Dicembre 2003

Dibattiti in corso

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Che euro fa
Albert Costa - Dominique Lamy
 
 

 

 

Non per nulla,
al di là delle
lamentele
dei cittadini,
i governanti
dei Paesi che sono rimasti alle porte di Eurolandia
intendono entrare nel club della
moneta unica.

 

Qualcuno ha detto: l’euro è una moneta che piace molto ai governanti e poco ai governati. Giudizio che sembra essersi rafforzato dopo che gli svedesi, al 56,1 per cento, hanno respinto l’adozione della moneta unica, mettendo così a nudo un problema troppo a lungo negato: una sfiducia sempre più evidente nei confronti dell’euro.
Paura del nuovo che attraversa l’opinione pubblica, in particolare nei suoi settori più semplici, quelli popolari, secondo il Presidente della Commissione europea. Ma la massaia che impreca contro la moneta unica mentre osserva i prezzi degli ortofrutticoli al supermercato non ha reazioni troppo diverse dal manager che controlla i listini alla City.
Così, la nostalgia del passato, l’attaccamento alla lira, al franco, al marco, serpeggiano nella psicologia collettiva. E non si tratta soltanto dei malumori degli industriali padani che vanno a sommarsi alla diffidenza degli scandinavi abituati da tempo al benessere sociale, degli inglesi conservatori, dei francesi nazionalisti, dei catalani sospettosi.
La verità è che l’euro, nei suoi primi anni di vita, ha finito per diventare il parafulmine di un crescente scetticismo verso l’Europa, il nodo focale dove si sta scaricando un problema politico prima ancora che economico.

La tesi è così riassunta: la moneta euro, nella sua ancora breve esperienza, si è sostanzialmente comportata bene: ci ha liberato dall’inflazione, il che è un bene per le imprese e per ciascun cittadino europeo; ciò che è mancato è il supporto più apertamente politico: giunta quasi estenuata al varo della moneta unica, l’Unione europea non si è più interessata, occupata dei suoi sviluppi: ha messo in cantiere l’enorme scommessa del suo allargamento ad Oriente, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ciò comporta, poi si è arenata a lungo sulle secche delle nuove istituzioni, quelle da cui ora deve tirarla fuori il nuovo Trattato di Roma, con la firma della Costituzione europea.
In ultima analisi, si dice che è colpa dei politici, che non avrebbero saputo trovare il coraggio di sostenere un forte disegno europeo di cui euro e mercato unico devono essere il punto di partenza e non di arrivo.

Autodifesa dei politici. Nessuno nega le difficoltà che si sono incontrate sul cammino dell’Unione europea. Ma anche gli economisti e i cosiddetti tecnocrati non possono dipingersi come cavalieri senza macchia e senza paura.
Chi si prende la briga di riesaminare i modi di introduzione dell’euro, scopre che all’inizio del 2002 (e anche prima) vennero commessi errori che hanno pesato nella psicologia di massa. Intanto, il periodo di uso della doppia valuta, nazionale ed europea, è stato probabilmente troppo breve, due o tre mesi, dal momento che si intendeva forzare l’abitudine della gente a pensare in euro. E anche l’obbligo di affissione dei prezzi nelle due valute è stato limitato nel tempo e largamente disatteso nei fatti. Il periodo di controllo sui listini dei prezzi dei grandi produttori è durato, sostanzialmente, sei mesi; quello sui dettaglianti, in realtà, neanche un giorno. In conclusione: mentre il commissario europeo Solbes si preoccupava molto del problema degli arrotondamenti, dell’uso disinvolto dei centesimi, l’euro aveva effetti molto più radicali sui prezzi al consumo. E la disonestà di non pochi commercianti ha fatto il resto.

Quale sia stata la conseguenza reale dell’introduzione dell’euro sul costo della vita è materia di polemiche da oltre un anno. Ufficialmente, l’inflazione europea è rimasta molto bassa, in genere sotto il due per cento annuo, con qualche divario tra i diversi Stati. Ma le associazioni dei consumatori parlano di cifre molto diverse: nel settore alimentare e della ristorazione, in quello dell’abbigliamento e alberghiero, ci sono stati rincari tra il 6 e il 15 per cento, con punte anche del 30-40 per cento.
In un certo senso, sostengono alcuni economisti, tutte e due le cifre corrispondono a verità: a livello macroeconomico l’euro ha favorito un appiattimento dell’inflazione, seguendo tendenze planetarie. Ma per determinati settori i prezzi sono schizzati in alto, a volte molto in alto, anche sfruttando lo shock psicologico dell’introduzione della nuova divisa, con le sue monete troppo simili ai vecchi conii nazionali (come le 500 lire italiane) e i suoi biglietti troppo vivaci. Hanno dunque ragione gli altermondialisti quando dicono che l’euro ha ribassato i prezzi ai ricchi per aumentarli ai poveri? Slogan non privo di suggestione, ma in realtà tutt’altro che scientifico.
Come ricorda il commissario Mario Monti, l’introduzione del mercato unico ha messo tutti quanti su un piano di parità: l’euro impedisce le svalutazioni competitive, l’uso disinvolto del cambio, le piccole guerre tra monete di nazioni che confinano o che distano anche pochi chilometri. Ottimo risultato, che tuttavia non è gradito da diversi imprenditori dell’Italia padana o dell’Alsazia-Lorena, che recuperano margini andando a produrre ad Est, mentre si dicono assediati dalla concorrenza delle esportazioni cinesi legate al dollaro.

