Dicembre 2003

Intanto in italia

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La competitività
muore di freddo
M.B.
 
 

 

 

L’Italia ha messo in disarmo
numerosi impianti con conseguenze evidenti sul piano dell’occupazione
e del ventaglio delle produzioni.

 

Il “sistema Italia” continua a perdere colpi e risulta sempre meno competitivo. Per il terzo anno consecutivo il nostro Paese scende nella classifica del “Global Competitiveness Report”, elaborata dal World Economic Forum. Nel 2003 si piazza al quarantunesimo posto su centodue economie, cedendo otto piazze rispetto alla rilevazione dell’anno precedente. A superarci non sono stati soltanto Paesi europei come il Lussemburgo, Malta, la Repubblica Ceca, la Lituania e la Lettonia, ma anche Paesi africani come il Botswana, e asiatici come la Giordania e la Thailandia.
A penalizzare la nostra capacità di competere sono fattori noti da troppo tempo. Nell’ordine, quelli più citati dagli imprenditori sono l’inefficienza della burocrazia, l’inadeguatezza delle infrastrutture, la restrittiva legislazione del lavoro, le tassazioni elevate e le difficoltà di accedere ai finanziamenti.

Mentre fa cospicui passi del gambero il potenziale di crescita a cinque-otto anni, vale a dire il fattore che viene misurato dall’indice principale della competitività, rimane invece stabile la collocazione del sistema Italia (al ventiquattresimo posto su novantacinque Paesi) secondo l’indicatore della performance produttiva attuale, il “Business Competitiveness Index”.
Il Rapporto viene pubblicato dal 1979 con cadenza annuale dal World Economic Forum (organizzazione internazionale indipendente e no profit, con sede a Ginevra), che per l’ultima edizione presentata a Washington si è avvalso della collaborazione di 104 centri di ricerca internazionale (i dati per l’Italia sono stati raccolti dalla Sda Bocconi). Il metodo che segue per le sue ricerche è una combinazione di dati macroeconomici pubblici con la rilevazione delle opinioni di manager e di imprenditori. In tutto il pianeta hanno partecipato 7.741 operatori.
Alla scarsamente soddisfacente performance italiana si è contrapposto invece un buon risultato globale per l’Europa. Le prime quattro posizioni sono rimaste invariate, con la Finlandia al primo posto, (seconda posizione occupata dagli Stati Uniti), e con la Svezia e la Danimarca, nell’ordine, al terzo e quarto posto. Nella “top ten” si trovano anche la Svizzera (scesa dal quinto al settimo posto), l’Islanda (ottava posizione) e la Norvegia (nona posizione).
Migliorano leggermente le due maggiori economie del Vecchio Continente, spinte da una migliore percezione dello stato delle pubbliche amministrazioni e delle tecnologie: la Germania passa al tredicesimo posto (era un gradino più giù), e la Francia al ventiseiesimo (era ventottesima). Il Regno Unito arretra di quattro posizioni, scalando alla quindicesima posizione. Ma è sempre parecchio più avanti rispetto al nostro Paese.

A margine di questi dati, e del dibattito che hanno aperto sullo stato di salute della nostra economia, alcune considerazioni emerse negli ultimi tempi. Che si sono sviluppate in particolare su tre versanti. Il primo riguarda la filosofia imprenditoriale italiana, secondo la quale per un lungo periodo si è gridato ai quattro venti che “piccolo” era “bello”. Il che, si fa notare, andava bene, e forse anche benissimo, in giorni di economia integrata più o meno strettamente in ambito europeo.
Le aziende familiari avevano la possibilità di svilupparsi, di produrre e di esportare, senza raggiungere dimensioni macroscopiche, senza impantanarsi in pastoie burocratiche interne e risolvendo i problemi interni, soprattutto di carattere sindacale e rivendicativo, in modo diretto e immediato, al riparo del principio non scritto ma quasi costantemente perseguito del rapporto tra lavoratori e un rispettato pater familias. Questo sistema ha funzionato fino al giorno dell’introduzione dell’euro come moneta unica, e soprattutto fino al momento dell’ingresso nell’Unione europea dei Paesi dell’Est continentale, ricchi di manodopera a buon mercato, dunque con forti richiami di investimenti esteri e di traslochi di imprese manifatturiere.

