è volgare e ciarliero, mentre l’occhio troppo piccolo rispetto alla statura denota in chi lo possiede [la natura] di imbroglione e di ladro. Se l’occhio è grande e tremolante, il suo padrone è pigro, fannullone, stolto e donnaiolo. L’occhio azzurro con una sfumatura di giallo color zafferano è indice di grande perversità di costumi, mentre l’occhio simile a quello bovino è segno di stoltezza. Pure chi ha l’occhio sporgente ma con la palpebra piccola e attaccata [all’orbita] è stolto. Chi invece ha la palpebra staccata dall’occhio e paonazza, senza che ciò sia dovuto a malattia, è bugiardo, imbroglione e stolto. La peluria sulle spalle e sul collo indica stoltezza e sfacciataggine e, se è diffusa anche sul petto e sulla pancia, scarsa perspicacia. Colui che possiede il collo lungo e sottile è chiassoso, stolto e codardo. L’uomo dal naso grosso e tozzo è corto di comprendonio; con le labbra gonfie, è stolto e grossolano di carattere, mentre il viso troppo tondo è [sintomo di] ignoranza. Colui che possiede orecchie grandi è ignorante ma longevo. Anche una bella voce è segno di stoltezza e di scarso acume mentre la carne molto soda è indizio di rozzezza di sentimenti e di spirito. Infine, l’ottusità e l’ignoranza crescono al crescere dell’altezza».

Ma uno dei segni inequivocabili è la barba lunga e chi la possiede è senz’altro stolto. Si tramanda che nella Torà è scritto: «La barba è un’emissione del cervello e chi l’ha troppo lunga ha poco cervello; chi ha poco cervello ha poco intelletto e chi ha poco intelletto è stolto».

Disse un saggio: «La stoltezza è il concime della barba e chi ha la barba fluente ne abbonda».

Un tizio vide un uomo dalla barba interminabile ed esclamò: «Per Dio, se fosse uscita da un fiume, l’avrebbe prosciugato!».

Ad un tale che si lagnava con lui [il califfo] Mu‘âwiya ebbe a dire: «Ci basta, per capire quanto tu sia stolto e debole di intelletto, quello che vediamo della tua barba lunga!».

‘Abd al-Malik Ibn Marwân sentenziò: «Chi ha la barba lunga è “rado” di intelletto». Un altro disse: «Chi è corto di statura, con la testa piccola e la barba lunga, è dovere dei musulmani compatirlo a causa del suo scarso intelletto».

Gli esperti di fisiognomica affermano: «Quando l’uomo è alto di statura e ha la barba lunga, consideralo pure stolto. Se per di più ha la testa piccola, non dubitarne».

Un medico disse: «La sede dell’intelletto è il cervello, la via dello spirito è il naso e la sede della stupidità è la barba lunga».

Ziyâd Ibn Abîh afferma: «La barba di un uomo non deve eccedere la misura del suo pugno, altrimenti ciò che eccede corrisponde ad altrettanta carenza di cervello».

Una delle caratteristiche dello sciocco è l’orecchio piccino. Lo si riconosce inoltre dal modo di camminare ciondoloni, ma indizio inconfutabile della sua stoltezza è il modo di parlare.
Seconda categoria, concernente l’indole e il comportamento. Uno dei difetti [dello stolto] è che egli trascura di considerare le conseguenze [delle sue azioni] e fa affidamento su chi non conosce e non frequenta. Altre sue caratteristiche sono la mancanza di amici, lo stupirsi [di ogni cosa] e l’eccessiva favella.

Un tale parlò in presenza di Mu‘âwiya e si dilungò troppo. Mu‘âwiya si infuriò e gli ordinò: – Taci! Ma egli replicò: – Ho forse parlato?

Tra i segni che caratterizzano lo stolto vi è la mancanza totale di scienza poiché l’intelletto non può fare a meno di indurre ad acquistare un briciolo di scienza, anche se minima, perciò se uno invecchia senza aver acquisito un po’ di scienza, è sintomo che è stolto.

Disse al-A‘mash: «Quando vedo un vecchio che non ha un briciolo di scienza, lo prenderei a schiaffi!».
[…]
Un’altra caratteristica [dello stolto] consiste nel rallegrarsi quando viene falsamente lodato e di lasciarsi impressionare dagli elogi anche se non li merita.

Un saggio disse: «Alcune caratteristiche della stoltezza sono: la frettolosità, la leggerezza, la grossolanità, la presunzione, l’immoralità, l’insolenza, l’ignoranza, l’indolenza, la slealtà, la disonestà, la trascuratezza, la smodatezza, la distrazione, l’ilarità, la boria, la dissolutezza e la furbizia. Inoltre, [lo stolto] se arricchisce diventa superbo, se impoverisce si dispera. Se è allegro è petulante, se parla è osceno. Se gli viene chiesto è avaro, se chiede è importuno. Se parla non lo sa fare, se gli si parla non capisce. Se ride raglia e se piange muggisce».

   
   
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