Dicembre 2003

Specchio dei tempi

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La (s)fiducia degli italiani
M.B.
 
 

 

 

E’ necessario
che le istituzioni
forniscano
una risposta
convincente
e chiara alla sfiducia che aleggia: ed è
necessario anche
che la risposta
sia rapida.

 

Come il 2002, il 2003 è stato caratterizzato da continue polemiche in merito alle rilevazioni ufficiali dei prezzi al consumo. Secondo molti commentatori, l’inflazione effettiva in Italia è stata superiore a quella riportata dall’andamento dell’indice dei prezzi al consumo rilevata nel nostro Paese dall’Istat. Un’indagine conferma che la grande maggioranza degli italiani è convinta di questa ipotesi. Solo il 13 per cento crede che il livello d’inflazione rilevato dalle fonti ufficiali corrisponda al reale aumento dei prezzi. Il 14 per cento ritiene che inflazione “vera” e inflazione registrata siano abbastanza simili, il 27 per cento che ci sia poca rispondenza, il 41 per cento che inflazione reale e inflazione ufficiale non corrispondano affatto.
Si tratta di un evento molto preoccupante. Significa che i cittadini italiani non si fidano delle fonti statistiche ufficiali per quanto riguarda una delle misurazioni di maggiore importanza per il calcolo del benessere delle famiglie. E’ cruciale che sia fatta luce su questi timori, per evitare che la diffidenza (la sfiducia) degeneri. Se non ci si fida delle rilevazioni ufficiali dei prezzi, perché mai fidarsi delle rilevazioni ufficiali del tasso di disoccupazione o del Prodotto interno lordo? La fiducia nelle istituzioni è un collante essenziale per la vita sociale, e sarebbe pericoloso osservare un’estensione della sfiducia ad altre variabili economiche.

Quali sono state le cause dell’aumento dei prezzi, secondo gli italiani? Soltanto il 2 per cento ritiene che si tratti di un aumento legato alla crescita dei prezzi del petrolio. Il 9 per cento pensa che siano cresciuti a causa di “manovre speculative” da parte delle imprese. Ma il colpevole viene identificato nell’introduzione dell’euro dal 77 per cento. Mettendo insieme le due risposte, emerge con chiarezza qual è la tesi che aleggia nella mente di gran parte degli italiani. La tesi è la seguente: l’euro, introdotto fra molte difficoltà soprattutto per la spinta dei governi dei vari Paesi europei e non certo a furor di popolo, ha causato una crescita dei prezzi che i governi stessi non hanno voluto rilevare per non ammettere il fallimento del proprio progetto.

In realtà, occorre distinguere tra l’impatto di breve periodo dell’introduzione dell’euro in termini di prezzi al consumo e l’impatto generale sullo scenario macroeconomico. Dal primo punto di vista, ci sono ormai pochi dubbi che si sono rivelate errate le previsioni di chi riteneva che l’euro avrebbe comportato un passaggio indolore in termini di prezzi assoluti e relativi. Al contrario, molte categorie hanno approfittato del momento di transizione per rivedere verso l’alto il prezzo relativo dei beni e dei servizi, causando in vari casi una vera e propria rincorsa agli aumenti. Ci si può augurare in maniera fondata che si tratti solo di un fenomeno transitorio, tale da non trasformarsi in una rincorsa prezzi-salari che non può che avere come esito una forte inflazione.
Quanto all’impatto generale dell’euro, la stabilizzazione macroeconomica è certamente difficile da apprezzare in una fase storica di caduta dei mercati azionari e dell’attività economica. Le stesse regole prescritte dal Patto di Stabilità sono diventate per molti, anche per alcuni paladini delle regole e del rigore, una camicia di forza fatta indossare al malato nel momento peggiore possibile. D’altra parte, non si può ritenere che la via che porta fuori dalla recessione debba passare attraverso un aumento della spesa pubblica, addossando i costi dello sbilanciamento alle generazioni future. Senza l’euro, che cosa sarebbe successo al mercato azionario italiano e ai tassi di interesse nazionali dal 2000 ad oggi? La risposta è ovvia, ma viene spesso ignorata nel dibattito corrente.
Il 60 per cento degli intervistati per campione ha affermato di essere al corrente della situazione di malessere presente nel mondo economico e finanziario americano, in particolare per quanto riguarda i bilanci truccati delle imprese e le frodi commesse da alcuni grandi manager d’azienda. Secondo il 37 per cento di coloro che sono al corrente, questa situazione ha «incrinato molto il grado di fiducia nell’investimento azionario». Il 25 per cento afferma che il grado di fiducia è stato un po’ incrinato. Il 33 per cento soltanto di coloro che hanno seguito l’evoluzione dei fatti presenta un grado immutato di fiducia nell’investimento azionario.
Più preoccupanti sono state le risposte alla domanda che riguarda in maniera specifica l’Europa e l’Italia. In particolare, è stato chiesto «per quali motivi in Italia e in Europa non sono ancora emersi casi analoghi a quelli del mercato statunitense». Le risposte si sono concentrate su due possibilità: per il 29 per cento si tratta soltanto di una questione di tempo perché casi gravi emergeranno una volta o l’altra sia in Italia sia nel resto dell’Europa; per un altro 29 per cento invece ci si trova di fronte a un fatto estremamente grave: manca la volontà di ricerca dei colpevoli da parte delle autorità di sorveglianza e regolamentazione. C’è poi il 14 per cento che ritiene che non sia la volontà quella che manca, ma la capacità. Solo il 14 per cento pensa che il mercato statunitense abbia problemi diversi da quello europeo, e possa dunque essere considerato un caso differente.
Chi può ristabilire la fiducia? Gli italiani sono divisi. Il 26 per cento chiede una risposta al governo, probabilmente pensando che si tratti di un problema politico o comunque di un problema troppo ampio per essere affidato semplicemente ai tecnici. Fra i tecnici, le banche riscuotono i maggiori consensi (16 per cento delle segnalazioni), poi viene la Consob (9 per cento), seguita dalle imprese che presentano bilanci puliti (7 per cento), dalla Banca d’Italia (7 per cento). L’8 per cento afferma sconsolato che ormai è tardi: ci vorranno molti anni per ripristinare la fiducia distrutta.

