Dicembre 2003

Il nuovo governatore della bce

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Venti Sud in Europa
Lionel M. Wallace
 
 

 

 

A causa di queste distorsioni,
la Germania orientale rimarrà una regione
di disoccupazione cronica e un’area di espulsione
demografica, come il Mezzogiorno
italiano.

 

Per quale motivo alcune delle maggiori economie mondiali (Germania, Francia, Italia, Giappone) soffrono da tempo di stagnazione e di alta disoccupazione? Perché questi Paesi non riescono più ad esercitare quella leadership nello sviluppo economico e nell’innovazione che la loro storia dovrebbe suggerire, in particolare nei settori di punta dell’high-tech, dal quale dipenderà il nostro futuro?
La deludente performance economica di queste nazioni rende ancora più perplessi alla luce della caduta del tasso di natalità che hanno accusato da qualche decennio a questa parte. Ciò significa, infatti, che l’attuale struttura della popolazione vede predominare la fascia di mezza età, che attraversa quindi il periodo economicamente più produttivo ed è più libera che in passato dai compiti gravosi di educare una prole numerosa.
Il loro reddito pro-capite dovrebbe perciò crescere molto più che negli Stati Uniti, dove la percentuale di bambini da allevare è molto più alta e dove nuovi investimenti si rendono necessari solo per mantenere la crescita del fattore capitale al passo con quella della popolazione, e quindi del fattore lavoro.
Naturalmente, il vantaggio di oggi potrebbe tradursi anche in uno svantaggio di domani: Europa e Giappone dovranno affrontare crescenti problemi d’invecchiamento della popolazione, eliminando il temporaneo vantaggio demografico che oggi hanno nei confronti degli Stati Uniti. Ma non è questo, in ogni caso, ciò che frena la loro crescita attuale.

Edmund Phelps, della Columbia University, sostiene che questi Paesi mancano di “dinamismo”, definito come una combinazione di spirito imprenditoriale e di un sistema finanziario in grado di sfruttarne tutte le potenzialità. Entrambi questi elementi debbono invece essere presenti per innescare la “distruzione creativa”, quella forza teorizzata sessant’anni fa da Joseph Schumpeter come motore della prosperità capitalistica.
Ma questa spiegazione, di per sé, non sembra del tutto sufficiente. Spesso si afferma che Europa continentale e Giappone non possiedono quell’attitudine al rischio che è invece presente nei Paesi anglosassoni. Ma, a ben vedere, non si percepiscono queste grandi differenze di comportamento e di valori in Europa, negli Stati Uniti e nello stesso Giappone.
Qualche anno fa è stato realizzato uno studio comparato sugli atteggiamenti nei confronti dell’economia capitalista in Germania occidentale, nella Federazione Russa, in Ucraina, in Giappone e nel Nord America. A parte qualche differenza minore, la vera diversità era “situazionale”, non attitudinale: in alcuni Paesi la gente pensava di avere minori aspettative di successo, e riteneva che le leggi varate dai rispettivi governi avrebbero comunque ostacolato la loro attività.
Alla radice della crescita deludente di alcuni grandi Paesi industrializzati, in effetti, ci sono le politiche e i disincentivi attuati dai governi, piuttosto che differenze culturali di base oppure il livello delle istituzioni finanziarie, che in questi Paesi è anzi generalmente molto elevato.

L’esuberanza irrazionale della fine degli anni Novanta ha un po’ interrotto lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari, proprio quando vari Paesi a crescita lenta avevano comunque sviluppato il settore del “venture capital” e Borse riservate a investimenti più a rischio, come il Nouveau Marché francese, il Neuer Markt tedesco, il Nuovo Mercato italiano, il Mothers nipponico. Questi mercati, modellati sul Nasdaq statunitense, hanno però finito per quotare molte società fragili, e il collasso dei prezzi azionari dopo il 2000 li ha pesantemente condizionati. Il Neuer Markt non esiste più, e tutti gli altri sono in crisi, se non in coma abbastanza profondo. Ma è importante non esagerare la portata di questi passi falsi: il processo di sviluppo delle attività finanziarie legate al rischio deve continuare.

Qual è, allora, il problema di fondo? Tra i libri pubblicati nel Vecchio Continente sulla questione, spicca per la forza delle sue argomentazioni quello dell’economista tedesco Hans-Werner Sinn, dal titolo La Germania può essere ancora salvata? Sinn sostiene che la stagnazione tedesca è dovuta in gran parte alla tradizionale politica di sussidi e di disincentivi del governo (aggiunta alla nota rigidità del mercato del lavoro) e le riforme finora varate dall’esecutivo berlinese non sono sufficienti a cambiare radicalmente la situazione.
L’economista mostra come l’effetto combinato del sistema fiscale e del welfare in Germania garantisca a una famiglia con due figli un reddito di almeno 1.500 euro al mese, anche se nessuno dei genitori lavora: è un ammontare molto superiore, ad esempio, al salario di un operaio non specializzato nell’industria siderurgica. E’ come se la Germania dicesse ai propri disoccupati: non affannatevi a cercare un lavoro.
Il welfare è particolarmente protettivo nei Länder orientali, nei quali i sussidi sono ai livelli occidentali, ma lo sviluppo economico e il costo della vita sono nettamente inferiori. Sinn stima che una famiglia della ex Repubblica Democratica Tedesca, grazie ai sussidi pubblici, possa raggiungere un reddito che supera di quattro volte quello di una famiglia polacca e di sei volte quello di una famiglia ungherese. Con un sistema del genere, è persino ovvio che l’industria sia molto riluttante a mantenere impianti nei Länder dell’antica Germania Orientale, dove si calcola che i sussidi coprano il 45 per cento del prodotto interno lordo complessivo.

A causa di queste distorsioni, secondo Sinn, la Germania orientale rimarrà una regione di disoccupazione cronica e un’area di espulsione demografica, esattamente come il Mezzogiorno italiano, che per decenni ha sottratto risorse al Paese, visto che le autorità centrali non ne hanno determinato propositivamente lo sviluppo. Inoltre, la nascente Costituzione europea proibirà discriminazioni nei sussidi sociali nei confronti degli immigrati da altri Paesi dell’Unione europea; e la conclusione dell’economista è che presto ci saranno nella stessa Unione europea ben venti Mezzogiorni.
Allora, che fare? I suggerimenti avanzati (tagli alle aliquote fiscali e della protezione sociale) sono di tipo tecnico e non avrebbero un effetto immediato nei comportamenti della gente. Nel lungo periodo, va creato un efficiente ed efficace sistema di incentivi che rovesci le aspettative personali di successo economico e accresca le opportunità di “imparare lavorando”.
I giovani potranno imparare dall’esperienza personale che lavorare duramente e assumersi rischi e responsabilità economiche è gratificante e redditizio. Quando questo atteggiamento e questa nuova antropologia culturale si diffonderanno, sopraggiungerà anche un nuovo dinamismo economico e finanziario.

   
   
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