Dicembre 2003

 

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Per un giorno nuovo
dell’umanità
Khaled Fouad Allam
 
 

 

Docente di Sociologia
del mondo musulmano
Università di Trieste

 

Quasi diciotto anni fa papa Giovanni Paolo II organizzò per la prima volta l’incontro per la pace fra le grandi religioni: l’iniziativa era dettata già allora da una forte preoccupazione per l’andamento del mondo. Si percepiva il venir meno delle tensioni ideologiche, ma questo annunciava l’inizio di tempi più oscuri e più inquieti. La Chiesa aveva già capito che etnie e religioni stavano per diventare i paradigmi delle nuove conflittualità politiche, in particolare nelle relazioni tra Islam e Occidente e tra Islam e Israele. Si sottovaluta spesso la capacità del mondo della Chiesa non tanto di anticipare i tempi, ma, soprattutto, di recepire i segnali che provengono dal mondo: e questi segnali non sono solo elaborazioni di centri di studio, ma provengono dal contatto effettivo con i diversi popoli, direttamente attraverso le missioni o indirettamente attraverso le minoranze cristiane, anche nel mondo arabo-islamico. E la Chiesa deve ascoltarle, non soltanto per dare conforto e speranza, ma essenzialmente per mettere in guardia chi talvolta gioca con il fuoco senza accorgersene.

Nel momento attuale, la guerra in Iraq ha suscitato e suscita molta preoccupazione: per alcuni è all’orizzonte un sogno di libertà e di democrazia, per altri invece le inquietudini aumentano: molti intellettuali – arabi e non – richiamano alla cautela perché questa guerra ha innescato un pericoloso connubio fra un nazionalismo agonizzante e un radicalismo islamico dal volto cinico. Bisogna saper ascoltare queste voci, che ci possono aiutare a non fare passi falsi, a limitare i danni, e forse a fondare una speranza. Perché è proprio di ciò che quella parte di mondo ha bisogno: alla fine, per questi popoli le violenze non hanno bandiera, cambia poco se siano interne o provengano dall’esterno; essi leggono la propria storia come una mera successione di eventi tragici, in cui la vita umana non conta nulla. Certo, anch’essi devono recitare il mea culpa, devono esercitare un’autocritica, e lo sanno; ma in questo tempo mi sembra cinico, direi crudele, chiedere loro di compiere un tale sforzo, perché non vi sono né i presupposti né le condizioni. Il disastro è economico, sociale, politico e culturale; sono accecati in un mondo che non riconoscono più, e non riescono a riconoscersi in un nuovo mondo che non c’è ancora.

Certo, dall’alto delle nostre cattedre, davanti ai nostri computer, di fronte a una storia che non possiamo vivere nella sua sofferenza e tragicità perché ne siamo fuori, è facile lanciare anatemi, dare consigli, stendere bilanci: ma a un certo punto dobbiamo pur pensare che non abbiamo a che fare con essere immaginari, ma con individui che esistono, che piangono, che sognano. Mi rifiuto di abbracciare il politically correct, ma mi batto per un linguaggio della verità, un linguaggio dell’alterità, che poggi sull’esperienza di vita, sulla scrittura, sulla speranza. E bisogna nutrire una forte speranza nell’Islam. Nel Corano un versetto dice che Abramo non era né un ebreo né un cristiano né un musulmano. Egli era un puro. In questi tempi inquieti pensiamo alla Pasqua cristiana, ai giorni in cui si commemora la passione di Cristo, morto e risorto per l’umanità intera: in questa umanità ci sono anche gli arabi, i musulmani, gli ebrei. Quella passione ci faccia sperare in un nuovo giorno dell’umanità, in cui lo scontro di civiltà si limiti a comparire in un libro e non diventi un’amara realtà.

 

   
   
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