Il secondo versante riguarda la caduta verticale delle imprese di grandi dimensioni. L’Italia ha messo in disarmo numerosi impianti (acciaio, gomma, prodotti farmaceutici, ecc.) con conseguenze evidenti sul piano dell’occupazione e del ventaglio delle produzioni. E’ vero che si trattava in massima parte di imprese a partecipazione statale, governate nominalmente dai cosiddetti “boiardi” (generalmente legati a interessi di parte politica), e in genere di mediocre e scarsa produttività, per non parlare di certe scelte di strategia produttiva (acciai, e derivati, in particolare); ma è anche vero che nel resto d’Europa questo non si è verificato a livelli diffusi: basti pensare alle strenue difese contro gli smantellamenti, e più ancora contro le privatizzazioni, in Francia e in Germania, (si pensi, in modo particolare, alle telecomunicazioni).
Sorrette dai rispettivi Stati, queste grandi imprese sono presenti sui mercati internazionali con il duplice peso del proprio prestigio e dell’appoggio pressoché incondizionato delle istituzioni politiche nazionali. E quel che è stato privatizzato, in questi e in altri Stati dell’Unione europea, non è finito sotto il controllo di pochi privilegiati, o di amici o sostenitori di singole parti politiche: è stato privatizzato sul serio, con titoli ad amplissima diffusione e con concreti benefici per le pubbliche istituzioni.

Terzo e ultimo versante, quello della scuola. L’Italia ha scuole che producono in dosi eccessive quote professionali di burocrazia e di impiego pubblico, e incentivano scarsamente la cultura dell’iniziativa privata. Sicché questa nasce, quando nasce, quasi del tutto priva di know how, di conoscenze e di formazione tecnologiche, giuridiche, per l’analisi dei mercati e delle conseguenti strategie commerciali richieste dai moderni comportamenti produttivi.
Un dirigismo fuori luogo e fuori tempo assegna alla scuola compiti che sono propri dell’esperienza umana. Così si introducono insegnamenti di segnaletica stradale e di educazione sessuale, di recitazione, e di altre astruserie, mentre si rende sempre più esangue la storia, si esilia la geografia, si ignora l’analisi logica; e l’ircocervo rappresentato dall’attuale scuola dell’obbligo vede allungata l’età della generica preparazione di base: troppi giovani sanno tutto del telefonino cellulare, ma non sanno redigere un curriculum, si sentono perduti fra gli sportelli di una banca, manifestano scarso atteggiamento critico di fronte a Internet, ignorano le norme essenziali del diritto del lavoro e quelle fondamentali del commercio con l’estero, sono tutt’al più in confidenza teorica con le sperimentazioni nei campi della chimica e della fisica, non seguono stages presso esemplari aziende produttive o commerciali, come accade in vari Paesi europei e in America.
E via sottolineando, nel campo di un apprendimento umanisticamente sempre più degradato e tecnico-scientificamente sempre più impoverito dalla mancanza di strutture, di strumenti, e in ultima analisi di idee.
Sotto il profilo più squisitamente culturale, forse stiamo vivendo un’epoca di crisi, cioè di transizione, di passaggio. Crisi di lunga durata, dunque più radicale e profonda, che l’ottimismo riferisce a un’altrettanto radicale e profonda innovazione, della società e del lavoro. E’ forse in questa direzione che guardano il Governatore della Banca d’Italia e il superministro dell’Economia, quando si confrontano con franchezza sui temi fondamentali della nostra economia, a volte dicendo cose analoghe con parole diverse, altre volte cose diverse con parole analoghe.
Schermaglie “politiche” a parte, e schermaglie “tecniche” altrettanto a parte, fine ultimo e decisivo della dialettica che intercorre tra Istituto di emissione e Superministero è il futuro di un Paese ancora condizionato da troppi vincoli, da endemiche contraddizioni e da non temperate divisioni. E’ qui che la riflessione va approfondita, nel nome del bene comune. Un “sistema” efficiente nasce dal concorso di tutte le forze, intellettuali, professionali, politiche, e dai loro contributi sapientemente orchestrati.

Ultimo equilibrio da realizzare: l’Italia ha le radici nel Mediterraneo e la testa in Europa. Si tratta di due fonti di ricchezza, anche economica, oltre che civile e morale, politica e culturale, da armonizzare con intelligenza e con forti capacità predittive. Una visione complessiva, polifunzionale, reciprocamente stimolatrice, può creare i presupposti per uno sviluppo dinamico che, solo, può eliminare o ridurre al minimo gli strappi cardiaci che rendono tanto spesso precaria la ripresa dell’economia italiana.

   
   
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