Queste valutazioni sono molto tristi ed estremamente gravi, specie se analizzate alla luce delle risposte sull’inflazione e sull’euro. Molte teorie economiche ritengono che uno dei principali fattori della crescita economica sia il “capitale sociale”, quell’insieme di relazioni di fiducia che lega fra di loro i vari fattori della produzione e consente di aumentare la produttività, di avere fiducia nell’impiego del risparmio, di pensare al futuro in maniera serena. Questo capitale ha subìto un colpo durissimo, anche se non quantificabile. E’ necessario che le istituzioni forniscano una risposta convincente e chiara alla sfiducia che aleggia. E’ necessario anche che la risposta sia rapida. Occorre evitare un continuo deterioramento del capitale di fiducia nelle relazioni personali ed economiche.
Tra l’altro, resta difficile il rapporto tra gli italiani e i mercati finanziari. Le scelte di investimento del 2002 e dei primi nove mesi del 2003 sono state coerenti con un quadro generale fortemente deteriorato: è risalita la quota di coloro i quali hanno acquistato titoli pubblici, pari al 13 per cento, coerentemente con il tentativo di cercare soprattutto sicurezza e liquidità dai propri investimenti. Inoltre, è passata dal 7 all’11,5 per cento la percentuale di coloro i quali hanno acquistato una casa.
La sicurezza è da sempre il principale elemento di preoccupazione degli investitori italiani. Tale caratteristica si è rafforzata nel corso dell’ultimo anno. Questo è evidentemente indice di come gli obiettivi nelle scelte degli investimenti, contrariamente a quanto sostenuto dalla teoria economica, non siano esterni alla situazione dei mercati, ma pesantemente influenzati dalla dinamica dei prezzi e dalla volatilità. Proprio in corrispondenza della crisi dei mercati del 2000, da una situazione in cui gli obiettivi erano piuttosto stabili si è passati a una situazione nella quale tutti gli altri perdono rilevanza a vantaggio della sicurezza e del contenimento del rischio, legata alla grande incertezza che il risparmiatore avverte.
Si conferma una regolarità importante: pochissime famiglie affrontano l’investimento finanziario senza obiettivi. Purtroppo, nella maggior parte dei casi il significato economico di tali obiettivi non viene compreso a fondo: solo l’8 per cento, infatti, collega rischio e rendimento in maniera corretta, cercando di massimizzare il rendimento, dato il livello di rischio (il titolo di studio appare però importante per la cultura finanziaria, dato che la quota di chi si comporta correttamente è del 13 per certo tra i laureati e del 15 per cento tra gli insegnanti). Il 28 per cento vuole minimizzare il rischio, con punte per alcune categorie specifiche: per esempio, per il 32 per cento dei pensionati, contro il 23 per cento dell’anno precedente.
I risultati descritti devono essere posti nella prospettiva del tempo impiegato per l’informazione finanziaria. Il 70 per cento non sa quanto tempo dedica in media alla settimana all’informazione finanziaria. Il tempo dedicato dal restante 30 per cento è suddiviso in questo modo: il 22 per cento dedica meno di dieci minuti settimanali, il 13 per cento tra undici e venti minuti, il 19 per cento tra ventuno e trenta, il 24 per cento fra trentuno e sessanta, il 12 per cento tra una e due ore, il 10 per cento oltre due ore. Sono quindi pochi coloro che dedicano tempo alla formazione e all’informazione finanziaria. Soltanto tre italiani su cento dedicano più di venti minuti al giorno all’informazione finanziaria. Negli ultimi anni il rapporto tra gli italiani e il risparmio si è ulteriormente complicato. Da un certo punto di vista, una fase così difficile non veniva attraversata dagli anni Settanta, altro periodo contrassegnato da tassi di interesse nominali inferiori al tasso d’inflazione, mercati azionari in calo, debole livello di attività economica. La differenza tra allora e oggi è costituita dalla presenza di un robusto settore di intermediazione finanziaria dedito alle attività di gestione del risparmio. L’evidenza che traspare dall’indagine mostra comunque qualche crepa nel rapporto tra gli italiani e il settore del risparmio gestito. Si ha la sensazione che a volte i professionisti del risparmio non siano in grado di proporre strumenti adatti agli investitori, e che, specie nel recente passato, abbiano forzato la mano ai risparmiatori, collocando prodotti complessi e rischiosi a investitori che sino a dieci anni fa detenevano esclusivamente depositi bancari e titoli pubblici.

Tramontata l’euforia dell’investimento azionario (Nasdaq docet!), è tempo di ricostruire il rapporto tra investitori e intermediari. Tocca a questi ultimi fare il primo passo, con segnali comprensibili e semplici: un abbassamento nel costo dei servizi proposti, una maggiore efficienza finanziaria, una speciale attenzione al rischio dei prodotti, un’attenzione ad evitare il collocamento di titoli di dubbia qualità, una prudenza più elevata, una particolare cura delle reali esigenze degli investitori. Non c’è dubbio che appena l’industria finanziaria dimostrerà più attenzione per gli investitori, questi ultimi potranno riacquistare la fiducia persa o smarrita, e il settore potrà diventare un importante motore di crescita per l’economia italiana ed europea.

   
   
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