Dicembre 2003

De America

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Dollaro debole
economia alle stelle
S.B.
 
 

 

 

Se l’Italia vuole aprirsi varchi
in un mercato
potenzialmente sterminato,
deve darsi un più alto profilo
strategico a livello internazionale.

 

Gli europei, e in particolare gli italiani, non amano il dollaro debole. Non lo amano soprattutto coloro i quali, avendo dei risparmi, non intendono lasciarli inerti, e tornano a giocare in Borsa, anche se con le dovute cautele, dopo l’esplosione della bolla speculativa che in un recente passato ha falciato gli investimenti effettuati al di là dell’Atlantico. Sono in fondo gli stessi che oggi si sentono frustrati dal fatto che l’economia statunitense è in forte ripresa, e associano quasi istintivamente il dollaro forte agli antichi trionfi a Wall Street che facevano vincere tanto e tanto velocemente.
Solo che qualcun altro ha lo stesso interesse a vincere, e si tratta del Presidente degli Stati Uniti, il quale nel 2004 si troverà alle prese con le elezioni, e non ha nessuna intenzione di dover esibire un’economia stagnante. Il dollaro debole, confermato alla conferenza di Dubai, gli consente di dare una forte spinta alla macchina produttiva americana, ma anche di tenere sotto controllo gli entusiasmi degli investitori in Borsa, perché non diventino eccessivi nelle aspettative e non creino illusioni di fulminee ricchezze.

Per costringere alla ripresa l’economia, l’amministrazione statunitense ha dato luogo a un disavanzo del bilancio pubblico di 374 miliardi di dollari nell’anno fiscale chiuso nel mese di settembre. Parecchio meno di quanto era stato previsto dai pessimisti, ma pur sempre una cifra enorme. Alla quale il riconfermato presidente della Federal Reserve, Greenspan, ha sommato il tasso di sconto più basso da quarantacinque anni a questa parte. Due decisioni senza tentennamenti, due atti imponenti, che sono stati sufficienti perché quest’anno si sia determinata una crescita economica di fortissimo impatto. E ciò, sebbene questa straordinaria ripresa abbia lasciato a poco meno di nove milioni i senza lavoro e occupi soltanto il 73 per cento della capacità produttiva dell’industria manifatturiera. Due esiti non proprio coerenti con quanto solitamente si verifica nell’economia statunitense alla ripresa del ciclo. Ma alla quale poi poteva aggiungersi un ulteriore guaio: la crisi del dollaro originata da un disavanzo estero già esagerato, e che, per paradosso, com’è stato notato, il proseguire della ripresa nel 2004 avrebbe reso insostenibile.
E a Dubai non solo gli americani, ma anche gli altri banchieri centrali del G7, auspicando una maggiore flessibilità nei tassi di cambio, hanno solertemente approvato. Il cumularsi del disavanzo estero in conto merci degli Stati Uniti al disavanzo mercantile è il più grave disequilibrio dell’economia mondiale. E, appunto, un calo del dollaro ben controllato oggi in Asia vuole servire a ridimensionarlo. Anche se non bisogna dimenticare che l’attuale Presidente americano è un duro, circondato in maggioranza da altri duri. E, di conseguenza, questo pacato ragionare da ufficio studi non deve essere stato il solo e unico motivo a convincerlo. L’altro è il fastidio di industriali e di disoccupati per una Cina che si giova della ripresa del ciclo americano molto meglio di quanto facciano gli stessi americani. E iniziano a reclamare dazi, ad auspicare quel protezionismo che ha occupato la storia degli Stati Uniti molto più del liberismo. Per assecondare costoro, ed evitarlo, ecco il secondo motivo per cui serve al Presidente americano una moneta più debole, cosa che ha conseguito senza andare tanto per il sottile.