E proprio il confronto tra le due divise è un altro dei temi di scontro tra specialisti dell’economia. Partito con una parità di 1,15 sul dollaro, l’euro si è poi progressivamente indebolito, fino a un cambio di 0,82 che era molto comodo per le esportazioni (facendo tuttavia molto male alle importazioni: vedi alla voce petrolio, fattore di notevole inflazione), ma non era altrettanto propositivo per l’immagine politica.

Attualmente, il rapporto è tornato a livelli di euro forte. La faccia è salva, ma i problemi restano sul tappeto. Perché l’euro stenta a diventare una valuta di riferimento e di riserva. La Banca centrale europea, in un Rapporto del 2002, rileva che «la parte dell’euro sul mercato dei cambi è simile a quella che occupava in precedenza il marco tedesco».
Altri analisti hanno consegnato cifre abbastanza significative: «L’euro rappresenta soltanto il 13 per cento degli scambi commerciali nel mondo. Il Brasile, ad esempio, realizza intorno al 30 per cento del suo export verso l’Europa, contro il 20 per cento verso gli Stati Uniti, ma tutto viene pagato in dollari». La parte dell’euro nei fondi di riserva nei principali Stati del mondo è rimasta sostanzialmente marginale: erano in dollari per il 71,5 per cento nel 1997, sono salite al 73,1 per cento nel 2002, nonostante la nascita della moneta unica europea.
Certo, da qui a parlare di fallimento ne passa. L’euro resta una realtà irreversibile, che con ogni probabilità una ripresa economica aiuterà a rafforzare, anche se le previsioni 2004 vedono l’Europa inseguire con un triste uno per cento sia gli Stati Uniti sia il Giappone. E la Commissione europea ricorda che si tratta della seconda moneta del mondo, che interessa un’area economica paragonabile a quella statunitense; ed è ormai lo strumento indispensabile per un’economia continentale sempre più integrata. Non per nulla, al di là delle lamentele dei cittadini, i governanti dei Paesi che sono rimasti alle porte di Eurolandia intendono entrare nel club della moneta unica. Era vero per i Paesi dell’Est entrati in Ue a maggio. E’ vero per il governo svedese sconfitto, come quello danese, tempo prima, proprio sulla questione. E resta vero per il Regno Unito.
Anche se tutto sembra rinviato a tempi migliori. Anche se occorre tener conto di questo dato di fatto: il prodotto interno lordo dei tre Paesi (Svezia, Danimarca, Inghilterra) aderenti all’Unione europea ma non all’euro rappresenta il 20 per cento dell’Ue. A lungo termine, questo sarà un problema serio, anche perché l’adesione dei Paesi dell’Est non può compensare queste assenze. Semmai, il contrario: più l’euro sarà composto da monete di Paesi economicamente deboli, più rischierà di diventare esso stesso debole.

Un’ultima considerazione, che riguarda esclusivamente il nostro Paese. Intanto, occorre ricordare gli anni in cui i rapporti di cambio tra le valute europee subivano frequenti modifiche e gli industriali facevano fatica a programmare le campagne di acquisti e vendite. Ora, è vero che le oscillazioni del cambio dollaro-euro oggi comportano le stesse difficoltà. Ma è altrettanto vero che il commercio dei Paesi membri dell’Ue è in gran parte intraeuropeo e che tale commercio è stato molto facilitato dall’esistenza di una moneta unica.
Si aggiunga che l’euro ha avuto per effetto la diminuzione dei tassi di interesse e dei costi per il trasferimento del denaro: due vantaggi di cui qualche impresa oggi, per meglio lamentarsi, tende a dimenticare l’importanza. Si aggiunga, infine, per completare il quadro, che la lira, se ancora esistesse, sarebbe stata travolta dalle crisi finanziarie degli ultimi due anni.
C’è chi sostiene che il nostro Paese avrebbe potuto svalutare e trarne vantaggio per le proprie esportazioni, come accadde nell’autunno del 1992. Ma chi invoca il toccasana delle svalutazioni ricorrenti dimentica che in un mercato unico, dove i dazi e il protezionismo amministrativo sono stati aboliti, nessun Paese permetterebbe ad un altro di acquisire vantaggi indebiti cambiando a proprio piacimento il valore della moneta nazionale.
Resta il problema dell’inflazione. Se si dà un’occhiata al tasso di inflazione degli altri Paesi dell’Unione europea, si può constatare che quello dell’Italia è su per giù il doppio di quello della media europea. Dunque: se i prezzi sono saliti, la colpa è in buona sostanza italiana. Siamo uno dei Paesi continentali in cui molti settori sono dominati da grandi monopoli e la concorrenza è limitata o frenata da cartelli, disposizioni amministrative, barriere corporative, interessi settoriali. L’euro, se non altro, ha avuto il merito di mettere in evidenza tutto questo. Anziché attribuirgli la colpa dei nostri mali, cerchiamo di correggerli.

   
   
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