Perché è sicuramente vero che il surplus mercantile cinese è ammontato nel 2002 a 103 miliardi di dollari, e che la Cina ha contato per l’11 per cento del totale delle importazioni americane, dal 3 per cento che erano nel 1990. Ma è altrettanto vero che le esportazioni del Giappone, della Corea e di Taiwan nello stesso periodo sono calate dal 27 al 17 per cento del totale. Inoltre, non sono solamente gli americani, e, in proporzione minore, gli europei a perdere posti di lavoro nei settori manifatturieri. Tra il 1995 e il 2002 la stessa Cina vi ha perso sedici milioni di occupati. Di conseguenza, anch’essa ha patito l’effetto della crescita della produttività.
Sia come sia: agli europei ovviamente preme che alla fine l’euro non si rafforzi eccessivamente. Certo è che nei grafici degli ultimi mesi il rafforzarsi dello yen è più continuo, mentre quello dell’euro è più ondivago. Sarà sufficiente? E la Cina?
Gli americani hanno fatto sapere di recente che i tassi resteranno invariati, e che temono un po’ più la deflazione e parecchio meno l’inflazione: un modo di parlare che non lascia presagire un dollaro forte nel breve e forse medio periodo. Dunque, stiano attenti gli entusiasti della ripresa americana, ma avversari della divisa statunitense debole.
E non dimentichino che la Cina comincia a firmare contratti di esportazione in euro; che la sua forza lavoro è sterminata e che i salari sono estremamente bassi; che in quella che è diventata ormai una potenza economica planetaria si esercita su larga scala anche la contraffazione di prodotti di prestigio e di lusso che dir si voglia; che esponenti di primo piano italiani ed europei sono stati costretti a recarsi a Pechino non solo per allacciare nuovi e più stretti rapporti commerciali, ma anche per tentare di far rivalutare la divisa cinese, e, fatto non secondario, per stringere un patto anti-contraffazione perché non si mettano in ginocchio griffes di prim’ordine soprattutto nel campo dell’abbigliamento e della pelle-cuoio. Mafia cinese, con le Triadi sparse in tutto l’Estremo Oriente e in diverse basi internazionali, (Italia compresa), consentendo.
Non occorrerà un gran tempo per verificare se gli accordi raggiunti saranno stati mantenuti. Se la divisa cinese sarà rivalutata, se il dollaro dopo le elezioni presidenziali americane vedrà ripristinata la sua forza d’acquisto reale, se l’euro non dovrà essere compresso, forse ci ritroveremo sulla strada di un riequilibrio accettabile e necessario.
Altrimenti, sfioreremo una mezza catastrofe. Infatti, non sarà agevole venire a capo di questo complesso problema: a chi invoca l’introduzione di dazi doganali a protezione dei nostri prodotti, i cinesi replicano, se si vuole in maniera provocatoria: – perché, invece di diffondere il vostro piccolo mercato, che annovera sì e no un mercato potenziale di venti milioni di acquirenti di nostri prodotti di modesta fattura, non pensate al “grande giacimento di capacità di spesa per consumi di qualità” rappresentato dai circa duecento milioni di cinesi abbienti che comprerebbero volentieri i vostri prodotti griffati da stilisti di fama mondiale? Il che, per noi, significa: se l’Italia non vuole perdere l’ultima occasione di aprirsi varchi in un mercato potenzialmente sterminato, deve darsi un più alto profilo strategico a livello internazionale, sia in termini di politica estera sia in termini di politica economica e commerciale.

La Cina accoglierebbe con favore la presenza di un interlocutore privilegiato nell’Unione europea che le consentisse l’apertura di un canale di comunicazione attraverso il quale accelerare, con un’operazione triangolare (Ue-Nato-Usa), il proprio ingresso formale tra i “Grandi” (G7 più uno con la Russia, più due aggiungendo appunto la Cina) e l’individuazione di procedure di coordinamento delle rispettive politiche commerciali e di sicurezza. Pechino non ha mai attuato politiche egemoniche né esercitato indebite interferenze negli affari altrui. E’ un Paese che, a differenza della Francia e della Russia, preferisce la stabilità del sistema internazionale, non “antagonistica” nei confronti degli Stati Uniti. Italia e Cina condividono, sotto il profilo culturale, una tradizione millenaria, e sotto quello socio-politico, una forte attenzione all’individuo e alla famiglia: sono fattori che ne riducono la distanza nella reciproca comprensione. Per noi si tratta di cogliere tutte le opportunità, in termini di competitività e di innovazione, rispetto alle altre potenze industrialmente avanzate. Il dollaro debole ci aiuta, questo è probabile, forse certo, speculatori in Borsa a parte. Non ci aiutano, invece, iniziative sparse. Le nostre aziende devono instaurare rapporti organici con questo grande mercato, con una top priority, una priorità alta della politica commerciale complessiva del nostro Paese. In alternativa, la nostra stagnazione durerà a lungo. Fino a che potrà durare.

   
   
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